IL PIANO DEL MINISTERO
Cure domiciliari per tutti, tranne che per i malati covid
Speranza scopre i vantaggi delle cure a casa e stanzia 4 miliardi per un sistema sanitario pubblico/privato per assistere i malati da casa e ridurre le ospedalizzazioni. Eppure nella lotta al covid il protocollo terapeutico è ancora Tachipirina & vigile attesa mentre il comitato cure domiciliari viene ignorato dal ministro ma riceve migliaia di richieste anche di contagiati vaccinati. Il problema sta solo nella volontà politica di curare.
Il ministero della salute lo presenta come una svolta nel campo delle cure domiciliari. Arrivano 4 miliardi dai fondi PNRR in cui portare l’assistenza pubblica direttamente a casa. Sono previste convenzioni pubblico/privato attraverso le quali accreditarsi e poter offrire un servizio sanitario che fino a ieri si doveva svolgere esclusivamente a livello ospedaliero o ambulatoriale. “Saremo in grado di curare meglio le persone, evitando il ricorso all’ospedale quando non è necessario e utilizzando al meglio le risorse”, ha dichiarato il ministro della Salute Speranza. Il protocollo siglato da Regioni e Stato si riferisce in generale a tutta la sanità e sembra aprire a importanti risparmi, dato che un ricovero ospedaliero mediamente costa 600 euro mentre una cura a domicilio appena 60. L’accordo tra Stato e Regioni dovrà mettere ordine tra le disparità locali dato che non tutte le Asl sono attrezzate per seguire per determinate patologie i pazienti direttamente a domicilio.
Ci sarà un sistema di accreditamento che oggi investe soltanto piccole cooperative, si pensi ad esempio alle assistenti sociali e infermiere che vanno a casa degli anziani con gravi patologie per la alzata mattutina o la pulizia e che senza questi aiuti dovrebbero essere ricoverate se non addirittura messe in ospizio.
Una spinta verso la razionalizzazione, l’efficientamento e la sussidiarietà, sembrerebbe, di cui rallegrarsi.
Il covid non c’entra direttamente, perché l’accordo quadro che sarà finanziato con i fondi europei si rivolge alla sanità tutta, ma il covid viene comunque evocato tanto che il Corriere della Sera, nel commentare in coda si chiede: “Se questa organizzazione fosse stata omogenea e efficace su tutto il territorio nazionale sarebbero stati evitati tanti ricoveri a persone positive con forme di Covid lievi che avrebbero potuto essere trattate a casa”.
Il fatto è che è un’affermazione fuorviante. Nella lotta al covid non è stato un problema di mancanza di strutture, ma di volontà politica nel promuovere le cure domiciliari. Sarebbe bastato ad esempio fidarsi delle decine di migliaia di medici che il covid l’hanno curato con percentuali bassissime di ospedalizzazioni e insistere sul covid at home per normalizzare la pandemia. È andata come abbiamo purtroppo raccontato.
Nell’ultimo anno e mezzo, parlare di cure domiciliari evoca un solo concetto: la terapia del covid a casa per evitare le ospedalizzazioni e gli intasamenti in terapia intensiva. Ebbene: è curioso che il governo e il ministero che più di tutti hanno avversato questo principio fondamentale per la cura del covid, insistendo ancora oggi nella difesa del protocollo tachipirina & vigile attesa, poi si metta a “sposare” per massimi sistemi le cure domiciliari per tutte le altre patologie.
Verrebbe da domandarsi quale grado di autorevolezza abbia il ministero che ha sempre rifiutato la revisione del protocollo di cura domiciliare, ancor oggi insufficiente e propedeutico a un ricovero (come noto ormai ai sassi, il covid si cura precocemente), e contemporaneamente pensa di proporlo per tutto il sistema sanitario.
Curioso, poi, che proprio il Ministero non abbia ancora dato una risposta al comitato per le cure domiciliari che da inizio pandemia si batte per l’affermazione del covid at home sostituendosi, con coraggio, con i suoi medici al sistema di cura pubblico che non ne vuole sapere di curare il virus. Intanto però, gli scippa l’idea. Evidentemente anche dalle parti di Speranza ci si è accorti che la domiciliazione terapeutica porta indubbi vantaggi a tutti: ai malati, ai famigliari, ai medici, alle strutture ospedaliere e alle casse pubbliche. Però, in un misto tra ipocrisia e cecità, mentre con una mano si promuovono le cure domiciliari per tutte le patologie, le si negano tenacemente ancora oggi ai malati di covid.
Sulla pagina Fb del Comitato, che il 1° settembre dovrebbe essere ricevuto da Speranza, si incontrano in continuazione le richieste di aiuto di persone, anche vaccinate con doppia dose Pfizer, che chiedono aiuto per essere curate dopo un contagio. Il tema delle cure, dopo l’esplosione della campagna di vaccinazione di massa, è sparito dai radar. Eppure, il virus continua a diffondersi e a infettare anche i vaccinati. Ma di cure precoci ancora non se ne deve parlare. Intanto però stanziamo 4 miliardi per promuovere le cure domiciliari che neghiamo ai malati covid. Una beffa, oltre al danno.
Andrea Zambrano
https://lanuovabq.it/it/cure-domiciliari-per-tutti-tranne-che-per-i-malati-covid
di Sabino Paciolla
Ma quante dosi di vaccino COVID ci inietteremo in un anno? E una domanda che legittimamente in molti cominciano a porsi. Seguendo le notizie che arrivano, è giusto sollevare qualche interrogativo, anche perché in gioco c’è la propria salute.
Era stato detto con tanta enfasi e sicurezza che “il vaccino ci rende liberi”. Per questo, molti sono stati indotti a pensare che fatta la prima dose, fatto il richiamo, il gioco era concluso e l’agognata libertà sarebbe ritornata. Purtroppo, stando sempre alle notizie che ci arrivano, sembra che lo scenario non sia proprio così roseo.
Intanto il presupposto su cui era basato lo slogan “il vaccino ci rende liberi” era quello della immunità di gregge. Ci veniva detto che, raggiunta una determinata soglia di vaccinazione, che da molti era stata fissata intorno al 60-70% della popolazione vaccinanda, il virus sarebbe scemato in quanto avrebbe smesso di diffondersi in modo esponenziale perché un numero sufficiente di persone era protetto contro di esso, quindi si sarebbe estinto. A nulla sono valse le avvertenze di alcuni che facevano presente che il coronavirus è un virus che muta in continuazione (abbiamo superato già le mille mutazioni), e che durante la pandemia non si avvia una vaccinazione di massa in quanto si spinge il virus verso una mutazione più resistente. Cosa che sembra essere avvenuta.
In questo anno e mezzo, abbiamo sperimentato delle mutazioni del virus sempre più contagiose, fino ad arrivare alla Delta, la variante indiana, che presenta un carattere di contagiosità piuttosto accentuato, sicuramente il più alto. Come ha detto Fauci, l’immunologo consigliere di vari governi USA, la variante Delta presente nel naso delle persone è circa 1.000 volte superiore a quella Alfa, la variante inglese, che a sua volta era già più contagiosa della originaria di Wuhan. Questo ha fatto saltare le previsioni di raggiungimento della immunità di gregge, poiché la variante ha spostato l’asticella sempre più in alto, verso l’85-90%, un livello tale da alcuni reputato ormai irraggiungibile o addirittura un miraggio.
“Riusciremo a ottenere l’immunità di gregge? No, molto improbabile, per definizione”, ha affermato Greg Poland, direttore del Vaccine Research Group presso la Mayo Clinic di Rochester, Minnesota.
Anche un tasso di vaccinazione fino al 95% non la farebbe raggiungere, ha detto. “È una corsa a rotta di collo tra lo sviluppo di varianti sempre più altamente trasmissibili che sviluppano la capacità di eludere l’immunità e i tassi di immunizzazione”.
“L’attenzione sull”immunità di gregge’, a mio avviso, è stata piuttosto dannosa”, ha affermato a sua volta William Hanage, epidemiologo ed esperto di dinamiche di malattie trasmissibili presso la Harvard TH Chan School of Public Health. “Offre alle persone una visione irrealistica di come la pandemia si conclude e non tiene conto dell’evoluzione né del virus né della natura della malattia nelle reinfezione”
La variante Delta, oltre ad avere una maggiore contagiosità, sta dimostrando anche di eludere in qualche modo la protezione offerta dal vaccino covid. Le case farmaceutiche affermano che la efficacia del vaccino, nonostante si sia abbassata, rimane comunque alta. Quanto? Non è chiarissimo. Infatti, i dati che vengono dal Regno Unito parlano di una riduzione dell’efficacia di alcuni punti, mentre i dati che vengono da Israele e da altri centri, come dalla suddetta Mayo Clinic, presentano una riduzione piuttosto accentuata della efficacia del vaccino Pfizer che oscillerebbe tra il 55% ed il 42%. “Non sappiamo esattamente in che misura il vaccino aiuti, ma è significativamente più basso”, ha detto il primo ministro Naftali Bennett riferendosi alla efficacia dei vaccini rispetto alla Delta.
Non è dato neanche sapere al momento se la natura ci risolverà il problema della pandemia mediante l’immunità che viene dalla guarigione da una infezione da SARS-COV-2. Alcuni dati che vengono sempre da Israele, il paese che ha fatto da laboratorio sperimentale a cielo aperto per il vaccino Pfizer, sembrerebbero dire che l’immunità naturale sia superiore a quella “artificiale”. Alcuni dicono che sia di più lunga durata e di più vasta portata in termine di raggio di azione, nel senso che potrebbe meglio combattere le varianti come la Delta e quelle eventualmente future che si presentassero. Staremo a vedere.
Una cosa sembra evidente, i vaccini finora non sono stati la soluzione rapida e definitiva che alcuni speravano, soprattutto perché non bloccano il contagio. E’ vero, la risposta immunitaria indotta dal vaccino tende a rendere la malattia COVID-19 meno aggressiva e mortale. Almeno così al momento sembra. C’è però da dire a questo proposito che i dati che vengono sempre da Israele, uno dei paesi al mondo più avanti nella vaccinazione della sua popolazione, non sono proprio confortanti, proprio per la fuga immunitaria e per la dimostrata riduzione temporale della protezione offerta. Si vedano i grafici qui sotto.
E’ per questo che Israele, a fine luglio, ha cominciato a vaccinare con la terza dose le persone con più di 60 anni, età che presto sarà abbassata a 50 anni. Il richiamo del vaccino dovrà avvenire ad almeno 5 mesi dalla seconda iniezione. Questo farebbe pensare che tra cinque mesi, nel caso si ripetesse il calo della protezione di questa ulteriore dose, si potrebbe presentare la necessità di una nuova. Ciò significa che nell’arco di 12 mesi ad un israeliano sarebbero iniettate 4 dosi di un vaccino che, ricordiamolo, è ancora sperimentale.
E’ su questa scia che anche gli Stati Uniti di Biden si stanno avviando verso la terza dose per tutti, proprio per combattere l’immunità calante e la variante delta. Nel caso degli USA, il richiamo dovrebbe avvenire non prima degli 8 mesi dall’ultima iniezione. La somministrazione del richiamo non avverrà prima della metà o della fine di settembre, dopo che la domanda di Pfizer-BioNTech per i richiami aggiuntivi sarà stata autorizzata dalla Food and Drug Administration (FDA), l’ente che autorizza l’immissione sul mercato dei farmaci.
Quello della terza dose di vaccino, è un cambiamento repentino visto che non più tardi di luglio, i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) e la stessa FDA avevano rilasciato una dichiarazione che diceva: “Gli americani che sono stati completamente vaccinati non hanno bisogno di una dose di richiamo in questo momento”. Un cambiamento evidente anche nelle certezze espresse pubblicamente da parte di Rochelle Walensky, direttrice dei CDC.
Alcuni, però, all’ipotesi di una terza dose hanno mostrato più di una perplessità. In Italia, ad esempio, il prof. Massimo Galli, infettivologo presso l’Università di Milano, sostenitore acceso del vaccino e di lockdown a ripetizione, ha detto (qui il video) che i fautori di questa spinta sono le case farmaceutiche, che hanno già molto guadagnato, e che, proprio per questo, vede questa scelta caratterizzata più da una natura politico-burocratica che sanitaria. Inoltre, dice sempre il prof. Galli, questi vaccini presentano ancora la originaria sequenza di Wuhan che non sarebbe oramai più adeguata a fronteggiare le varianti attualmente in essere.
Altri scienziati, a conclusione di uno studio con modellazione molecolare, hanno affermato che vaccinare con un vaccino che contenga la sequenza originaria di Wuhan, in presenza della variante Delta, potrebbe esporre a un potenziale rischio di ADE.
In conclusione, tutta questa storia ci suggerisce che la soluzione al problema della pandemia da coronavirus individuata nel vaccino, intesa come unica soluzione, abbia il fiato corto, o che comunque non sia l’ottimale. Occorrerebbe un approccio variegato con strumenti di varia natura che vadano dal vaccino alle cure domiciliari, a nuovi farmaci, all’uso di medicinali già autorizzati e sperimentati da anni per altre malattie, di cui già si conoscono gli effetti avversi, ma che presentano opportunità inedite per la cura della covid. Ciò significa che bisogna che cadano tutte le chiusure e l’ostracismo nei confronti di cure che non siano riconducibili al solo vaccino e che sia ripristinata la fiducia e l’alleanza terapeutica medico-paziente. Il medico deve poter operare liberamente in scienza e coscienza, ed il paziente deve decidere secondo il consenso libero e informato.
Il vaccino è una buona arma per le persone di qualsiasi età con patologie varie, in quanto sollecita una risposta immunitaria immediata che attenua la gravità della malattia. Per tali persone fragili, la bilancia rischio/beneficio potrebbe pendere dalla parte del beneficio.
D’altra parte, un farmaco lo si dà solo alla persona malata, non a quella che è infettata ma asintomatica. Per questo, gli effetti collaterali non immediatamente conosciuti di farmaci nuovi e sperimentali ricadrebbero solo su alcuni, gli ammalati disposti a correre il rischio, e non su tutti, come invece accadrebbe nel caso di un vaccino nuovo sperimentale che venga iniettato a più riprese e a tappeto su tutta la popolazione mondiale, i cui effetti a medio lungo termine, ricordiamolo, non sono al momento conosciuti
https://www.sabinopaciolla.com/ma-quante-dosi-di-vaccino-covid-ci-inietteremo-in-un-anno/
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