sac. dott. Luigi Villa (pp. 203 - Euro 20)
Questo mio nuovo libro analizza i più gravi errori contenuti nel Vaticano II, il
quale ha perfino cambiato la definizione della Chiesa, non più società divina, visibile, gerarchica, fondata da Nostro Signore Gesù Cristo, ma “comunione” con tutte le altre religioni cristiane non cattoliche e anche
con quelle non cristiane persino con i non credenti. Una “nuova Chiesa” che ha collettivizzato anche i Sacramenti; una “nuova Chiesa” che ci
ha dato un orientamento nuovo, radicale, grave che non è più cattolico, perché va distruggendo la vera Religione fondata da Gesù Cristo con un carattere eterno. Ora, la Verità che noi professiamo è DIO, è Gesù Cristo che è Dio, e che, quindi non cambia.
Questo libro, però, non vuole fare polemiche, ma invitare a pregare di più per santificarci, per la salvezza delle anime e per la gloria di Nostro Signore Gesù Cristo!
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Operaie di Maria Immacolata e Editrice Civiltà
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estratti da pontifex.Roma.it
PROEMIO - Nonostante tutti i silenziari, messi in azione dall’autoritarismo post-conciliare, i miei scritti dati alle stampe, per il loro studio critico sul Concilio Vaticano II hanno fatto un certo rumore, per aver scoperto e denunciato i molteplici “errori” contenuti nei testi conciliari (Costituzioni, Decreti, Dichiarazioni). Finora, solo una certa parte dei critici cattolici si erano limitati a denunciare i sofismi, le contraddizioni, i colpi di mano, i misteriosi arbitrii dei documenti post-conciliari. Ma nessuno aveva puntato l’indice contro lo stesso Vaticano II, mediante uno studio sistematico, impostato su un confronto diretto dei suoi testi con i testi dogmatici del Magistero di sempre attraverso la Tradizione di venti secoli di Concili ecumenici infallibili e dell’insegnamento di tutti i precedenti Sommi Pontefici. È chiaro che questo studio presuppone la questione pregiudiziale della “qualifica teologica” da attribuire al Vaticano II se coperto ...
... dal carisma dell’infallibilità o no. I migliori teologi lo hanno escluso, anche perché risulta con tanti gravi “errori” già condannati dal Magistero solenne della Chiesa. Si può osservare anche che nei testi del Vaticano II mancano le definizioni dogmatiche e le relative condanne per chi non accetta la dottrina.
Ma il Vaticano II ha nulla definito.
Quindi, nessuno può appellarsi ad esso, anche per svariati motivi. Ad esempio: nella “Costituzione liturgica” venne deliberatamente ignorata la dottrina di Pio XII nella sua “Mediator Dei”; come pure venne ignorata la “Pascendi” di San Pio X, in cui viene condannato il modernismo; così pure nella dichiarazione sulla “libertà religiosa” fu ignorato il “Sillabo” di Pio IX, che condannava, al n° 15, la tesi di chi afferma che ciascun uomo è libero di abbracciare quella religione che, in coscienza, gli sembra vera, il che esclude i diritti di Dio rivelante, dinanzi al quale l’uomo non ha alcun diritto di scelta, ma solo il dovere di ubbidire. Al n° 14, condanna pure chi asserisce che la Chiesa non ha alcun diritto di esercitare la potestà giudiziaria e coercitiva.
Son solo esempi, ma si potrebbe continuare, come faremo in tutto il nostro lavoro, dimostrando che il Vaticano II fu condotto sull’orlo della rovina.
Io credo che verrà un giorno in cui il Vaticano II sarà dichiarato “nullo”, in una sentenza solenne di un Sommo Pontefice, che lo farà apparire come un sasso erratico, abbandonato sul fondo di un cimitero.
«I problemi della Fede
vanno anteposti a tutti gli altri,
poiché la Fede è la sostanza
e il fondamento
della religione cristiana».(San Pio V)
vanno anteposti a tutti gli altri,
poiché la Fede è la sostanza
e il fondamento
della religione cristiana».(San Pio V)
INTRODUZIONE - Il Concilio Vaticano II è stato uno dei più lunghi, dall’annuncio alla chiusura. È durato 5 anni, 10 mesi e 34 giorni. Fu un Concilio dei più laboriosi: 168 Congregazioni generali; più di 6000 Interventi scritti e orali; 10 Sessioni pubbliche; 11Commissioni e Segretariato; centinaia di periti. In più ha emanato 4 Costituzioni, 9 Decreti, 3 Dichiarazioni. Per questo, fu paragonato a una aratura nel campo della Chiesa. Ma alla chiusura del Vaticano II, la Chiesa si aprì a una stagione di cedimenti alla mondanità. I suoi frutti, cioè, furono la desacralizzazione, il democratismo, la socializzazione e la banalizzazione della Chiesa, che il cardinale Ottaviani definì «impressionante allontanamento dalla dottrina cattolica». Come fu possibile che tre Papi abbiano accettato una dottrina chiaramente in contraddizione con quanto avevano affermato ben 260 Pontefici? Mons. Spadafora, il grande professore all’Università del Laterano, e “perito” per la Sacra ...
... Scrittura, ha affermato: «Il Vaticano Il è un Concilio anomalo».
L’improvviso capovolgimento della linea dottrinale cattolica, operato da una Alleanza di Cardinali e vescovi francesi e belgi, animati dai periti Rahner, Küng, De Lubac, Chenu, Congàr, e dai gesuiti del Pontificio Istituto Biblico, ha fatto del Vaticano II un nefasto “conciliabolo” di Concilii dei “periti” neo-modernisti, che hanno ingannato la massa ignara dei Padri conciliari. Ma come hanno colpito la dottrina della Chiesa?.. Non c’è verità rivelata che sia stata lasciata intatta, ad incominciare dalle due Costituzioni presentate come espressioni essenziali proprie del Concilio: la “Lumen Gentium” e la “Gaudium et spes”, con errori dogmatici, come l’espressione per cui il Corpo Mistico di Gesù Cristo “sussiste” nella Chiesa cattolica, che contraddice l’identità espressa da San Paolo, cioè il Corpo di Cristo, e contro il Magistero perenne, infallibile, della Chiesa, contraddicendo anche il dogma “fuori della Chiesa non c’è salvezza”... Per tacere, poi, dei Documenti palesemente erronei: “Nostra aetatae” (sulle religioni non cristiane) e “Dignitatis humanae” (sulla libertà religiosa); errori che sono all’origine di manifestazioni eretiche e sincretiste, come la giornata ecumenica di Assisi.
Ma allora, lo Spirito Santo non aiutò i Papi del Concilio?.. Mons. Spadafora spiega così: «L’assistenza dello Spirito Santo presuppone che, da parte del Papa, vi sia una corrispondenza senza riserve; se questa corrispondenza manca, l’assistenza dello Spirito Santo è puramente negativa, cioè impedisce solo che il Vicario di Cristo imponga alla Chiesa, come un dogma infallibile, l’errore».
Dopo quello sopradetto, la Chiesa malata di Concilio si sta sviluppando, soprattutto su: l’eresia maggiore della “Libertà religiosa”, l’eresia della “Fraternità” universale.
Quindi, il post-Concilio non è altro che la conseguenza naturale e necessaria del Concilio, il paniere dei cattivi frutti di quell’albero inquinato che assicurarono la continuità, la legalità dell’azione dei Papi Paolo VI e Giovanni Paolo II.
La conclusione, perciò, dovrebbe essere chiara: un ritorno a un Vaticano III di un Papa riparatore.
Ma l’attuale Papa, Benedetto XVI, ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per il clero del 16 marzo 2009, ripeté la necessità di rifarsi all’ininterrotta Tradizione ecclesiale, e di «favorire nei sacerdoti, sopratutto delle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa».
E nella “Lettera” del 10 marzo 2009, disse:
«... deve essere richiamato alla memoria che il Vaticano Il porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive».
Quindi, secondo Benedetto XVI, il Vaticano II è credibile solo se lo si vede come una parte dell’intera e unica Tradizione della Chiesa e della sua Fede.
Anche il portavoce della Santa Sede, Padre Lombardi, il 15 gennaio 2010, ha detto: «Le conclusioni del Concilio Vaticano II e in particolare il documento “Nostra Aetate” non sono in discussione». Poi, ha precisato che, come il Papa ha più volte indicato, l’adesione al magistero del Concilio Vaticano II, di cui la Dichiarazione “Nostra Aetate” è un documento essenziale e condizione per la vera comunione ecclesiale.
Per noi, invece, il Vaticano II è in contrasto con la Tradizione della Chiesa. Difatti, il Vaticano II ha rappresentato una “nuova Pentecoste”, un “evento carismatico” che ha rifatto la Chiesa, liberandola dalla Tradizione.
Forse che il Vaticano II non fu detto dagli stessi Papi (Giovanni XXIII e Paolo VI) esecutori e dirigenti di un “Concilio pastorale e non dogmatico”? Quindi, la sua “pastoralità” consiste, in ultima analisi, nella relazione della Chiesa con il mondo, e questo lo rende un Concilio diverso dagli altri, appunto perché privo di un carattere dottrinale “definitorio”. Strano, perciò, che l’assenza di intenti definitori contraddice la qualifica “dogmatica” delle due Costituzioni: la “Lumen gentium” e la “Dei Verbum”, che furono riproposte come “Costituzioni dogmatiche”, perché riproposte come verità di fede, dogmi definiti in precedenti Concili (pp. 50-51). Ma, rimane evidente che anche gli altri do-cumenti del Vaticano II non hanno il carattere dogmatico, per cui le loro dottrine non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili, quindi nemmeno vincolanti; chi le negasse, non per questo sarebbe formalmente eretico. Chi poi le imponesse come infallibili ed irreformabili, andrebbe contro il Concilio stesso.
Quindi, si potrebbe accettare un’indole dogmatica solo quando il Vaticano II ripropone come verità di fede i dogmi definiti già in precedenti Concili.
«Le dottrine, invece, che gli son proprie, non potranno assolutamente considerarsi dogmatiche, per la ragione che son prive dell’ineludibile formalità definitoria e, quindi, della relativa “voluntas definiendi”» (p. 51). Perciò, i testi che presentano una loro ambiguità, possono essere oggetto di critica, storica e teologica.
Un esempio lo possiamo avere con la “Costituzione pastorale”, la “Gaudium et Spes” sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, dove il termine “pastorale” diventa un termine umanistico di simpatia, di apertura, di comprensione verso l’uomo, la sua storia e “gli aspetti della vita odierna e della società umana”, con particolare attenzione ai “problemi che sembrano oggi più urgenti”.
La “Gaudium et Spes” quindi, è un documento pregno della cultura e delle istituzioni (GS 53), del progresso economico e sociale (GS 66), del progresso tecnico (GS 23), e del progresso umano (GS 37.39.53.72). Come si vede, si tratta di un “cristianesimo nuovo” che allarga i confini “ai cristiani anonimi” di Karl Rahner, e a quelli di Schillebeeckx, e ai cristiani “maturi” dell’assise conciliare.
È chiaro, perciò, che la “Gaudium et Spes” è un documento pastorale, privo di valore vincolante, per cui si esclude ogni intento definitivo. Ma allora, perché i seguaci del progressismo vorrebbero farne un “dogma”, o come verrebbero fare un dogma assoluto anche del Concilio, che pure aveva ben chiarito di non voler affermare alcun principio assoluto.
Eppure, il risultato concreto del bilancio post-concilio fu riconosciuto dallo stesso Benedetto XVI nel suo “Rapporto sulla Fede”, dove è scritto:
«È incontestabile che gli ultimi vent’anni sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica. I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti, a cominciare da quelle di Giovanni XXIII e di Paolo VI (...). Ci si aspettava un balzo in avanti, e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è venuto sviluppando in larga misura sotto il segno di un richiamo a un presunto “spirito del Concilio”, e in tal modo lo ha screditato (...) La Chiesa del dopo Concilio è un grande cantiere, ma è un cantiere dove è andato perduto il progetto e ciascuno continua a fabbricare secondo il suo gusto».
Fu un vero “tsunami” limaccioso e travolgente! E non è difficile provare, ora, che il Vaticano II non è stato nel solco della Tradizione, bensì una quasi totale rottura col suo passato!
È stato lo stesso Paolo VI ad ammettere, con quel suo discorso all’udienza generale del 15 luglio 1970, questa situazione disastrosa della Chiesa:
«L’ora presente... è ora di tempesta! Il Concilio non ci ha dato, per ora, in molti settori, la tranquillità desiderata, ma piuttosto ha suscitato turbamenti …».
Davanti a questo fatto sconcertante, mi viene di ricordare il passo evangelico di Giovanni, al capo XI, 51:
«… hoc autem a semetipso non dixit ... sed cum esset Pontifex anni illius … profetavit».
Un Papa del Concilio, quindi, ha confessato (suo malgrado?) la dura realtà umiliantissima per tutta la Chiesa.
E questa “confessione” di Paolo VI mi ha dato la spinta per questo mio lavoro storico-teologico sul Vaticano II. Per questo, userò la tecnica indicata dal Divino Maestro nel passo di San Luca:
«De ore tuo judico... serve nequam!..». (Lc. XIX, 22).
Perciò, per stabilire il confronto tra la dottrina del Vaticano lI e quella delle definizioni infallibili dei Concilii Ecumenici e dei Papi della Tradizione di venti secoli, mi servirò dell’ “Enchiridion Symbolorum, Definitionum, et Declarationum de rebus fidei et morum”, del Denziger.
Purtroppo, il Vaticano II si è proposto di “riformare tutto” nella Chiesa, sotto l’etichetta capziosa del “fine pastorale”, compresa l’esposizione della Dottrina dogmatica, come si espresse chiaramente Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura del Concilio dell’11 ottobre 1962:
«È necessario(?) che questa dottrina ... certa e immutabile ... sia approfondita e presentata in modo ... che risponda alle esigenze del nostro tempo!».
Quindi, non secondo le esigenze intrinseche della Volontà di Dio rivelante, ma secondo le esigenze dell’uomo del nostro tempo!.. Ora, questo, è un vero capovolgimento dell’ordine soprannaturale!.. Infatti, era un piano del modernismo, che voleva adattare la Legge Divina (= Rivelazione) alla volontà dell’uomo!
E così i “fatti” furono disastrosi, aperti a tutte le eresie, senza che la Gerarchia cattolica abbia mai fatto alcuna resistenza. I Catechismi di tipo olandese risposero proprio alle esigenze dei tempi moderni, sopprimendo, infatti, tutto il soprannaturale.
Il fine pastorale, quindi, non è servito che a far confusione tra i termini “dogmatici” e “pastorali”. Lo stesso Papa Giovanni XXIII non ha saputo darci un esempio pratico di come si potesse presentare la dottrina certa e immutabile in una forma diversa da quella tradizionale di venti secoli, senza mutarne radicalmente il senso!..
C’è da domandarsi: come mai l’assemblea dei Padri conciliari non mostrò neppure di accorgersi della insidia di quella strana idea di cambiare la forma di esporre la dottrina, che già da un mezzo secolo e più, era il chiodo fisso e il programma massimo del modernismo? E come mai non si allarmarono delle parole di sfida che Giovanni XXIII aveva rivolto contro i “profeti di sventura”, che annunciano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo?.. Era, allora, un gesto da “nuova Pentecoste” che avrebbe fatto fiorire la Chiesa quell’estendersi maternamente verso i campi della umana attività?..
Lo si vide subito: la profezia giovannea non fece fiorire la Chiesa, ma, anzi, fu l’inizio di una catastrofe! Davanti all’evidenza dei fatti, sarà lo stesso Paolo VI a dire, nel discorso del 7 dicembre 1968, al Seminario Lombardo:
«La Chiesa si trova in un’ora di inquietudine e di autocritica... si direbbe perfino … di auto-distruzione»!
Fu un vero disarmo in piena battaglia, introdotto dal Papa Giovanni nel suo discorso dell’11 ottobre 1962:
«Sempre la Chiesa si è opposta agli errori; spesso li ha anche condannati con la massima severità... ora, tuttavia, la sposa di Cristo... preferisce usare la medicina della misericordia, piuttosto che quella della severità»!!
E così il “piano modernista massonico” si poté realizzare, tramite un Papa (pure “massone”!). Un “piano” che smantellava e abbatteva tutte le mura, sguarniva tutte le difese, disarmava tutti i combattenti e liberava ogni propaganda disfattista!
«O infelix astutia!» (S. Agostino), quale fu il disonore che ha avvolto il Vaticano II, perché non l’ha impedita, ma anzi fatta sua!.. Il rifiuto del Vaticano Il di impegnare il carisma dell’infallibilità, contiene la vera spiegazione di tutte le funeste ambiguità che si trovano tra le sue pagine, e persino “eresie” vere e proprie.
Il fine di questo mio studio è, perciò, di fissare le idee sui vari aspetti del tema che va trattato, alla luce della dottrina infallibile del Magistero solenne della Chiesa.
Il mio agire, in questo senso, di accusa contro il Vaticano II, quindi, è screditare la tentazione di resa incondizionata agli “errori”, ormai penetrati nell’animo dei più, che condizionano ormai la vita spirituale dei pochi fedeli a tutti i livelli della Chiesa.
Perciò, si deve poter discutere liberamente sull’ortodossia o meno del Vaticano II, e analizzare i testi di un “Concilio pastorale” che viene imposto, invece, come dogmatico e, quindi, come unica referenza magisteriale d’ora in avanti.
Occorrono, perciò, non solo precisazioni sul senso dei termini, ma anche revisioni e rettifiche.
Dal Vaticano II uscì, infatti, una “lingua nuova” per comunicare meglio col mondo moderno.
Il “gesuita yankee”, John O’Malley, ha scritto un libro: “Cosa è successo nel Vaticano II”, in cui rende “inadeguate” le note contrapposizioni liberali-conservatori, per comprendere i conflitti che ebbero luogo nel Vaticano II. Nel suo libro, infatti, parla di “una rete di interconnessioni veramente notevoli” che sottintende ai documenti del Vaticano II.
Questa “rete” riguarda un nuovo vocabolario. I documenti dell’assise conciliare presentano una novità linguistica che si applica a diverse questioni; basti pensare a parole come “dialogo”, “collegialità”, “sviluppo”, “fratelli e sorelle”, “coscienza”... Il linguaggio si staglia come una grande novità, perché descrive e prescrive azioni nuove da parte della Chiesa”.
Karl Rahner qualificò il Concilio come un momento di nascita della “Chiesa mondiale”, dopo la “Chiesa giudaica” e i due millenni “ellenistici”.
L’Osservatore Romano del 25 gennaio 2010, ha liquidato il valore permanente del Vaticano II, affermando che questo Concilio “va storicizzato, non mitizzato”. Dato, però, che si va proclamando che il cattolicesimo non può essere vissuto senza il riferimento al Vaticano II, qualsiasi posizione ermeneutica che ne esplori la continuità con il magistero precedente, dovrà soppesarla con la stessa autorità pontificia, per poterne, stare, poi, all’aforisma: «un Papa bolla e un altro sbolla»!
Si sa che, nella Chiesa, antica era consuetudine il reagire alle crisi dottrinali con i Concili, come a un ripensamento collettivo della Fede. Al punto in cui si trova, oggi, la Chiesa di Roma, l’alternativa tra una crisi auto-distruttiva o un cambiamento di Riforma, era già in vista dei più noti intellettuali dei nostri tempi, ricordando, però, che le rotture positive furono gli impegni della Chiesa per aprirsi a una maggiore intelligenza del “deposito della Fede” e per una maggiore fedeltà allo spirito del Fondatore!
«Se un Angelo del Cielo
venisse ad annunciare
un Evangelo diverso da quello
da me a voi annunciato, sia anatema!..
Non già che esista un altro Evangelo,
ma ci sono eretici che pretendono stravolgere la verità».
(San Paolo - lettera agli Ebrei)
Capitolo 1 - MA ALLORA, PERCHÉ UN “NUOVO CONCILIO”? - Le mentalità del Papa e dei Vescovi, nel 1962, dichiararono unanimemente che la Chiesa era in buone condizioni: la fede intatta, nessun errore che la minacciasse; la vitalità era sicura, la sua unità, la sua pace, la sua irradiazione nel mondo più che certa. Giovanni XXIII, nel suo discorso dell’11 Ottobre 1962, biasimò i “profeti di sventura” e Paolo VI lo ripeterà all’apertura della seconda Sessione. Ma allora, perché un Concilio pastorale? Forse per non fare opera dogmatica, non toccare l’essenziale della Fede, ma solo per ringiovanire il volto della Chiesa? Un “Aggiornamento”, quindi, che sarebbe stato una “Nuova Pentecoste”, che inaugurerebbe una meravigliosa “Primavera della Chiesa”! Fu un ottimismo bonario di Giovanni XXIII, indubbiamente cieco per non vedere che incominciava la lotta del modernismo per impossessarsi del Concilio, con una rivoluzione che nascondeva il suo nome! Qui, ...
... ne vedremo di elementi che oltrepassano le apparenze per mostrane, per coglierne gli “errori” di sapore modernista, di ambiguità, di linguaggio equivoco, di frasi vuote, di dottrine funeste, oltre gli errori inequivocabili contro il Magistero di sempre.
In tutto il testo del Vaticano II, mancano le definizioni dogmatiche e i relativi anatemi contro chi nega la dottrina delle rispettive definizioni. Ma il Vaticano II ha definito nulla!
In linea di diritto, poi, il Vaticano II si presenta “suspectum de haeresi”, anche per aver deliberatamente ignorata la dottrina della “Mediatur Dei” di Pio XII, come pure la enciclica “Pascendi” di Pio X e il “Sillabo” di Pio IX, che condanna (al n°15 e al n° 24) degli errori di cui si rese colpevole il Vaticano II, al n° 1 (verso la fine) e al n° 2, primo comma della “Declaratio De Libertate Religiosa”.
È evidente, quindi, la truffa contro i diritti di Dio creatore e rivelante, e contro l’insegnamento del Magistero solenne della Chiesa, espresso nel “Sillabo” di Pio IX.
Il Vaticano II, per il suo carattere “pastorale”, quasi in polemica col carattere “dogmatico” di tutti altri Concilii ecumenici, è come una di una quelle culture che isteriliscono il campo.
Dopo 60 anni di periodo post-conciliare, ci è più facile sintetizzare i gravi “errori” che hanno invaso la Chiesa. È chiaro, ormai, che gli Autori del Vaticano II volevano, come obiettivo, un nuovo umanesimo, come lo desideravano già i Pelagiani e i progressisti del Rinascimento.
I vari cardinali, Montini, Bea, Frings, Liénard, ecc.., volevano cercare una via nuova per umanizzare la Chiesa da renderla più accettabile al mondo moderno, benché intriso di false filosofie, di false religioni, di errati princìpi politici e sociali, per realizzare una unione universale di culture e ideologie sotto la guida della Chiesa. Quindi, la “Verità” non sarà più il criterio dell’Unità, ma un fondo di sentimenti religiosi, di pacifismo, di libertà, di riconoscimento dei diritti dell’uomo.
Ora, per poter realizzare quell’universalismo, si doveva sopprimere tutto ciò che è specifico della Fede, mediante l’ecumenismo, per mettere in contatto con la Chiesa tutti i raggruppamenti umani di religione e di ideologie.
Di conseguenza, si doveva modificare la Liturgia, la Gerarchia, il sacerdozio, l’insegnamento del catechismo, la concezione della Fede cattolica, il Magistero nelle università, nei seminari, nelle scuole, ecc..; modificare la Bibbia con una Bibbia “ecumenica”; sopprimere gli Stati cattolici; accettare il “diritto comune”; attenuare il rigore morale, sostituendo la legge morale con la coscienza. A ridurre gli ostacoli bisognerà lasciare la filosofia scolastica per una filosofia soggettiva che non obbliga più a sottomettersi a Dio, alle sue leggi, tralasciando la “ Verità” e la Morale alla creatività e all’iniziativa personale.
Le riforme del Vaticano II furono realizzate su quest’onda: la ricerca, la creatività, il pluralismo e la diversità. Il Vaticano II, quindi, ha aperto orizzonti vietati, prima, dalla Chiesa: accettare il falso umanesimo; la libertà di cultura, di religione, di coscienza, mettendo l’errore sullo stesso piano della verità; e revoca d’ogni scomunica riguardante l’errore, l’immoralità pubblica con tutte le conseguenze incalcolabili.
Il “nuovo umanesimo”, che il Papa Paolo VI proclamò solennemente nel suo discorso di chiusura del Vaticano II, il 7 dicembre 1965, già trattato nel discorso dell’11 ottobre 1962, lo si può sunteggiare in queste principali “eresie”:
1. Il culto dell’uomo
«Noi, più di chiunque altro, Noi abbiamo il “culto dell’uomo» (Paolo VI).
Ma d’allora, la fede cattolica in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, un solo Dio in tre Persone divine, non è più che un punto fisso attorno al quale l’umanismo secolare può accedere al suo duplice ideale: di perfezione della persona umana, in tutta la sua dignità e di unità mondiale nella pace terrestre.
Ma questi due fini ultimi “odorano di eresia”.
Nel Vangelo, infatti, leggiamo:
«Voi non potete servire Dio e Satana, e il denaro, e il Mondo». Sono eresie, quindi, che riguardano i due fini ultimi, il che esprime la rottura con il Cristianesimo che professa la necessità di credere in Gesù Cristo, non per migliorare la vita umana, ma per sfuggire l’inferno e guadagnare, invece, il Paradiso.
2. Una “nuova religione”
È un “errore” segnato dall’illuminismo pentecostale, insito nel discorso di Giovanni XXIII a San Paolo fuori le mura, il 25 gennaio 1959, in cui parla di “ispirazione”, confermata da “uno splendore di luce celeste”, e il Papa non esitò di comparare il Vaticano II come “un secondo Cenacolo”, insinuando che il “primo” Cenacolo fu il giorno della Pentecoste, mentre il “secondo” sarebbe il “Concilio ecumenico” di Roma. Ma questo illuminismo di Giovanni XXIII è “carismatismo”, perché il Papa dichiarò sul valore soprannaturale delle preghiere degli eretici e degli scismatici, e dei loro frutti abbondanti e salutari, benché essi siano “fuori del seno della Chiesa”. E se questo nessuno lo può affermare, si può dire, però, che si salvano se si convertono, diversamente, si dovrebbe dire che il Vaticano II ha fondato una “nuova religione”!
3. I “nuovi profeti” della gioia
Papa Giovanni XXIII condannò i “profeti di sventura”; una condanna che contiene la terza rottura con la tradizione dei “profeti” di tutti tempi, da Elia a Lucia, la veggente di Fatima, che hanno per Patrono lo stesso Gesù Cristo e per Patrona la Vergine del Rosario, a La Salette e a Fatima. Questi “profeti di sventura” predicano la penitenza, la conversione del cuore, il ritorno alla vera Fede a Cristo e alla sua vera Chiesa, mentre i “profeti della gioia” di Papa Giovanni XXIII, non vogliono gioie debilitanti che non portano certo alla Felicità e non sono certo di ispirazione di Dio.
Il disprezzo, l’ironia, il sarcasmo del discorso di Giovanni XXIII può avere questa spiegazione: nel 1960, tutto il mondo aspettava che fosse pubblicato il “Terzo Segreto” di Fatima, ma Giovanni XIII non ne volle sapere, preferendo la sua bonomìa e il suo carattere bonaccione, per dire che Egli di quelle cose tristi non ne voleva sapere!
Certo, il Papa non parlò “ex cathedra”, non ingaggiando, quindi, la sua autorità di Papa, ma non gli impedì che quella sua maledizione contro i “profeti del male” diventasse una specie di biglietto per il Diavolo, che si ritorse, però, contro di Lui e i suoi affiliati!
4. Idolatria del mondo
Lo possiamo dire un corollare della precedente. La Chiesa, Sposa di Cristo, prima del Vaticano II, aveva sempre lavorato “nel mondo” solo per il suo Signore. Oggi, invece, con “l’aggiornamento”, si è aggiornata verso un mondo per il quale “Gesù non ha pregato” (Giov. 17,9), ma che Paolo VI, invece, ebbe a dire di volgersi con «una simpatia senza limiti». Ma questo è uno spirito di adulterio che sottomette la Fede divina ai capricci delle masse, ispirato dal “Principe di questo mondo”, (cfr. 2 Tim. 4,3). Un atteggiamento, quindi, che sa più di “mercato” che non di “aggiornamento”!
5. Il “Modernismo”
Questa satanica “eresia” del Modernismo trionfò nel Vaticano Il, incappucciato del principio che aveva posto Giovanni XXIII: «gli uomini, sempre più convinti che la dignità e la perfezione della persona umana sono dei valori molto importanti che esigono dei duri sforzi».
Ma questo significa tradire il “deposito della Fede”, perché implica l’assioma di Giovanni XXIII: «Bisogna presentare la nostra dottrina certa e immutabile, in modo che risponda alle esigenze dei nostri tempi». Paolo VI, poi, sottolineò col dire: «In effetti, altro è il deposito della Fede, ossia le verità contenute nella nostra venerabile dottrina, e altro è la forma sotto la quale sono annunciate queste verità». Ora, questo intento fu posto come Fondamento della “Riforma” che sconvolgerà tutto il dogma senza rispettare il senso e la portata del dogma della Fede! Noi, questo, lo vediamo nella Costituzione dogmatica “Lumen Gentium”, dove vien presentato come il più grande testo che lo Spirito Santo ha sempre ispirato il Magistero cattolico (cfr. anche “Gaudium et Spes”, N. 62).
6. La “Libertà religiosa”
Questa nuova rottura con la Fede cattolica è ancora quella che abbiamo già scritto nel precedente capitolo, sempre di Papa Giovanni XXIII: «Gli uomini, sempre più convinti che la dignità e la perfezione della persona umana sono dei valori molto importanti che esigono dei duri sforzi».
Qui, la Dichiarazione “Dignitatis Humanae” ha esplicitato questa proposizione di Giovanni XXIII, e la Costituzione pastorale “Gaudium et Spes” ne trasse tutte le conseguenze, che si possono dedurre così: la dignità e la perfezione della persona umana sono tali che non permettono più di usare violenza o contrasti, ma che, invece, esigono che si riconosca a tutti la libertà, la responsabilità intera dei loro pensieri, delle loro scelte e dei loro impegni sociali e politici.
7. L’ecumenismo
Qui, l’eresia sta nell’attribuire a Gesù Cristo un desiderio di unione che Lui non ha mai avuto, perché il suo vero disegno d’unione Egli stesso lo farà riunendo tutti i popoli in un solo ovile, il Suo! Dalla Pentecoste, infatti, non c’è che la Chiesa di Cristo e fuori di Essa non c’è più un’altra religione, per cui più nessuno può salvarsi “fuori di Essa”. L’errore, quindi, sta appunto in questo: di voler rompere col dogma “Fuori della Chiesa non c’è salvezza”.
8. La salvezza garantita a tutti
Il principio direttore della Dichiarazione “Nostra Aetate” è proprio quello di cui Karol Wojtyla fornirà la giustificazione dichiarando che tutti gli uomini sono uniti a Cristo per il solo fatto che c’è stata l’Incarnazione del Verbo. Ora, questo significa non conoscere che ogni “irreligione”, dissidente la Chiesa cattolica, tutti i sistemi di ateismo o di agnosticismo, avrebbero un diritto di appartenere alla Chiesa di Cristo, che contraddice, però, la fede cattolica, tanto nella forma che nel contenuto. Ma questa “apocatastasi” di un parallelismo di diverse “fedi” e morale, tutte queste credenze personali o di gruppi religiosi, tolgono ogni stima alla nostra santa religione e sono come un disprezzo di essa.
Comunque, questi principi della Rivoluzione conciliare erano già contenuti nel Discorso d’apertura di Giovanni XXIII dell’11 ottobre 1962, e non sono affatto idee nuove, bensì la formulazione ardita e autoritaria di “errori” già condannati, come l’opinione di Origene che pensò persino a una totale e definitiva eliminazione del male e per la conversione degli stessi dannati, quindi, l’universale “ritorno” delle creature a Dio. Tale ipotesi, però, fu condannata dal Sinodo di Costantinopoli nel 543 (D-S 409-411).
«Siate forti! Non si deve cedere
dove non bisogna cedere...
Si deve combattere,
non con mezzi termini,
ma con coraggio; non di nascosto,
ma in pubblico; non a porte chiuse,
ma a cielo aperto».(San Pio X)
Capitolo II - QUALIFICA TEOLOGICA DEL VATICANO II - Abbiamo già detto che il Vaticano II, nei suoi “Decreti”, non fu coperto dal carisma dell’infallibilità, perché non volle l’uso effettivo delle definizioni dogmatiche, usando le forme definitorie, munendole, poi, della sanzione degli anatemi contro chi fosse contrario alle dottrine definite. Quindi, nessuna delle dottrine, Decreti, entrambi del Vaticano II, sono coperti dal carisma dell’infallibilità, perché il Vaticano II si è limitato ad esporre la Dottrina cattolica in “forma pastorale”. Lo si seppe da quello che dissero Papa Giovanni XXIII e Papa Paolo VI, nei due Discorsi di apertura del Vaticano II (11 ottobre 1962, per Papa Giovanni e 29 settembre 1963, per Paolo VI). L’orientamento di tutto il Vaticano Il, infatti, fu tutta una linea di “pastoralità”, sconosciuta del tutto dal Magistero di 20 secoli di Tradizione, proprio perché la retta ragione ci dice che “Dio è sempre Dio”, e “l’uomo è sempre uomo”, sempre ... ... identico nella sua natura di creatura ragionevole, sempre bisognoso dei bisogni fondamentali, sia di ordine naturale che di ordine spirituale. Lo stesso Paolo VI, nella su enciclica “Misterium Fidei” del 3 settembre 1965, tre mesi prima della fine del Concilio, fece propria, letteralmente, la Dottrina del “giuramento anti-modernista”, imposto da San Pio X a tutto il clero Paolo VI così si espresse: «Chi mai potrebbe tollerare che le formule dogmatiche dei Concilii ecumenici, per i misteri della SS. Trinità e della Incarnazione... siano giudicate non più adatte agli uomini del nostro tempo, ed altre siano ad esse temerariamente surrogate?». È evidente, perciò che queste parole di Paolo VI accusino direttamente proprio l’indirizzo balordo indicato da Papa Giovanni XXIII come “scopo principale” del Vaticano Il, con le parole: «… è necessario che questa dottrina… sia approfondita (transeat!) e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo». Sono espressioni, queste, che sottintendono che anche le formule dogmatiche non sono più adatte agli uomini del nostro tempo! Ma, allora, perché Paolo VI, nel suo discorso di riapertura del Concilio (29 settembre 1963), ha fatto proprie quelle istanze e direttive che Papa Giovanni XXIII aveva impresse nel Vaticano II, portandolo, poi, verso la catastrofe che ancora oggi subiamo? Il Vaticano II, quindi, non fu un Concilio dogmatico, per cui è inspiegabile come mai a quattro altre Costituzioni fu dato il titolo di dogmatiche, dato che né ad esse né agli altri documenti del Concilio furono definiti dei nuovi dogmi, come non furono condannati degli errori. Perciò è necessario conoscere la qualifica teologica che ebbe il Vaticano II. Come tutti gli altri Concilii eumenici che lo hanno preceduto, non vi è dubbio che il Vaticano II è ecumenico, perché: a) è stato legittimamente convocato, presieduto e firmato (nei suoi documenti e decreti) da due Pontefici; b) perché l’Assemblea dei Padri era formata dall’Episcopato mondiale. Ciononostante, il Vaticano II (nei suoi Decreti)… non è coperto dal carisma della infallibilità, per il motivo che esso non volle, e, di fatto, non ha posto in essere le condizioni tassative, necessarie per la infallibilità, e cioè: a) l’intenzione di definire come verità di fede, quelle da esso stesso insegnate, come dottrina propria (rispetto a quelle già definite da altri Concilii Ecumenici o da Pontefici); b) l’uso effettivo delle definizioni dogmatiche che siano formalmente e manifestamente tali davanti a tutta la Chiesa dei fedeli. Infatti, come insegna il Concilio Vaticano I (v. Denzinger, 3011), e come ricorda espressamente, con la medesima formula, anche il Can. 1323, par. 1° del Diritto Canonico: «Fide divina et catholica ea omnia credenda sunt, quae verbo Dei scripto vel tradito continentur, et ab Ecclesia, sive sollemni judicio, sive ordinario et universali magisterio, tamquam divinitus revelata, credenda propunutur». Il “giudizio solenne” su una dottrina, attinente la fede, può essere esercitato dai Concilii ecumenici, o anche dai sommi Pontefici da soli. Il paragrafo 3°, però, del medesimo Canone 1323, ci avverte che: «Declarata, seu definita dogmatice … res nulla intelligitur ... nisi id manifeste constiterit …». Deve essere chiaro a tutti, dunque, che il Concilio vuole definire dogmaticamente e che “di fatto” nei suoi Decreti, Dichiarazioni, Costituzioni, ha usato le formule definitorie, munendole della sanzione degli anatèmi, contro coloro che insegnassero dottrine contrarie a quelle definite. Queste condizioni furono attuate da tutti i precedenti Concilii ecumenici. Queste condizioni sono, invece, del tutto assenti, nel Vaticano II! Quindi, nessuna delle Dottrine e Decreti, che siano proprie esclusivamente del Vaticano II, è coperta dal carisma dell’infallibilità. Di “suo”, in altre parole, il Vaticano II non ha nulla che sia stato proposto con Magistero infallibile, attraverso Definizioni dogmatiche, che non si trovano in via assoluta in nessuno dei suoi Decreti. Il Vaticano II si è limitato ad esporre la Dottrina Cattolica, in forma semplicemente pastorale, e nei due Discorsi di apertura (11 Ott. 1962 - Papa Giovanni XXIII; 29 settembre 1963 – Paolo VI) rispettivamente ai numeri 55+, e 57+ e 152+ della Edizione Dehoniana dei Documenti conciliari, fece intendere che alle definizioni dogmatiche esso rinunciava, come è chiaro nella proposizione di Paolo VI, al n. 152+: «Nobis prorsus videtur, advenisse nunc tempus, quo, circa Ecclesiam Christi, Veritas magis, magisque “explorari”, “dìgeri”, “éxprimi” debeat - (N.B. addirittura “debeat”: incredibile!) – fortasse non illis enuntiationibus, quas “definitiones dogmaticas” vocant,.. sed “potius” – (di preferenza!) - “declarationibus” adhibitis, quibus Ecclesia… clariore et graviore Magisterio, sibi declarat quid de seipsa sentiat…». In questa dichiarazione papale, rivolta alla Assemblea conciliare, è assolutamente chiaro che, per Paolo VI, le definizioni dogmatiche la perdono in “chiarezza” e in “autonomia” di Magistero sulle semplici Dichiarazioni pastorali. L’incredibile battuta, spiega tante cose che turbano la Chiesa, nei Testi conciliari, propriamente detti, del Vaticano II: 1) Spiega l’assenza completa di “definizioni dogmatiche”, in tutte le varie Costituzioni, Dichiarazioni, Decreti, del Vaticano II… 2) Spiega certe funeste “illusioni”, “equivoci”, “temerarietà” di “giudizi”, di “previsioni presuntuose”, di indirizzi pieni di rischio fatale e dal suono manifesto di moneta falsa, tutta propria della complessa istanza ereticale modernista, che infestano il discorso di apertura di Papa Giovanni, il giorno 11 ottobre 1962, come le seguenti: a) (N. 37+) «Illuminata dalla luce di questo Concilio, la Chiesa… si ingrandirà di spirituali ricchezze con opportuni “aggiornamenti”…». b) (N. 40+ e 41+)… «Ci feriscono, talora, l’orecchio, suggestioni di persone, pur ardenti di zelo … ma non fornite di “senso sovrabbondante di discrezione e misura”. Nei tempi moderni, esse non vedono che prevaricazione e rovina: vanno dicendo che la nostra età, in confronto con quelle passate, è andata peggiorando …» c) (N. 41+) «A Noi sembra di dover dissentire da codesti “Profeti di sventura”, che annunziano eventi sempre infausti …». Queste, anzitutto, le “illusioni” funeste! La spaventosa realtà del disastro, in cui la Chiesa si trova oggi precipitata “di fatto” (nonostante quelle illusioni) e che tutti piangono: la esplicita e amarissima constatazione e confessione, fattane da Paolo VI, nei discorsi del 7 dicembre 1968 (al Seminario Lombardo) e il 15 luglio 1970, ai fedeli, nella consueta udienza generale, ci lasciano sbigottiti, per la manifesta “faciloneria” con cui fu “disprezzato” il senso di discrezione e di misura, che la Chiesa ebbe sempre presente, nella sua Tradizione migliore, nella esperienza delle persone, animate da zelo e da ben chiara consapevolezza dei mali, che, in ogni tempo, la affliggono e che costringono, perciò, a tenere ben aperti gli occhi, più che a chiuderli con male inteso ottimismo. Quelle “illusioni” funeste di Papa Giovanni, però, furono precedute da altre, non meno funeste “stranezze” di linguaggio e da “espressioni”, passate poi come altrettante “parole d’ordine”, di effetto demagogico, astutamente sfruttate e strumentalizzate in senso nettamente modernista, dai novatori in agguato, come la «necessità di saper distinguere i “segni dei tempi”» (della “Costituzione apostolica” di indicazione del Concilio ecumenico (al n. 4+) che poi troverà puntualmente la sua massima applicazione nel discorso di apertura (11 ottobre 1962) nella espressione paradossale (al n. 55+), di sapore troppo scopertamente modernista, in sé stessa: «È necessario, che questa dottrina … certa e immutabile … sia approfondita (prevestigetur) … e presentata (exponatur) in modo che risponda … alle esigenze … del nostro tempo …» Come dire, dunque, “è necessario che questa dottrina immutabile ‘muti’” (?) seguendo l’indicazione del “segno dei tempi”! Manifesto bisticcio di termini e interna contraddizione di intenti; infatti la espressione “in modo che risponda alle esigenze dei tempi”… (“esigenze”, che, a farlo apposta, Papa Giovanni non ci ha detto in che cosa consistano, concretamente), sposta (non senza scandalo, capovolgendo manifestamente la gerarchia dei valori) tutto il punto di gravitazione, del messaggio rivelato, il quale non può essere affatto le “esigenze” dell’uomo, bensì solamente le esigenze di Dio rivelante, il quale sapeva certamente parlare in modo da essere inteso dagli uomini di tutti i tempi! L’orientamento di tutto il Vaticano II nella direzione indicata da quelle parole di Papa Giovanni, non solamente è del tutto sconosciuto dal Magistero in venti secoli di Tradizione (presentare la dottrina, secondo le esigenze del nostro tempo), ma è anche intrinsecamente assurdo, e inconcepibile dalla retta ragione, in quanto “Dio è sempre Dio”, e “l’uomo è sempre l’uomo”, sempre identico nella sua natura di creatura ragionevole, destinataria del messaggio rivelato e i bisogni fondamentali dell’uomo, tanto di ordine naturale che di ordine spirituale, sono sempre identici. Il problema di presentare la dottrina, in modo che risponda alle esigenze di un certo tempo, di un certo periodo storico, di un certo grado e qualità di cultura, non esiste e non può esistere per la Chiesa Cattolica, se è vero che lo stesso Paolo VI, nella sua Enciclica “Mysterium fidei” del 3 settembre 1965, tre mesi prima della fine del Concilio (7 dicembre 1965), facendo propria letteralmente la Dottrina del giuramento anti-modernista, imposto da S. Pio X a tutto il clero, secondo la quale: «… omnia et singula, quae ab inerrante Magisterio, definita, adserta, et declarata sunt.. (sunt etiam)… intelligentiae aetatum omnium, atque hominum etiam huius temporis, maxime accomodata» (Denz. 3539); L’espressione: “presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo” non avrebbe senso alcuno se Papa Giovanni non fosse stato convinto (appunto come nella fattispecie presa in considerazione e condannata da Paolo VI nelle su citate parole della “Mysterium fidei”) che le formule dogmatiche dei Concili Ecumenici ecc.. “non sono più adatte agli uomini del nostro tempo …”. Che Papa Giovanni avesse appunto questa convinzione, dannata da Paolo VI, lo si evince inoppugnabilmente anche dalla incredibile insistenza a ribadire quel chiodo fisso (“presentare la dottrina, in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo”), che si legge fra le righe di quel medesimo numero 55+ (citiamo): «Bisognerà (?) attribuire molta importanza a questa forma (cioè alla forma nuova di presentare la dottrina) e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione e si dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose, che più corrisponda al Magistero … il cui carattere è preminentemente pastorale …». Come la mettiamo? Paolo VI, nella “Mysterium fidei”, condanna nettamente come temeraria anche la semplice idea di surrogare altre formule, a quelle dogmatiche dei Concili, ed anche il pretesto (inconsistente, dunque), che quelle formule “siano giudicate non più adatte agli uomini del nostro tempo …”. Eppure, se non andiamo errati, nel suo discorso di riapertura del Concilio, in data 29 settembre 1963, Paolo VI, nella parte dedicata allo Ossequio alla Memoria di Papa Giovanni, facendo espresso riferimento al di Lui discorso di apertura del Concilio, il giorno 11 ottobre 1962, ed elogiando incondizionatamente tutto il tenore e gli scopi che Papa Giovanni indicava in quel discorso, proseguiva aggravando tutti i colossali paradossi che si leggono in esso medesimo, al già citato N. 55+ della Dehoniana e che Paolo VI condannò nella “Mysterium” come abbiamo testé riferito!!! Paolo VI, ripetiamo, aggravandole, ha fatto proprie tutte quelle istanze direttive che Papa Giovanni impresse al Vaticano II, orientandolo verso la catastrofe che oggi abbiamo sotto i nostri occhi ancora increduli. La meditata, lenta, attenta lettura (ad occhi ben aperti, per lo sgomento che essa suscita immediatamente) si ferma, con infinito stupore, sul contenuto veramente inaudito per i bisticci di parole e manifesta confusione contraddittoria, fra i termini che non sono sicuramente opposti tra loro, ma sono invece “unum, idemque”, nel loro significato dottrinale e nel loro identico oggetto di insegnamento (ossia di Magistero, appunto della Chiesa) che altro non è, e non potrebbe essere, che la Verità rivelata), “confusione”, dico, e invano ostentata “contrapposizione” fra i termini “insegnamento dogmatico” e “insegnamento pastorale”, quasi ché si potesse fare una pastorale di favole, anziché di Dogmi della Rivelazione! Si ferma sul contenuto di varie espressioni che si leggono nel corso di tutto il n. 139+ della Dehoniana, come le seguenti: «… (Tu, Papa Giovanni) hai chiamato i fratelli, successori degli Apostoli … a sentirsi uniti col Papa … affinché il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace» (più efficace di “quando” e di “come”? manca una risposta!). «… Ma tu, indicando così il più alto scopo del Concilio (cioè: custodire il deposito della dottrina cristiana e insegnarlo in forma più efficace!) gli hai anteposto un altro scopo più “urgente”(?) e ora più “salutare” (?)… lo scopo pastorale (?)». Che cosa può significare questo bisticcio di parole fra “scopo principale” del Concilio e “scopo Pastorale”? Fra scopo “il più alto” (come si legge nella citata espressione) e scopo “più urgente” e ora “più salutare” che va anteposto a quello “scopo più alto”, chiamando “pastorale” quest’ultimo? Che cosa è questo mettere in concorrenza, di tempo e di urgenza, due aspetti di un medesimo problema, insegnamento del dogma in maniera pastorale che la Chiesa non solo in venti secoli ha considerato inseparabili fra loro, ma in pratica ha risolto, nella maniera più precisa, attraverso le definizioni dogmatiche e insegnato sempre nella maniera più adatta al diverso grado di intendere dei fedeli (secondo la loro cultura e secondo la loro età) con l’insegnamento catechistico e con la sacra predicazione, che ha fatto i Santi in gran numero, anche tra i fanciulli, mentre è ben certo che il Vaticano II, con le sue idee confuse, con le sue ambiguità, con gli errori che ci scapparono dentro le sue stesse righe e con la babele immensa dei documenti di esecuzione, con le frodi a catena da essi consumate (ossia col trionfo della menzogna usata come mezzo per imporre l’obbedienza, con la mancanza alla parola data, continua, insistente, contumace, che ad altro non serve che a compromettere irrimediabilmente, non solo il prestigio dell’autorità della Chiesa, ma anche la fiducia che il Vaticano II invano ha diritto di reclamare, nel contesto di tutti i paradossi, in cui si è cacciato, in maniera così stupefacente e sconcertante)… non potrà più riuscire, né a fare i Santi da altare e nemmeno a convertire i fratelli separati, fino a tanto che i missionari, i Pastori d’anime, non torneranno puramente e semplicemente alla dottrina e ai metodi di insegnamento del tempo preconciliare? Il tenore del discorso 29 settembre 1963, con l’aria di voler dire cose inedite, nuove, originali, mai pensate, per lo innanzi, dalla Chiesa, urgenti, preminenti, rispetto a tutta la tradizione, non ha fatto, in realtà, che sfondare porte aperte! Perché la Chiesa non aveva certo aspettato il Vaticano II per fare molto bene il suo “mestiere” - passi la parola profana! - di Maestra del dogma, con la pastorale pratica, avente per oggetto la enunciazione, con definizioni ben precise, del dogma medesimo e la sua “spiegazione” col mezzo della semplicità più grande possibile, a fanciulli e ad adulti. Ha sfondato porte aperte, ripetiamo, e nello stesso tempo, con la confusione di concetti, ingenerata da quelle espressioni, ha reso torbido e nebbioso ciò che, nel pre-concilio rifulgeva da secoli, nella chiarezza cristallina delle mirabili definizioni dogmatiche di Papi (si pensi, come esempio classico ed insigne, a quelle di S. Leone Magno) e Concili ecumenici (come quelli di Trento e il Vaticano I, più di un secolo fa: 1870!). Non meno chiara, nelle minute analisi, fino alle più piccole sfumature, e nelle confutazioni, con la relativa condanna della multiforme e complessa eresia modernista, che si trova nella enciclica immortale di S. Pio X, la “Pascendi” (che, non senza un motivo manifesto di interessata premeditazione, per l’imbarazzo insormontabile che quel baluardo colossale della Fede cattolica rappresentava e rappresenta alle occulte intenzioni di generale sovvertimento, che poi fu consumato dal Vaticano II) fu del tutto ignorata e non è mai citata in alcun testo dogmatico, in alcun decreto, in alcuna Dichiarazione, dei sedici documenti ufficiali di questo Concilio. Questa assenza totale di ogni riferimento alla “Pascendi” (ne siamo ben certi e inoppugnabilmente convinti!) basta da sola non solamente a proiettare fitte ombre ed a rendere “Suspectum de haeresi” tutto il Vaticano II (a motivo di una omissione così inverosimile di consultare, di tener presenti proprio i dati, il solenne giudizio di condanna, pronunciata su di essi, relativi ai problemi e agli errori dei tempi moderni, messi a nudo e smascherati fin nelle pieghe più riposte, dal gigantesco Documento del Magistero infallibile di un Papa, che è la “Pascendi”), ma anche a formulare nella maniera più facile e chiara, il primo, il più grande capo di accusa contro il medesimo Vaticano II, in un regolare processo canonico, che presto o tardi, i fedeli stessi della Chiesa Cattolica promuoveranno, con appello ad summum Pontificem pro tempore invitato per l’occasione ad impegnare, nel giudizio, il carisma della infallibilità, che non fu impegnato in nessuna fase e Documento del Vaticano II (che, pertanto, “infallibile non ne è uscito” ma “accusato”, invece, “de haeresi”, per suprema sventura della Chiesa, dopo venti secoli di Concili Ecumenici infallibili!). «Oportet oboedire Deo |
Capitolo III - COSTITUZIONE “SACROSANTUM CONCILIUM” - L’ALTARE A FORMA DI “MENSA” – Una “Nuova Liturgia” - Nella Costituzione Conciliare sulla Sacra Liturgia vi sono incredibili errori di principio dottrinale; quindi, “... a fructibus eorum cognoscetis eos!..” (Mt. VII, 16-18), e perciò, “omnis arbor, quae non facit fructum bonum... excidetur... et in ignem mittetur...” (Mt. VII, 19). In un articolo, apparso su “L’Avvenire d’Italia”, in data 23 marzo 1968, il massone mons. Annibale Bugnini, scrisse che la Commissione Conciliare, incaricata di compilare definitivamente il testo della Costituzione sulla Liturgia del Vaticano II, ebbe intenzioni chiare di imbrogliare, mediante un “modo di esprimersi cauto, fluido, talora incerto, in certi casi, e limò il testo della Costituzione per lasciare, nella fase di applicazione, le più ampie possibilità e non chiudere la porta alla azione vivificante dello “Spirito” ...
... (senza l’attributo divino: “Santo”!). Uno scritto, quindi, che la dice lunga!
Ad esempio: l’introduzione dell’altare “versus populum” venne presentato con parole mascherate, piene di cautela, nell’art. 91 della Instructio: “Oecum. Concilii”:
«È bene che l’altare maggiore sia staccato dalla parete... per potervi facilmente girare intorno... a celebrare rivolti “versus populum”» (!!).
Da notare subito il modo fraudolento di presentazione. Le Conferenze Episcopali usano, quasi sempre, il “criterio di interpretazione arbitrario”, di mutare, cioè, un “licet”, un “expedit”, un “tribui possit” di una legge liturgica, in un categorico “debet”, togliendo, così, la liceità di alternativa contraria, quando, invece, il “licet” lascia il diritto di libera scelta, riconosciuto in tutti i Codici di diritto.
Ma così si è attuato una vera e propria “aversio a Deo” per una “conversio ad creaturas”, come è avvenuto con l’introduzione dell’altare “versus populum”, e cioè, un vero “avertit faciem Deo”, a quel Dio che è realmente presente, substantialiter, in Corpo, Sangue, Anima e Divinità nel santo Tabernacolo che custodisce l’Eucarestia.
Oggi, voltate le terga al Signore, il celebrante si “converte” (“conversio ad creaturas”) al “popolo di Dio”, il quale, così, è diventato il protagonista della Liturgia. Lo conferma persino la “Institutio Generalis Missalis Romani” (art. 14), ove si legge:
«... cum Missae celebratio (i.e. “esecuzione” di tutte le cerimonie di rito sacrificale!) natura sua (contro il dogma tridentino!) indolem communitariam habeat» (!!). Quindi, “celebrazione comunitaria”!
Non c’è scappatoia. Qui, il senso ereticale del termine “indolem communitariam”, attribuito alla “Missae celebratio”, trova conferma in quello che segue la pròtesi del periodo: “dialogis inter celebrantem et coetum fidelium... (omissis)... communionem inter sacerdotem et populum fovent, et efficiunt...”!
Mentre, prima, la celebrazione “versus Deum” rendeva ogni celebrante, “il sacerdote”, “in persona Christi”, ora, con la celebrazione “versus populum”, fa invece concentrare l’attenzione dei fedeli sulla particolare “facies hominis” di un qualsiasi “don Giovanni” di una qualsiasi diocesi aggiornata alle “esigenze dei tempi moderni” ed “ai segni carismatici” del post-concilio, per una concelebrazione comunitaria “versus populum”.
E questo non è maligna ipotesi campata in aria!.. Basti pensare ai moltissimi sacerdoti (oltre 100 mila!..), che hanno buttato alle ortiche la “sottana” di prete, e agli altri che hanno assunto il primo “clergyman” e, poi, l’”habitus civilis”, più livellatore col “popolo di Dio” e, quindi, più “comunitario”, non sarebbe “temerario” pensare che ci sia una relazione stretta di “causa” ed “effetto” anche in questo “livellamento” del sacerdozio ministeriale col “sacerdozio comune” dei fedeli (in virtù del Battesimo), attuato dal Vaticano II a mezzo dell’articolo 27 della “Costituzione Liturgica”, a spregio manifesto della “Mediator Dei” di Pio XII del tutto ignorata in quella Costituzione!
Mentre nella “Mediator Dei” si legge:
«... la Messa “dialogata” (oggi detta “comunitaria”)... non può sostituirsi alla Messa solenne, la quale, anche se è celebrata alla presenza dei soli ministri, gode di una sua particolare dignità, per la maestà dei riti...».
e poi aggiunge:
«Si deve osservare che sono fuori della verità (e, quindi, non solo indisciplinati e disobbedienti!) e del cammino della retta ragione (ma il Vaticano II non se n’è accorto?..) coloro i quali... tratti da false opinioni, “attribuiscono a tutte queste circostanze” tale valore da non dubitare di asserire che, omettendole, l’azione sacra (ossia l’assistere al rito della Messa solenne, l’azione sacra non può raggiungere lo scopo prefissosi...)».
Di contro, invece, la Costituzione Conciliare Liturgica, nell’art. 2 dice:
«... ogni volta che i riti comportano, secondo la particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria, caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli... si inculchi che “questa” è da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e privata...».
Quest’articolo 27, equivoco, reticente, comunque non dice espressamente che la Messa comunitaria deve essere preferita alla Messa solenne, per non mettersi in contraddizione con la “Mediator Dei” di Pio XII che dice espressamente: “La Messa dialogata non può sostituirsi alla Messa solenne”. Ora, questo esempio ci fa ricordare quanto disse mons. Bugnini, in quel suo articolo del 23 marzo 1968, per illustrare il “Canone Romano”, e cioè che:
1° - la “Costituzione Liturgica... non è un testo dogmatico”;
2° - che è “(invece) un documento operativo”. E difatti fu un’operazione chirurgica radicale che ha “sventrato”, senza tanti riguardi, tutta la Liturgia, ricchissima, della Tradizione, salvando proprio nulla di nulla, ma buttando tutto in pattumiera!
3° - e che “chiunque può vedere (nella Costituzione Liturgica)... la struttura di una costruzione gigantesca... che tuttavia rimette agli organismi post-conciliari di determinare i particolari, e, in qualche caso, di interpretare autorevolmente quello che, in termini generici, viene indicato ma non detto autorevolmente”...
Come si vede, fu tolto ai Generali (i.e. Vescovi) il comando, l’autorità di stabilire la tattica e la strategia del combattimento, per cui la disfatta non poteva che essere sicura!
Ma, imperterrito, il massone Mons. Bugnini continuava:
«Lo stesso modo di esprimersi fu scelto volutamente dalla Commissione Conciliare... che limò il testo della Costituzione... per lasciare, nella fase di esecuzione... le più ampie possibilità... e non chiudere la porta... all’azione vivificante... dello Spirito!» (senza aggiungere “Santo”!).
In concreto: l’introduzione dell’altare “versus populum” fu subito l’applicazione più appariscente dell’uso e abuso dell’idea “comunitaria” e del termine stesso “comunitario” che sa di “moneta falsa”! L’articolo 27 della Costituzione Liturgica, quindi, è diametralmente all’opposto della “Mediator Dei”, “scomoda, proprio sui punti chiave”! Per questo, mons. Bugnini usò quella formula che ci ha ammannito nel suo articolo del 23 marzo 1968. E così il Vaticano II poté rovesciare la gerarchia dei valori, attribuendo alla “Messa dialogata” un posto di preferenza alla “Messa solenne”, in barba alla “Mediator Dei” di Pio XII che aveva invece stabilito che
«... non può sostituirsi alla Messa solenne, anche se questa fosse celebrata alla presenza dei soli Ministri...».
Perciò, si può concludere che il Vaticano II ha “barato” per sovvertire, da cima a fondo, la liturgia ultra-millenaria della Chiesa romana! Una prova schiacciante la si potrebbe vedere anche addentro il sofisma (il “paralogismo” della “scolastica”) che si cela tra le righe dell’articolo 1°:
«Il Sacro Concilio si propone di far crescere, ogni giorno di più, la vita cristiana dei fedeli».
Ma poi si propone di
«meglio adattare... alle esigenze del nostro tempo, quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti...».
Domandiamoci, allora: in che cosa consistono, in concreto, quelle “esigenze del nostro tempo” nel pensiero del Concilio?.. quali sono, in concreto, quelle situazioni soggette a mutamenti?.. e “in che senso”, e in “quale misura” e con “quali criteri” ci sono soggette?
Qui, tutto è mistero e tenebre!.. Poi, l’articolo 1° continua:
«si propone di favorire ciò che può contribuire alla unione di tutti i credenti in Cristo...».
Anche qui si può chiedere: ma che cosa può contribuire all’unione di tutti i credenti in Cristo?”, e a quale prezzo?..
Silenzio assoluto!..
Continuando, l’art. 1° (si propone) di rinvigorire... ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa. In concreto: che cosa è che giova?.. e in che modo e a quali condizioni legittime?..
Infine, conclude:
«(Il Sacro Concilio) ritiene, quindi, di doversi interessare in modo speciale... anche della “riforma” e dello incremento della Liturgia»... (!!).
Ma nell’art. 21, il Concilio avvertirà che, con la riforma liturgica, la Chiesa butta a gambe all’aria tutte le riforme, tutti i riti della Liturgia pre-conciliare, perché il “fine” è il seguente:
«... per assicurare maggiormente al popolo l’abbondante tesoro di grazie che la Sacra Liturgia racchiude»!
Una vera beffa... liturgica! La Santa Chiesa Cattolica Romana è servita e buttata in quei “turbamenti” che il cocchiere del Concilio, Paolo VI, nel suo discorso del 15 luglio 1970, attribuirà espressamente proprio ad esso. Difatti, in quel suo discorso, il soggetto era proprio “il Concilio che suscitò turbamenti!..”.
L’ALTARE A FORMA DI “MENSA”
La “Mediator Dei” di Pio XII l’aveva già condannata!
«Is rector aberret itinere, qui priscam altri velit “mensae” formam restituere» (= È fuori strada chi vuole restituire all’altare l’antica forma di “mensa”!).
Fu un’altra frode, quindi! Difatti, l’altare “versus populum” fu introdotto dal card. Lercaro, proprio con una “frode”, come lo si può provare dalla sua circolare del 30 giugno 1965, n° 3061, dalla Città del Vaticano ai Vescovi. Difatti, l’altare prese subito la forma di “mensa”, in luogo della forma di ara sacrificale, quale ne fu, invece, per oltre una millenaria tradizione!
Quella nuova forma la si potrebbe anche dire “ereticale”, dopo che il Concilio Tridentino, nella sua XXII Sessione, col canone I, aveva colpito con l’anatèma chiunque volesse sostenere che la Messa non è altro che una “cena”:
«Si quis dixerit, in Missa non offerri Deo verum et proprium Sacrificium, aut quod “offerri” non sit aliud quam nobis Christum ad manducandum dare, anathema sit!».
Dopo quattro secoli dal Tridentino, perciò, fu un gesto scandaloso quello del Vaticano II! Certo, la Costituzione Liturgica non osò dire, espressis verbis, l’eresia della “Messa-cena”, né disse apertamente che l’altare dovesse prendere l’antica forma di mensa e di essere rivolto al popolo, ma nessuno si fece vivo quando il card. Lercaro, abusivamente, nella sua Circolare scrisse:
«con il 7 marzo (1965) c’è stato un generale movimento per celebrare “versus populum”»...
e aggiunse questa sua spiegazione “arbitraria”:
«... Si è constatato, infatti, che questa forma (altare “versus populum”) è la più conveniente (?!) dal punto di vista pastorale»!..
È chiaro, quindi, che il Vaticano II ignorò, nella Costituzione Liturgica, il problema dell’altare “versus populum”, accettando la scelta... pastorale del card. Lercaro e della sua “equipe” rivoluzionaria!..
Ma l’autore di quella “trovata”, forse, ne sentì anche rimorso, se poi sentì il bisogno di scrivere:
«Teniamo, comunque, a sottolineare, come la celebrazione di tutta la Messa “versus populum”... non è assolutamente indispensabile... per una “Pastorale” efficace.
Tutta la Liturgia della Parola... nella quale si realizza, in modo più ampio, la partecipazione attiva dei fedeli, per mezzo del “dialogo” (?!) e del “canto”, ha già il suo svolgimento... reso, oggi, più intelligibile anche dall’uso della lingua parlata dal popolo... verso l’Assemblea... È certamente auspicabile che, anche la Liturgia Eucaristica... sia celebrata “versus populum”»!
Il Vaticano II, quindi, aveva lasciato “carta bianca” in mano al card. Lercaro, come lo aveva fatto con mons. Bugnini! E lo fece in termini sbrigativi, come appare dall’art. 128 della Costituzione Liturgica:
«... Si rivedano quanto prima... i Canoni e le disposizioni ecclesiastiche, riguardanti il complesso delle cose (?) esterne, attinenti al culto sacro e specialmente quanto riguarda la costruzione degna ed appropriata degli edifici sacri... la forma (?!) e la erezione degli altari, la nobiltà e la sicurezza del tabernacolo eucaristico».
Strabiliante!.. forse che si poteva mettere in dubbio la nobiltà e la sicurezza dei tabernacoli marmorei, i gioielli d’opere d’arte e di fede della Tradizione?.. Una nobiltà, purtroppo, che fu calpestata, derisa e buttata via dalle chiese, proprio dal fanatismo e stupidità di tanti organi esecutori del Vaticano II delle ben sette “Instructiones” ed exeq. della Costituzione Liturgica!.. Tutte fantasie surriscaldate da “falsi profeti” di una “Pastoralità” di cui, per venti secoli, la Chiesa non aveva nemmeno conosciuto il nome!..
Purtroppo, gli altari “versus populum” piovvero nelle chiese e nelle Cattedrali ancora prima che uscissero i nuovi Canoni, ancora prima che uscisse una Legislazione Canonica, ancora prima che la “Instrutio Oecum. Concilii” ne avesse fatto almeno il nome: “altari versus populum”, dove si accenna solo al celebrante che “deve potere facilmente girare attorno all’altare” (“perché”?..) “e celebrare rivolto verso il popolo”.
Ora, tutto questo non può essere che la tragica conferma, da parte dei novatori, del loro voler mettere in primo piano l’idea ereticale che la Messa altro non sia che un “banchetto”, una “cena” e non più la memoria e rinnovazione del Sacrificio della Croce, in modo incruento. E la conferma di questo la si ebbe con la “Istitutio Generalis Missalis Romani”, all’articolo 7:
«Cena dominica, sive Missa, est sacra synaxis, seu congregatio populi Dei in unum convenientis, sacerdotale praeside, ad memoriale Domini celebrationem...».
È chiaro, quindi, che il soggetto, qui, è solo la “coena dominica”, puramente e semplicemente sine adiecto!.. Infatti, ai due termini “Coena dominica” e “Missa” si è dato il medesimo valore che la filosofia scolastica-tomistica attribuisce ai termini “ens” et “verum” et “bonum”:
ens et verum... convertuntur!
ens et bonum... convertuntur!
Così, anche la “cena dominica” et “Missa”... convertuntur!
Ora, questa definizione della Messa, della quale si è fatta “unum idemque” con la “cena dominica”, e “unum idemque” con la “congregatio populi” ad celebrandum “memoriale Domini”, richiama immediatamente la condanna del Canone I della Sessione XXII.a del Concilio di Trento:
«Si quis dixerit in Missa non offerri Deo verum et proprium Sacrificium, aut quod “offerri” non si aliud quam nobis Christum ad manducandum dari, anatema sit!».
Inutile, perciò, fare salti mortali per cercare di spiegare che, per “dominica coena”, si intendeva “l’ultima cena” di Gesù con i suoi Apostoli, perché la “cena” di quella Pasqua non fu che la “circostanza”, alla fine della quale Gesù istituì l’Eucarestia!
Anche se si volesse intendere che la Messa è solo un “sacrum convivium, in quo Christus sumitur”, si cadrebbe ancora nell’eresia, condannata con anatema dal Concilio di Trento!
Per meglio mettere in evidenza la gravità di detta eresia, contenuta nell’art. 7 della “Istitutio Generalis Missalis Romani”, con la definizione: “Coena dominica, seu Missa”, si legga la dottrina dogmatica, insegnata da Pio XII nella Allocuzione ai partecipanti al Congresso Internazionale di Liturgia Pastorale (il 22 settembre 1956):
«Anche quando la consacrazione (che è l’elemento centrale del Sacrificio Eucaristico!) si svolge senza fasto e nella semplicità, essa (la “consacrazione”) rimane il punto centrale di tutta la Liturgia del Sacrificio, il punto centrale della “actio Cristi”... cuius personam gerit sacerdos celebrans”!
Quindi, è chiaro che la Messa non è affatto una “cena”, la “Coena Domini”, ma è la rinnovazione incruenta del Sacrificio della Croce, come ci aveva sempre insegnato, prima del Vaticano II, la Chiesa!
Ora, il princìpio primo della logica (“sine qua non”!) è il princìpio di identità e di contraddizione (che fa lo stesso!), che insegna: “idem non potest esse et non esse, simul”. Quindi, non possono aver ragione due Papi, dei quali uno (Pio XII) definisce un punto di dottrina, e l’altro (Paolo VI) lo definisce in senso contrario sul medesimo argomento e sotto il medesimo aspetto.
Perciò, la Dottrina la si insegna anche - e meglio! - con i fatti, gli esempi pratici. Fu il metodo divino di Gesù, che, prima, “coepit facere” e poi “docere” (verbis).
Ora, l’introduzione fraudolenta dell’altare “versus populum” è un “fatto” che ha sovvertito tutto un “ordine”, contrario, che “preesisteva da oltre un millennio”, ossia “versus absidem”, che era stato collocato ad Oriente, simbolo del Cristo, “lux vera, quae illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum”!.. Ma allora, come mai nelle “Instructiones” della Costituzione Liturgica, nell’art. 55 della “Euch. Mysterium”, si dice che “è più consono alla natura della sacra celebrazione che Cristo non sia eucaristicamente presente nel tabernacolo, sull’altare in cui viene celebrata la Messa... fin dall’inizio della medesima...” facendo appello alle ragioni del segno?..
Ma l’altare “versus populum” non vanifica proprio la ragione del segno del “sol oriens”, che è Cristo, obbligando il celebrante a voltare la schiena a quel “segno di luce” per mostrare al popolo la “facies hominis”? E questo altare “versus populum” non è, forse, un affermare quello che insegnò il Conciliabolo di Pistoia, cioè che nelle chiese non ci deve essere un solo unico altare, cadendo, così, sotto la condanna della “Auctorem fidei” di Pio VI?..
Ma così furono resi inutilizzabili non solo i gloriosi marmorei altari maggiori, ma anche tutti gli altri altari laterali, insinuando, con questo, che ai Santi non si deve più tributare alcun culto, nemmeno quello di “dulìa”, sfidando, però, anche qui, la condanna di eresia del Concilio di Trento!
Perciò: quale sorte ebbe il tabernacolo?..
Nella Sua Allocuzione del 22 settembre 1956, Pio XII ha scritto:
«Ci preoccupa... una tendenza, sulla quale Noi vorremmo richiamare la vostra attenzione: quella di una minore stima per la presenza e l’azione di Cristo nel tabernacolo».
«... e si diminuisce l’importanza di Colui che lo compie. Ora, la persona del Signore deve occupare il centro del culto, poiché è essa che unifica le relazioni tra l’altare e il tabernacolo, e conferisce loro il proprio significato».
«È originariamente in virtù del sacrificio dell’altare che il Signore si rende presente nell’Eucarestia, ed Egli non abita nel tabernacolo se non come “memoria sacrificii et passionis suae”».
«Separare il tabernacolo dall’altare, equivale a separare due cose che, in forza della loro origine e natura, devono stare unite...».
Come si vede, la Dottrina della Chiesa di sempre era ben chiara e grave nella sua motivazione e preoccupazione pastorale a causa della separazione del tabernacolo dall’altare!
Paolo VI, invece, nella Costituzione Liturgica, non ha neppure fatto ricordare questa dottrina, come tacque pure sulla condanna di Pio XII, nella “Mediator Dei”, a chi voleva restituire all’altare l’antica forma di “mensa”, qual è, oggi, l’altare “versus populum”, ignorando o sottacendo quello che aveva detto sia nella “Mediator Dei” che nella Allocuzione del 22 settembre 1956; e cioè:
«... si rivedano i canoni e le disposizioni ecclesiastiche che riguardano il complesso delle cose esterne attinenti al culto sacro... la forma e la erezione degli altari... la nobiltà, la disposizione e la sicurezza del tabernacolo».
E allora, perché Paolo VI e il Vaticano II hanno taciuto anche su questo? Con l’art. 128 della Costituzione Liturgica, oltre che lasciare ampia libertà discrezionale agli organi esecutivi post-conciliari, col comma 1° fu aggiunto che
«quelle norme che risultassero meno corrispondenti alla riforma liturgica, siano corrette... o abolite» (tout-court!); il che significa aver dato carta bianca agli organi esecutivi per fare strazio totale dell’antica liturgia!
E così, in esecuzione di quella formula, il card. Lercaro si fece premura di decidere la sorte del tabernacolo. Lo fece, in sordina, con gli articoli 90 e 91 della prima Instructio della Costituzione Liturgica, insegnando che
«Nel costruire nuove Chiese, o nel restaurare o adattare quelle già esistenti, ci si occupi diligentemente della loro idoneità a consentire la celebrazione delle azioni sacre, secondo la loro vera natura».
Un dire, questo, che squalifica tutti i venti secoli della Chiesa, perché le Basiliche, i Santuari, le Chiese parrocchiali, le Cappelle, ecc. non sarebbero state costruite in maniera idonea a consentire la celebrazione delle Azioni Sacre secondo la loro vera natura!..
L’art. 91, poi, va più avanti:
«È bene che l’altare maggiore sia staccato dalla parete... per potervi girare intorno... e celebrare... rivolti al popolo»!
Finalmente!.. ecco rotto il “nodo Gordiano” ed ecco il “delitto perfetto”, che può far ricordare l’astuzia diabolica di cui parla Giosuè Carducci nella sua ode: “La Chiesa di polenta” (strofa 15.ma), ove si legge: “... di dietro al Battistero, un fulvo picciol, cornuto diavolo guardava e subsannava...”!
Ma il card. Lercaro non si turbò per questo. La soluzione del problema “tabernacolo” verrà tre anni dopo con l’art. 52 della “Eucaristicum Mysterium”, dove si dice:
«La Santissima Eucarestia... non può essere custodita, continuamente e abitualmente, se non in un solo altare, o in un luogo della Chiesa medesima».
Come si vede, appare evidente l’opposizione tra l’espressione “un solo altare” e la seconda espressione: “in un solo luogo della Chiesa medesima”, perché il “solo luogo” non significa necessariamente un altare (laterale, o in una cappella!), giacché la parola “luogo” significa un “luogo” qualsiasi, (anche un “confessionale”, un pulpito, e via dicendo!).
Comunque, anche qui, è grave che, prima della firma del card. Lercaro e del card. Larraona, si leggesse questa Dichiarazione:
«Praesentem Instructionem... Summus Pont. Paulus VI, in audentia... 13 aprilis 1967... approbavit... et auctoritate sua... confirmavit... et pubblici fieri... jussit...».
Dopo di che sparirono dagli altari maggiori i tabernacoli, e, al posto del “Padrone” sfrattato, apparve la “Lettera del Padrone”: il Messale, o la Bibbia (alla moda protestante!), mentre il Santissimo, che doveva occupare il posto centrale del culto, andò a finire in un nascondiglio, in un angolo più o meno oscuro.
E questo sarebbe dovuto
«per assicurare maggiormente al popolo cristiano l’abbondante tesoro di grazie che la Sacra Liturgia racchiude»!!!
http://www.pontifex.roma.it/index.php/opinioni/consacrati/8470-concilio-vaticano-ii-dietro-front-qnulla-possiamo-contro-la-veritaq-parte-5
LA LINGUA LATINA - L’abbandono della lingua latina, comelingua della Chiesa, avvenne il 30 novembre 1969, quando ebbe inizio - obbligatorio! - l’uso del “Missale Romanum Novi Ordinis”; da allora cessò, praticamente, di esistere in tutti i Riti della Liturgia, cominciando dal rito stesso della santa Messa. L’enciclica “Mediator Dei” di Pio XII ne aveva già parlato, denunciando le gravissime conseguenze dell’abbandono della lingua latina in Liturgia, ma il Vaticano II, con deliberato proposito, le ignorò, sapendo bene dove si doveva arrivare. Ecco cosa scrisse Pio XII nella sua “Mediator Dei”: «... È severamente da riprovarsi il temerario ardimento di coloro che, di proposito, introducono nuove consuetudini liturgiche». «Così, non senza grande dolore, sappiamo che accade non soltanto in cose di poca, ma anche di gravissima importanza. Non manca, difatti, chi usa la lingua volgare nella celebrazione del Sacrificio Eucaristico; chi trasferisce ad altri tempi, ...
... feste fissate già per ponderate ragioni...». «L’uso della lingua latina, come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina...».
Anche nella sua “Allocuzione al Congresso Internazionale di Liturgia Pastorale” aveva detto:
«Da parte della Chiesa, la liturgia attuale esige una preoccupazione di progresso, ma anche di conservazione e di difesa... crea del nuovo nelle cerimonie stesse, nell’uso della lingua volgare, nel canto popolare... Sarebbe, tuttavia, superfluo ricordare, ancora una volta, che la Chiesa ha serie ragioni per conservare fermamente, nel rito latino, l’obbligo incondizionato, per il Sacerdote Celebrante, di usare la lingua latina, come pure di esigere, quando il canto gregoriano accompagna il Santo Sacrificio, che questo si faccia nella lingua della Chiesa...».
Ma il Vaticano II fu di parere diverso. Il problema della lingua latina fu deciso con l’art. 36 della “Commissione Liturgica”, mediante quattro paragrafi, i due ultimi dei quali distruggono ciò che il primo aveva garantito, impegnando la parola solenne del Concilio! Ecco il contenuto dell’intero capitolo 36:
1) “l’uso della lingua latina sia conservato nei riti...”;
2) “... si possa concedere l’uso della lingua volgare in alcune preghiere, in alcuni canti, ... ecc.”;
3) le forme e le misure erano lasciate alla discrezione e decisione delle Autorità ecclesiastiche territoriali;
4) ma finisce con annullare, praticamente, tutto!..
Il testo della prima “Instructio, art. 57: Inter Oecum. Concilii”, dichiarava che la competente Autorità territoriale poteva introdurre il volgare in tutte le parti della Messa (escluso il Canone). Ma, ad avvilire anche il Canone ci pensò un’altra “Instructio”, la “Tres abhinc annos” con l’art. 28, in cui si legge:
«la competente Autorità ecclesiastica territoriale, osservando quanto prescrive l’art. 36, par. 3° e 4° della Costituzione Liturgica, può stabilire che la lingua parlata possa usarsi anche nel Canone della Messa...».
Quindi, con l’art. 57 della “Inter Oecum. Conc.”, la competente Autorità territoriale poteva chiedere al Papa la facoltà di “violare” i confini segnati dall’art. 36 della Costituzione Liturgica! Una “violazione” che, de facto, si considerava “una corretta esecuzione della legge”!.. La “tres abhinc annos”, invece, saltò lo steccato allegramente, come si espresse, infatti, con un linguaggio da caserma, Mons. Antonelli, il 20 febbraio 1968:
«Con la recita del Canone in lingua italiana, decisa dalla Conferenza Episcopale Italiana... l’ultimo baluardo della Messa in latino... viene a crollare».
Così, mentre la lingua araba è tuttora il veicolo dell’islamizzazione che tiene uniti i musulmani nella loro fede e li spinge contro i cristiani d’ogni paese, al contrario, la soppressione della lingua latina nella Chiesa cattolica fu il “delitto perfetto” di Paolo VI col quale infranse l’unione di tutto il popolo cristiano proprio nella loro unica vera Fede! I modernisti, così, poterono benedire il Vaticano II per aver ottenuto questo, e in maniera “ch’era follìa sperar”! (Manzoni).
Con questo ennesimo atto fraudolento, Paolo VI veniva a “canonizzare” le istanze ereticali del Conciliabolo di Pistoia, condannate da Pio VI con la Bolla “Auctorem fidei”, e da Pio XII con la “Mediator Dei”!..
Il “MODERNISMO”, con Paolo VI, era salito al potere, nonostante che la Tradizione e il Diritto canonico fossero contro la riforma liturgica. Difatti, la “Costituzione Liturgica” conteneva obblighi e impegni solenni:
1) L’uso della lingua latina nei Riti Latini, rimane la norma, non la eccezione (Art. 36, paragrafo 1°);
2) L’art. 54, comma 2°, vuole che i sacerdoti abbiano a “provvedere” (“provideatur”) che i fedeli sappiano cantare e recitare, anche in lingua latina, le parti dello “Ordinario”.
3) L’art. 114 fa obbligo, anche ai Vescovi, di conservare il patrimonio della musica sacra tradizionale, e di tenere fiorenti le “scholae cantorum” per la esecuzione di quella musica della Tradizione.
4) L’art. 116 fa obbligo “di dare la preminenza” al canto gregoriano.
Quindi, ogni singola legge esecutiva della Conferenza Episcopale doveva essere eseguita - per obbligo “sub gravi”! - da ogni Autorità a tutti i livelli; un obbligo che avevano assunto con “giuramento”, indicato da Paolo VI in data 4 dicembre 1963, quando firmò la “Costituzione Liturgica”, scrivendo: “In Spiritu Sancto approbamus” - “omnia et singula, quae in hac Constituzione edicta sunt”. Quindi, furono illegittime le disposizioni arbitrarie della Conferenza Episcopale, come quella dell’uso volgare nella Messa, appunto perché tale facoltà era negata dal testo del par. 3 dell’art. 36:
«spetta alla competente autorità ecclesiastica territoriale... decidere circa la “ammissione” (quindi, non circa l’obbligo!) e la “estensione” (ma solo come concessione, non “obbligo” di adottarla!) della lingua volgare».
A render più manifesto l’abuso di potere da parte dell’Episcopato del Vaticano II, ci sarebbe il Canone 9 della Sessione XXII del Concilio di Trento che dice:
«Si quis dixerit lingua tantum vulgari celebrari debet... anathema sit!».
Ora, questa “scomunica” non fu mai abrogata, né lo poteva essere, in quanto l’uso della lingua latina, da parte del sacerdote celebrante, è obbligatorio per evitare un sicuro pericolo di corruzione della dottrina sul mistero del Sacrificio Eucaristico1.
È certo, ormai, che il testo dell’Offertorio e delle tre Preci Eucaristiche dei Canoni, aggiunti al Canone Romano Antico, è infetto di formule che si possono dire “eretiche”.
Ad esempio: la formula, in lingua italiana, della Consacrazione della specie del vino nel Calice - ove la traduzione è a doppio titolo - si legge: “Qui pro vobis, et pro multis, effundetur” (tempo futuro semplice, forma passiva = a: “sarà sparso”), la CEI, invece, ha fatto tradurre: “È il Sangue... sparso (participio passato) per voi e per tutti”.
Ora, questa traduzione della CEI del “pro multis effundetur” in “sparso... per tutti”, è un’offesa all’intelligenza dei preti - che dovrebbero sapere anche di “latino”! - ma, soprattutto, è un’offesa a Cristo che, “pridie cum pateretur” (cioè, quando istituì il Sacrificio della Messa) non poteva dire: “Prendete e bevete, questo è il Mio Sangue, sparso per voi”, perché era ancora da spargere!
Quid dicendum, allora?.. Come non porsi il gravissimo problema di coscienza che ne è scaturito? Papa Innocenzo XI, condannando 65 proposizioni contenenti altrettanti “errori” di morale lassa, stabilì anche il principio - obbligante la coscienza “sub gravi”! - che non è lecito seguire un’opinione solamente probabile, bensì è necessario seguire la sentenza più sicura quando si tratta della validità dei Sacramenti. Ora, la Messa contiene il problema dogmatico della Consacrazione! Come non porsi anche questo problema della “traduzione” dal latino in italiano (e nelle altre lingue volgari), tanto più che l’art. 40 della Instructio “Inter Oecum. Concilii” dice chiaramente:
«Le traduzioni dei testi liturgici si facciano sul testo Liturgico Latino»!..
Ci riempie di stupore anche il modo in cui fu tradotto, e poi imposto dalle Conferenze Episcopali di recitare in volgare, durante la Consacrazione delle sacre specie, anche il testo della formula consacratoria, che, in luogo di “... Corpus meum, quod pro vobis tradetur” (= a: per voi tradito, o consegnato), fu tradotto: “mio Corpo, per voi offerto” (participio passato, che indica solo un ricordo, un “memoriale”, ma che è smentito dal “pridie quam pateretur”, per cui il participio passato non avrebbe senso!).
Peggio ancora nella formula di consacrazione del Calice:
In luogo di: “... Sanguinis mei... qui pro vobis et pro multis effundetur”, fu messa la traduzione: “Questo è il Calice del mio Sangue”... poi, viene ripetuta di nuovo la parola: Sangue, ma che non c’è nel testo latino corrispondente. “È il Sangue... sparso” (participio passato, in luogo del tempo futuro: sarà sparso: “effundetur”), “per voi e per tutti” (in luogo di “per voi e per molti” (del corrispondente testo latino, riconfermato anche dalla Costituzione Apostolica di Paolo VI!).
Anche qui, allora, ci possiamo avvalere del diritto che ci conferisce lo stesso Vaticano II, al cap. 2 della “Declaratio de libertate religiosa”, secondo la quale
«... in materia religiosa, nessuno sia sforzato ad agire contro la sua coscienza, né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa coscienza... privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata...».
Perciò, chi è fedele alla Tradizione, “in rebus maximi momenti”, secondo la legge liturgica pre-conciliare, è certamente dentro i “debiti limiti”, più e meglio di chi sta, al contrario, dentro l’altra linea post-conciliare!
***
L’analisi di questa triste situazione liturgica ci porta a considerare anche l’inconciliabile contrasto tra la “Mediator Dei” e la “Costituzione liturgica del Vaticano II”.
Si badi: quando viene affermato che la celebrazione della Liturgia deve essere comunitaria, s’insinua che lo svolgimento della Liturgia, invece di essere di spettanza esclusiva dei ministri dell’ordine gerarchico, (come si legge nel Can. 109 e Can. 968, par. 1.A, Codex J. C., e cioè che solo l’uomo - e non la donna! - viene costituito mediante la sacra ordinazione!), spetta, invece, a tutta la comunità dei fedeli: uomini e donne, ossia a tutto “il popolo di Dio”!
Questo, purtroppo, lo si legge nell’art. 14 della “Instructio Generalis Missalis Romani”, Novi Ordinis, dove si afferma espressamente che:
«La celebrazione della Messa, di sua natura ha indole comunitaria... in quanto, mediante i dialoghi tra il celebrante e l’assemblea, e con le acclamazioni, che non sono soltanto segni esterni della celebrazione comune... (o “concelebrazione”?!), viene favorita ed è effettuata una comunione tra il sacerdote e il popolo...»,
e il testo latino di quell’art. 14 mette in rilievo, più chiaramente, questo concetto comunitario (“eretico”!).
«Cum Missae celebratio, natura sua, indolem “communitariam” habeat, dialogis inter celebrantem et coetum fidelium, nec non acclamationibus, magna vis inhaeret: etenim non sunt tantum signa externa celebrationis communis, sed communionem inter sacerdotes et populum fovent et efficiunt» (!!).
Non si dica, qui, che questa dottrina non è del Vaticano II, ossia della “Costutizione Conciliare Liturgica”, perché la “Instructio Generalis” è l’organo esecutivo dei testi conciliari, e, quindi, questa “Instructio Generalis” ha confermato e aggravato la “mens” del Vertice Apostolico!
Inoltre, si deve anche presumere che in tale senso eterodosso va inteso anche l’art. 27 della Costituzione Liturgica che dice:
«Quoties ritus, iuxta propriam cuiusque naturam, secum-ferunt celebrationem communem cum frequentia et actuosa participatione fidelium... inculcetur hanc, in quantum fieri potest, praeferendam esse eorundem - (rituum) - celebrationi singulari, et quasi privatae...».
Come si vede, è una forma sibillina, ambigua, proprio come la voleva il massone mons. Bugnini nel suo scritto del 23 marzo 1968, in cui aveva detto, appunto:
«Lo stesso modo di esprimersi, talvolta fluido e quasi incerto, in certi casi, (...) fu scelto volutamente dalla Commissione Conciliare, che limò il testo della Costituzione per lasciare, nella fase di applicazione, le più ampie possibilità...».
Ora, l’espressione di “celebrazione comunitaria” è del tutto sconosciuta nella enciclica “Mediator Dei” di Pio XII, come è del tutto sconosciuta in tutti i testi pre-conciliari fino al Vaticano II! Sì, si parla di “Messa dialogata”, ma questo non significa affatto “Messa comunitaria”, e tanto meno “Celebrazione comunitaria”! Essere ammessi al “dialogo” coi ministri del rito, non significa né che i fedeli ne abbiano “diritto”, né che senza di loro sia inconcepibile, perché, nella Messa, il protagonista è solo il Cristo, attraverso il sacerdote che Lo rappresenta “in persona Christi”, per divina istituzione di Cristo stesso!
E qui, vediamo il significato di quel malaugurato testo dell’art. 27 della Costituzione Liturgica, stando alla regola del Can. 18 del Codice di Diritto Canonico, che prescrive il criterio d’interpretazione delle leggi ecclesiastiche, che è la “propria verborum significatio in textu et in contextu considerata”.
Perciò, si giri e si rigiri, ma il significato di quella “celebrationem communem”, usata dall’art. 27, il suo significato non è altro che “concelebrazione”! Il che è l’affermazione di un princìpio ereticale, contrario alla dottrina contenuta nella Sessione XXIII.a del Tridentino, al capo IV, sulla Gerarchia ecclesiastica e la sacra ordinazione, che attribuisce solo al clero l’esercizio dei divini misteri e, quindi, anche della celebrazione dei riti liturgici.
Invece, nel tessuto dell’art. 27, il Vaticano II ha messo un inciso che direi “capzioso”, secondo il quale gli elementi che “secumferunt” (= comportano) una “celebrazione comune” sarebbero due: 1°: la “frequentia fidelium”, ossia una adunanza numerosa; 2°: la “actuosa participatio fidelium”, ossia una “partecipazione attiva dei fedeli”.
Ora, questi due elementi, che possono determinare (“di fatto” se non “di diritto”!) una “con-celebrazione” dei fedeli col sacerdote, costituisce certamente una paradossale aberrazione dello stesso Vaticano II contro la dottrina dogmatica della Tradizione! Su questo punto, infatti, abbiamo una categorica condanna del Magistero solenne di Pio XII con la sua “Mediator Dei”!
Certo, anche prima del Vaticano II, il popolo “dialogava” e “cantava” col celebrante, sia durante la Messa che durante il Vespro Domenicale, nelle parti che erano permesse anche al popolo. Ma questo non fu mai affermato che fosse una “celebrazione comunitaria”, o “celebrazionem communem”.
Il sacerdote celebrava “coram populo”, sì, ma non “in comune” col popolo. È ben triste, perciò, che un Vaticano II sia caduto in un “sofisma” così grossolano, in posizione del tutto contraria alla “Mediator Dei”, nella quale si legge:
«La Messa dialogata (nel testo latino: “id genus sacrum, alternis vocibus celebratum”) non può sostituirsi alla Messa solenne, anche se è celebrata alla presenza dei soli ministri».
E la “condanna” è ancora più chiara e circostanziata in un “passo” precedente:
«Alcuni, avvicinandosi ad errori già condannati... insegnano che... il Sacrificio Eucaristico è una vera e propria “concelebrazione”... e che “è meglio” che i sacerdoti “concelebrino” insieme col popolo presente, piuttosto che, nella assenza di esso, offrano privatamente il sacrificio...».
Quindi, l’art. 27 della “Costituzione Liturgica Conciliare” ripete dei concetti già condannati solennemente dalla “Mediator Dei”; non solo, ma pur sapendo di affermare un princìpio condannato dalla Tradizione, si è espresso, consapevolmente, anche con queste altre espressioni:
«... Inculcetur hanc (celebrationem communem)... esse praeferendam celebrationi singulari, et quasi privatae!.. quod valet praesertim pro Missae celebratione... salva semper natura publica et sociali... cuiusvis Missae...».
Per questa enormità, introdotta fraudolentemente nella riforma liturgica, sarà bene che estendiamo, qui, quella parte della “Mediator Dei” che tratta espressamente questo argomento, di natura dogmatica, per evidenziare maggiormente gli “errori modernisti” proprii del Vaticano II!
Ecco il testo sulla “partecipazione dei fedeli al Sacrificio Eucaristico”:
«È necessario, Venerabili Fratelli, spiegare chiaramente al vostro gregge come il fatto che i fedeli prendono parte al Sacrificio Eucaristico non significa, tuttavia, che essi godano di poteri sacerdotali. Vi sono, difatti, ai nostri giorni, alcuni che, avvicinandosi ad errori già condannati, insegnano che nel Nuovo Testamento si conosce soltanto un sacerdozio, che spetta a tutti i battezzati, e che il precetto dato da Gesù agli Apostoli nell’ultima Cena di fare ciò che Egli aveva fatto, si riferisce direttamente a tutta la Chiesa dei cristiani, e soltanto in seguito è sottentrato il sacerdozio gerarchico. Sostengono, perciò, che solo il popolo gode di una vera potestà sacerdotale, mentre il sacerdote agisce unicamente per ufficio commessogli dalla comunità. Essi ritengono, di conseguenza, che il Sacrificio Eucaristico è una vera e propria “concelebrazione”, e che è meglio che i sacerdoti “concelebrino” insieme col popolo presente, piuttosto che, nella assenza di esso, offrano privatamente il Sacrificio...».
«È inutile spiegare quanto questi capziosi errori siano in contrasto con le verità più sopra dimostrate, quando abbiamo parlato del posto che compete al sacerdote nel Corpo Mistico di Gesù. Ricordiamo solamente che il sacerdote fa le veci del popolo perché rappresenta la persona di N. S. Gesù Cristo, in quanto Egli è Capo di tutte le membra, e offrì Sé stesso per esse. Perciò, va all’altare come ministro di Cristo, a Lui inferiore, ma superiore al popolo! Il popolo, invece, non rappresentando per nessun motivo la persona del Divin Redentore, né essendo mediatore tra sé e Dio, non può in nessun modo godere di poteri sacerdotali...».
E più avanti:
«Quando si dice che il popolo offre insieme col sacerdote, non si afferma che le membra della Chiesa... non altrimenti che il sacerdote stesso, compiono il rito liturgico visibile - il che appartiene al solo ministro da Dio a ciò deputato - ma che unisce i suoi voti di lode, di impetrazione, di espiazione, e il suo ringraziamento alle intenzioni del sacerdote, dello stesso Sommo Sacerdote, acciocché vengano presentate a Dio Padre, nella stessa oblazione della vittima, anche col rito esterno del sacerdote».
Si osservi, ora, quanto sia in contrasto questa dottrina della Chiesa ante Vaticano II con il 1° articolo della “Institutio generalis Missalis Romani” che afferma quel suo confusionale ed erroneo principio:
«Celebratio Missae, ut actio Christi et Populi Dei hierarchice ordinati... centrum est totius vitae christianae...».
A parte il fatto che la dottrina tradizionale è confermata dal Canone 109 del Diritto Canonico, con le parole:
«Qui in ecclesiasticam hierarchiam cooptantur, non ex populi, vel potestatis saecularis consensu, aut vocatione adleguntur; sed in gradibus potestatis ordinis constituuntur sacra ordinatione.., ecc.»,
si rimane allibiti al trovarsi di fronte a una definizione così arbitraria e temeraria, condannata da Pio XII nella “Mediator Dei”, quasi fosse un’azione promiscua di Cristo e di tutto il “popolo di Dio”, ordinato gerarchicamente!.. È una vera aberrazione che ci riporta ad altre più gravi, come quelle dell’art. 7° della “Institutio Generalis”, e dell’art. 14. Si legga l’art. 7:
«Coena dominica, sive Missa, est sacra synaxis, seu congragatio populi Dei, in unum convenientis...».
È un’autentica definizione eretica che ci richiama alla mente le parole di S. Ambrogio a riguardo del delitto di Erode:
«Quanta, in uno facìnore... sunt crimina!» (dall’Ufficio: 29 agosto, in decollatione S. Jo. Baptistae”)
L’art. 14, poi, più spudoratamente ancora, pretende d’insegnare che
«Missae celebratio... natura sua (?!) indolem habet communitariam» (!!).
E perché non mi si tacci di giudizio temerario, mettiamo a confronto la “Institutio Generalis” con la dottrina del Magistero infallibile del Tridentino e di Pio XII.
Nell’art. 7°, la disposizione logica dei termini:
«Coena Dominica, sive “Missa” est sacra Synaxis, seu Congregatio Populi Dei»; è chiaro che i “concetti”, come nella filosofia scolastica, “convertuntur”: «Coena est Missa: Missa est Coena: Missa est Congregatio Populi: Congregatio Populi Dei est Missa»...
Le enormità di queste “identificazioni” sono più che evidenti! Il termine “cena”, messo in primo piano, è proprio il concetto ereticale condannato dal Canone 1° della XXII.a Sessione del Tridentino:
«Si quis dixerit... quod offerri non sit aliud, quam nobis Christum ad manducandum dari... anathema sit!».
Il concetto “cena”, infatti, non contiene il concetto di “sacrifico” della vittima; anzi, lo esclude, perché il “Sacrificio latreutico” distrugge totalmente la vittima, senza che ne possa gustare le carni lo stesso offerente. Perciò, il termine “cena” indica solo e nient’altro che “cena”, e non “sacrificum verum et proprium”!
La definizione, poi, di “Messa-Cena-Adunanza del popolo di Dio”, è un’altra negazione della definizione dogmatica contenuta nel Catechismo dottrinale di San Pio X:
«La Messa è il sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, che, sotto le apparenze del pane e del vino, si offre a Dio, in memoria e rinnovazione (= ripresentazione) del Sacrifico della Croce»...
Ora, “L’elemento centrale del Sacrificio Eucaristico è quello in cui Cristo interviene come ‘seipsum offerens’”, come lo afferma chiaramente il Concilio di Trento2.
E “ciò avviene alla consacrazione” (non, quindi, alla “comunione”-cena!), in cui, all’atto stesso della “transustanziazione”, operata dal Signore3, il Sacerdote celebrante è “personam Christi gerens”. E questo anche quando la consacrazione si svolge senza fasto, nella semplicità. Perché “essa - (la consacrazione) rimane il punto centrale di tutta la Liturgia del Sacrificio”; il punto centrale della “actio Christi, cuius personam gerit sacerdos celebrans”. E questo è esattamente l’opposto da quello insegnato nell’art. 1° della “Institutio Generalis”, ove si legge che “celebratio Missae”, ut actio Christi et “Populi Dei”!..
Siamo di fronte - checché se ne dica! - ad una incredibile frana dei dogmi di fede, in cui ci ha buttati la Riforma Liturgica del Vaticano II, gestita dal massone mons. Annibale Bugnini!
Cito, perciò, l’interpretazione ufficiale di quella Costituzione Liturgica, fatta dal card. Lercaro nella quarta Instructio: la “Eucharisticum Mysterium”, nel suo articolo 17°:
«... Nelle celebrazioni liturgiche debbono essere evitate la divisione e la dispersione della comunità. Perciò, si deve badare a che nella stessa chiesa non si svolgano contemporaneamente due celebrazioni liturgiche, che attraggano l’attenzione del popolo a cose diverse. Ciò sia detto, soprattutto, della celebrazione della Eucarestia...».
«Pertanto, quando si celebra la santa Messa per il popolo, si abbia cura di impedire quella “dispersione” che deriva, generalmente, dalla celebrazione contemporanea di più Messe nella medesima chiesa. La stessa cura si ponga, per quanto è possibile, anche negli altri giorni!..».
Sono parole di autentici vaneggiamenti conciliari!.. Pio XII, sempre nella sua “Mediator Dei”, lo ebbe a dire:
«... Si deve osservare che sono fuori della verità e del cammino della retta ragione coloro i quali, tratti da false opinioni, attribuiscono a tutte queste circostanze tale valore da non dubitare di asserire che, omettendole, l’azione sacra non può raggiungere lo scopo prefissosi.
Non pochi fedeli, difatti, sono incapaci di usare il “Messale Romano”, anche se è scritto in lingua volgare, né tutti sono idonei a comprendere rettamente, come conviene, i riti e le cerimonie liturgiche!
L’ingegno, il carattere e l’indole degli uomini sono così vari e dissimili che non tutti possono egualmente essere impressionati e guidati da preghiere, da canti, o da azioni sacre, compiute in comune. I bisogni, inoltre, e le disposizioni delle anime, non sono uguali in tutti, né restano sempre gli stessi nei singoli!
Chi dunque potrà dire, spinto da tale preconcetto, che tanti cristiani non possono partecipare al Sacrificio Eucaristico e goderne i benefici? Questi possono certamente farlo in altra maniera che ad alcuni riesce più facile, come, ad esempio, meditando piamente i misteri di Cristo, o compiendo esercizi di pietà, e facendo altre preghiere che, pur differenti nella forma dei sacri riti, ad essi, tuttavia, corrispondono per la loro natura!».
Quale grande sapienza “pastorale”, psicologica, penetrante le più intime fibre dell’animo umano in queste parole di Pio XII!
Purtroppo, invece, un altro frutto del Modernismo in atto è anche la “mutilazione della Messa”, il cui creatore fu il massone mons. Annibale Bugnini che riuscì a strappare il consenso a Paolo VI.
E così, adesso, abbiamo una Messa bugniniana-massonica col “Dio dell’Universo”, col “panis vitae”, col “potus spiritualis”... Nella “traduzione tedesca”, sempre nel testo latino, la parola “hostia” (= vittima, sacrificio cruento) è tradotta sempre come “dono” (Gabe), mentre la traduzione italiana, qualche volta, conserva la parola “sacrificio”.
Ancora: mentre nella traduzione italiana del nuovo mini-Offertorio (detto anche “preparazione dei doni”!) conserva la preghiera “Orate, frates”, in cui, oltre al concetto di “sacrificio”, c’è anche una traccia di differenza tra sacerdote e popolo (“il mio e vostro sacrificio”!), nella traduzione tedesca, invece, si fa dire al sacerdote: “Preghiamo che Dio onnipotente accetti i “doni” della Chiesa come lode e per la salute del mondo intero”!.. e poi, più sotto, si legge: “ovvero un altro invito idoneo alla preghiera”; il che significa: piena libertà per invenzioni fantastiche!
Ma anche lo stesso “Messale nuovo” è un grande scandalo! Bisognerebbe leggere, qui, il “Breve esame critico del Novus Ordo Missae” dei cardinali Bacci e Ottaviani, in collaborazione con grandi “esperti”, pubblicato nel 1969, che contiene un grave giudizio da parte dell’allora Prefetto del Sant’Uffizio!..
Cominciamo dalla definizione di Messa (paragrafo 7: “De structura missae”, nella “Istitutio generalis”, o preambolo del Messale:
«La “Coena dominica”, o Messa, è la sacra assemblea del popolo di Dio che si raduna sotto la presidenza del prete per celebrare la cerimonia del Signore. Per questa assemblea locale della Sancta Ecclesia vale in modo eminente la promessa di Cristo: “dovunque due o tre persone sono riunite nel mio nome, Io sono in mezzo a loro»!..
Ed ecco il commento del card. Ottaviani:
«la definizione di “Messa” è dunque limitata a quella di “cena”, il che è poi continuamente ripetuto. Tale cena è inoltre caratterizzata dall’assemblea, presieduta dal sacerdote, e dal compiersi il “memoriale del Signore”, ricordando quello che egli fece il giovedì santo. Tutto ciò non implica né la “presenza reale”, né la “realtà del sacrificio”, né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né il valore intrinseco del sacrificio eucaristico, indipendentemente dalla presenza dell’assemblea; non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici essenziali della Messa che ne costituiscono, pertanto, la vera definizione. Qui, - conclude il cardinale - l’omissione volontaria equivale al loro superamento, quindi, almeno in pratica, alla loro negazione!».
Ce n’è abbastanza per dire che quella definizione di “Messa” era “eretica”! E il Papa Paolo VI, leggendo quello scritto dei due cardinali, ne ebbe paura e fece cambiare quel “paragrafo 7”, correggendolo;4 ma lo si fece in parte, però, perché il “testo della Messa” è rimasto ancora tale e quale! Non fu cambiata una parola!
Con quella “furba” riparazione, gli “errori” di quel paragrafo sembrerebbero riparati. Invece, no! La “Messa” rimane “cena”, come prima; il “sacrificio” è solo un “memoriale”, come prima; la “presenza di Cristo” nelle due specie è qualitativamente uguale alla sua presenza nell’assemblea, nel prete e nella sacra Scrittura. I laici (e molto clero!) non hanno notato la sottile distinzione del “sacrificio dell’altare”, detto, adesso, “duraturo”; ma la “mens” dei compilatori è quella, spiegata da Rahner nel suo commento al “Sacrosanctum Concilium”, art. 47:
«L’art. 47 contiene - era già nel Concilium! - una descrizione teologica dell’Eucarestia. Due elementi sono specialmente degni di attenzione: si parla di lasciar “durare” il sacrificio di Cristo, mentre le espressioni “repraesentatio” (Concilio di Trento) e “renovatio” (testi papali più recenti) sono state evitate di proposito. La celebrazione eucaristica è caratterizzata con una parola, presa dalla recente discussione protestante, e cioè: “memoriale della morte e della risurrezione di Gesù”».
Ora, questo è un allontanarsi dal rinnovamento incruento del sacrificio del Calvario!.. Difatti, secondo questa “nuova definizione”, il sacrificio di Cristo sarebbe successo una volta sola, per sempre e durerebbe nel suo effetto. È la dottrina di Lutero!..
Se il “sacrificio” è solo un “memoriale”, nel quale continua l’effetto dell’unico sacrificio, allora Cristo è presente solo spiritualmente; e questo fa diminuire anche la reintrodotta espressione “in persona Christi”; e la “presenza reale” è solo simboleggiata nelle due specie! La comprova di questo lo si può avere anche con le dichiarazioni dei teologi tedeschi Lângerlin, collaboratore di J. A. Jungmann, e di Johannes Wagner, i quali, parlando appunto della “nuova versione” del paragrafo (7), dicono:
«Malgrado la nuova versione, concessa, nel 1970, ai reazionari militanti (che sarebbero i cardinali Ottaviani e Bacci... e noi!), e ciò nonostante non disastrosa (!!), grazie all’abilità dei redattori, la nuova teologia della Messa evita pure le vie senza uscite delle teorie di sacrificio post-tridentine, e corrisponde per sempre a certi documenti interconfessionali degli ultimi anni»5.
È chiaro: l’attuale culto è storpiato, sopratutto in questi due punti: la “finalità della Messa” e l’Essenza del Sacrificio.
1. Finalità della Messa
a) La “finalità ultima”, ossia il “Sacrificium laudis” alla SS. Trinità, secondo l’esplicita dichiarazione di Cristo (Ps. XL, 7-9 in Hebr. 10, 5), è scomparsa dall’Offertorio, dal Prefazio e dalla conclusione della Messa (“Placeat tibi Sancta Trinitas”);
b) La “finalità ordinaria”, o “Sacrificio propiziatorio”, è deviata: invece di metter l’accento sulla remissione dei peccati dei vivi e dei morti, è messa sulla nutrizione e santificazione dei presenti (n. 54). Certo, Cristo, in stato di vittima, ci unisce al suo stato vittimale; ma questo precede la “manducazione”, tanto è vero che il popolo, assistendo alla Messa, non è tenuto a comunicarsi sacramentalmente;
c) La “finalità immanente”, cioè: il solo sacrificio gradito e accettabile da parte di Dio è solo quello di Cristo. Nel nuovo “Ordo Missae”, invece, (messa bugniniana-paolina) si snatura questa “offerta” in una specie di scambio di doni tra l’uomo e Dio. L’uomo porta il “pane”, e Dio lo cambia “in pane di vita”. L’uomo porta il “vino”, e Dio lo cambia in “bevanda spirituale”.
Ma questo “panis vitae” e “potus spiritualis” sono una vera indeterminatezza che può significare qualsiasi cosa! C’è, qui, l’identico e capitale equivoco della definizione di Messa; là, il Cristo, presente solo spiritualmente in quel “pane e vino” spiritualmente mutati!
É un gioco di equivoci. Per questo furono soppresse le due stupende preghiere: “Deus qui humanae substantiae mirabiliter condidisti...” e “Offerimus tibi, Domine, Calicem salutaris...”. Quindi, non v’è più distinzione tra sacrificio divino e umano! Perciò, avendo soppresso le “finalità reali”, ne hanno inventate di fittizie: “offerte per i poveri”, “per la chiesa” e offerta dell’ostia da immolare. Così, la partecipazione all’immolazione della Vittima divina è diventata una specie di riunione tra filantropi e una specie di banchetto di beneficenza!..
2. Essenza del Sacrificio
a) “Presenza Reale”: mentre nel “Suscipe” era esplicitato il “fine” dell’offerta, qui, nessuna menzione. Quindi, il mutamento di formulazione rivela un mutamento di dottrina. Cioè: la non-esplicitazione del Sacrificio significa - si voglia o no! - la soppressione del ruolo centrale della “Presenza Reale”. Difatti, a questa “Presenza Reale” e permanente di Cristo, in Corpo, Anima e Divinità, non si fa mai alcuna allusione. La stessa parola “transustanziazione” è completamente ignorata!
b) “Formule consacratorie”: La formula antica della Consacrazione non era “narrativa”, come quella, invece, delle “nuove formule consacratorie”, pronunciate dal sacerdote come fossero una “narrazione storica” e non come esprimenti un giudizio categorico e affermativo, proferito da Colui nella cui persona Egli agisce: “Hoc est Corpus meum”, e non “Hoc est Corpus Christi”. Quindi, le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel contesto del “Novus Ordo”, possono essere valide in virtù dell’intenzione del ministro, ma possono anche non essere valide, perché non lo sono più “ex vi verborum”, cioè in virtù del “modus significandi” che avevano, fino a ieri, nella Messa.
Perciò, potremmo anche domandarci: i sacerdoti d’oggi, che si affidano al “Novus Ordo” per “fare ciò che fa la Chiesa”, consacrano ancora validamente?..
***
Termino. Continuando l’esame degli elementi costitutivi del Sacrificio (Cristo, sacerdote, Chiesa, fedeli), nel “Novus Ordo” risulterebbe una serie di omissioni, soppressioni, modalità strane e dissacrazioni che costituiscono un complesso di più o meno gravi deviazioni della teologia della Messa cattolica.
È evidente, quindi, che il “Novus Ordo” ha rotto con il Concilio di Trento e, diciamo pure, con la nostra Fede cattolica di sempre!
http://www.pontifex.roma.it/index.php/opinioni/consacrati/8469-concilio-vaticano-ii-dietro-front-qnulla-possiamo-contro-la-veritaq-parte-6
NOVUS ORDO MISSAE - Fu il 30 novembre 1969 che venne imposto l’obbligo di adottare il NOVUS ORDO MISSAE. La Conferenza Episcopale Italiana, in prima assoluta, rispetto alle altre Conferenze Episcopali del mondo, con imposizione dell’obbligo della adozione del Novus Ordo Missae celebrandae, a partire dalla data del 30 novembre 1969, ha fatto violenza al diritto inviolabile dei sacerdoti cattolici d’Italia, alla loro libertà di coscienza, che loro compete legittimamente (anche ai sensi della Declaratio de libertate religiosa, n. 2, del Vaticano II) di rimanere fedeli nel modo più rigoroso, all’Ordo Missae di tutti secoli precedenti, restaurato e imposto dalla Suprema Autorità di Papa S. Pio V. Il Novus Ordo Missae, ispirato tutto ai principii dottrinali inquietanti (infetti da sicura peste ereticale) della “Institutio Genarlis Missalis Romani”), non rappresenta solamente una sorprendente e colossale imprudenza Pastorale, operata all’ombra (pure ...
... inquietante per ogni verso) della Riforma della Liturgia secondo il dettato “fluido, ambiguo, incerto” (e quindi insidioso), della Costituzione: “Sacrosanctum Concilium” del Vaticano II, ma ha, soprattutto, sollevato una serie formidabile di interrogativi, di dubbi gravissimi e di pericoli spaventosi, che interessano l’integrità della Fede Cattolica nel dogma Eucaristico tutto intero, la validità stessa, in molti casi, della celebrazione della Messa, e a lungo andare, la prospettiva immaginaria, che si arrivi gradualmente alla estinzione della stessa Gerarchia della Chiesa, susseguita per invalidità del conferimento delle Sacre Ordinazioni (Sacerdotali ed Episcopali).
È, infatti, di meridiana evidenza che le gravissime incrinature della Fede Eucaristica, apportate dalle incredibili contraffazioni della dottrina dogmatica Tridentina, sulla natura della Messa (natura insidiosamente, e di sorpresa, contraffatta proprio dalla Costituzione liturgica, all’art. 6, ove si legge, con infinito stupore e indignazione la temeraria e arbitraria interpretazione del passo paolino della 1 Epistola ai Corinti, 11, 26 (richiamata in calce col n. 18, dalla stessa Costituzione liturgica), in cui è scritto testualmente:
«…quotiescumque enim manducabitis Panem hunc et Calicem bibetis: mortem Domini annuntiabitis, donec veniat…»
con quest’altre parole del testo conciliare:
«… similiter quotiescumque cenam manducant…».
(Ah, quel termine “cenam” manducant, in luogo di “panem” et “Calicem”, che non esprimono affatto lo stesso concetto di Cena, perché lo vieta il Canone 1° della Sess. XXII del Concilio di Trento, con tanto di anathema sit per chiunque pretenda di confondere le cose (compreso, dunque, il Vaticano II!).
Le gravissime incrinature alla fede Eucaristica, ripeto, portano in seno (in occulta gestazione) il dèmone del dubbio angoscioso nell’animo dei sacerdoti (tratti in inganno turpemente dalla Autorità di un Concilio), dubbio che, “sensin sine sensu”, può condurre dritto alla perdita della Fede, “tout court”, ed a influire nel determinare, un po’ alla volta, la “non intenzione” medesima, al momento di dover consacrare l’Eucarestia.
Ove manchi la intenzione di consacrare (ipotesi, non impossibile in un prete, o addirittura in una massa di preti, che abbiano perduta la Fede nella Eucarestia, nella natura sacrificale della Messa e nella stessa presenza reale sotto le specie consacrate!) è finita per la validità stessa della Messa e, domani, per la validità delle Ordinazioni sacerdotali ed Episcopali, compiute da Vescovi prevaricatori nella Fede, e quindi sempre “sospetti” di non aver intenzione di consacrare, oppure di uso arbitrario di formule consacratorie sostanzialmente contraffatte, alla stessa stregua di quanto avvenne nel secolo XVI, dopo la apostasia di Cranmer e di tutto l’Episcopato inglese.
Per tutti questi motivi, il Novus Ordo Missae rientra nella fattispecie condannata nella prima delle proposizioni erronee della dottrina Morale Laxioris, nel decreto 2 marzo 1679, sancito dalla Autorità di Papa Innocenzo XI, nella quale proposizione si legge:
«Non est illicitum, in sacramentis conferendis… sequi opinionem probabilem… relicta tutiore…» (V. Denzing. 2101).
Dunque è obbligatorio “sub gravi” stare e seguire la “pars tutior”, rigettando l’Ordo Novus Missae celebrandae, che mette tutto in pericolo, di illecità e di invalidità.
Dunque, ogni sacerdote ha diritto di rivendicare l’uso esclusivo dell’Ordo Missae di tutti i secoli passati e di far propri i concetti sviluppati nella Dedica Latina, incollata all’interno della copertina di un Messale Romano secondo il restauro e l’Obbligo, ingiunto in perpetuo dalla suprema autorità di S. Pio V.
La Costituzione Liturgica: “Sacrosanctum Concilum”
Fu promulgata il 4 dicembre 1963, sedici anni dopo l’enciclica di Pio XII la “Mediator Dei” del 1947. In quella enciclica, Pio XII difese strenuamente alcuni principi dottrinali, invalicabili, perché fondati sul dogma e la Tradizione bimillenaria e perché necessari a preservare la stessa Fede da violazioni o abrogazioni.
Nella sua enciclica, Pio XII definisce la Liturgia così:
«La Sacra Liturgia è il culto pubblico che il Nostro Redentore, Capo della Chiesa, offre al Padre celeste, e che la comunità dei fedeli di Cristo, rende al suo Fondatore e, attraverso di Lui, all’Eterno Padre; brevemente, è tutto il culto pubblico del Corpo Mistico di Gesù Cristo, Capo delle membra».
Ora, la rivoluzione liturgica, all’interno del “Rito Romano” della Chiesa Cattolica, è riuscita a distruggere non solo quel rito, ma anche la fede cattolica di molti fedeli. Gli esempi sono innumerevoli, ecco un esempio.
L’arcivescovo Dwyer di Portland, in una lettera scriveva:
«I comunicandi si accalcano alla balaustra della Comunione in ogni sorta di abbigliamento, da cortissimi pantaloni corti a non vestiti quasi simili a costumi da bagno.... La musica, ormai, è sul jazz, a ritmo di rock-and-roll; molti non fanno più la genuflessione. Molti, anche adulti, gironzolano per la chiesa, e poi si siedono sui banchi senza fare neppure un cenno di capo a riconoscimento di Nostro Signore nel Tabernacolo. Ma la rivoluzione va sempre più avanti. Molti Vescovi non solo tollerano, approvano e persino promuovono tali aberrazioni, ma anche vi prendono parte. Nella “The Catholic Herald Citizen”, nell’arcidiocesi di Milwaukee, si fece anche la “Messa Gospel”, che é il tipo di celebrazione che manda brividi lungo le braccia e la spina dorsale, e che suscita gioiosi battimani e lacrime di commozione.
I costumi che indossavano erano concepiti per accentuare le loro proporzioni.
E non va taciuto che uomini e donne, in molte chiese degli Stati Uniti, hanno ostentato pubblicamente anche la loro dedizione al peccato impuro, come mezzo per pubblicizzare le loro perversioni e per incontrare nuovi compagni di vizio».
Ora, il testo della “Costituzione della Liturgia” del Vaticano II, risponde al nome di P. Annibale Bugnini, il quale in data 23 marzo 1968, sul “L’Avvenire di Italia”, in cui scrisse un articolo-fiume, in cui disse, chiaro e tondo, che la Commissione Conciliare sulla Liturgia ebbe intenzioni esplicite di imbrogliare, mediante un modo di esprimersi cauto, fluido, talora incerto, e limò il testo della Costituzione per lasciare, nella fase di applicazione, le più ampie possibilità e non chiudere la porta alla azione vivificante dello Spirito (senza l’attributo divino: “Santo”!).
Se questo non è “truffa”!..
Quel documento “operativo” su il “Sabato” del 23 marzo 1968, P. Bugnini scrisse che la Costituzione liturgica «non è un testo dogmatico, ma un “documento operativo”». Chiaro? È un “documento operativo” su materia dogmatica, pur essendo stato il primo testo redatto dal Vaticano II in “Spiritu Sancto legittime Congregatum”. Purtroppo, fu il testo che ha dato il tono di ciò che sarebbero stati, poi, tutti gli altri documenti, e, perciò, non infallibile!
Un documento, comunque, che iniziò come programmazione della “Riforma”, che ci fa ricordare la “Riforma” di Lutero. Un termine, quindi, di “marca protestante” che divenne, dopo quattro secoli, la parola d’ordine del Vaticano II, per un programma nefasto alla Fede cattolica.
Leggiamo, infatti, nella Costituzione Liturgica che:
«chiunque può vedere la struttura di una costruzione gigantesca che, tuttavia, rimette agli organismi post-conciliari, di determinare i particolari».
Ora, la vantata rifioritura della Chiesa, nella “struttura di una costruzione gigantesca” l’abbiamo già vista in atto nella gigantesca devastazione, operata dalla “Institutio Generalis Missalis Romani”! che ha rimesso “agli organismi post-conciliari di determinare i particolari”, come a dire rimessi, a delle teste più o meno calde!
A leggere l’argomentare fraudolento di Bugnini, si può notare la mostruosità giuridica, descritta con faccia di bronzo:
«...Lo stesso modo di esprimersi (della Cost. Lit.).... cauto... talvolta fluido... e quindi incerto, in certi casi, e lo sa molto chi ne fece parte... scelto dalla Commissione conciliare, che limò il testo della Costituzione per lasciare, nella fase di applicazione, le più ampie possibilità... e non chiudere la porta alla azione vivificante dello Spirito!..».
Non osò dire “Spirito Santo”, perché questo è solo “Spirito di verità”, il quale non poteva certo avvallare l’arte del mentire!..
Una “Nuova Liturgia”, quindi, come ora vedete!
«Il Vaticano II è una autentica truffa
ai danni della Verità Rivelata».
(Mons. Prof. Francesco Spadafora)
***
«Io non voglio aver nulla a che fare
con il Vaticano II.
C’è il demonio in Vaticano!».
(card. Albino Luciani, 1977)
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«Noi non possiamo ignorare
il Concilio e le sue conseguenze».
(Il massone Yves Marsaudon,
in “Oecuménisme vu par un Franc-Macon”)
http://www.pontifex.roma.it/index.php/opinioni/consacrati/8468-concilio-vaticano-ii-dietro-front-qnulla-possiamo-contro-la-veritaq-parte-7
DECRETO: “UNITATIS REDINTEGRATIO” – Ecumenismo – Il termine “ecumensimo” è una parola greca (oikumène) che significa “tutto il mondo abitato”. Oggi, esprime, sì, il dovere di tutti i cristiani di ripristinare la loro unione nell’unica Chiesa fondata da Gesù Cristo su Pietro, ma non tramite la conversione degli erranti alla verità Cattolica, come la Chiesa aveva sempre voluto con la predicazione e la preghiera. In questo ecumenismo del Vaticano Il, invece, si ricerca una unione fondata su caratteri comuni a ogni confessione, per giungere alla solidarietà e alla pace, creduti come beni supremi. Infatti, nella “Unitatis redintegratio” si insegna, sì, che la divisione dei cristiani è, per il mondo, motivo di scandalo ed ostacola la predicazione del Vangelo a tutti gli uomini, ma insegna anche che lo Spirito Santo non si rifiuta di servirsi delle altre religioni come strumenti di salvezza. È un errore, però, che venne ripetuto nel documento “Catechesi ...
... Tradendae” di Giovanni Paolo II.
Benché il Decreto fosse stato corretto di propria mano dal Papa, padre Congar se ne fece, invece, garante: che i cambiamenti pontifici non cambiavano nulla al testo, e non avrebbero impedito nulla di quanto era stato deciso. Difatti, dal Concilio in poi tutto fu permesso, tanto che il cardinale Willebrands osò dire che il Concilio, ora, ritrovava le intuizioni più profonde di Lutero!
Infatti, il Concilio Vaticano II proclama “una vera unione nello Spirito” con le sètte eretiche (cfr. “Lumen gentium”, 14) e “una certa comunione, ancora imperfetta, con esse” (“Uninitatis Redintegratio”, 3).
Questa unità ecumenica, però, contraddice l’enciclica “Satis Cognitum” di Leone XIII, il quale insegna che Gesù non ha fondato una Chiesa che abbraccia più comunità che si rassomigliano genericamente, ma che sono distinte e non legate da un vincolo che formi una “Chiesa unica”. Ugualmente, questa unità ecumenica è contraria all’enciclica “Humani Generis” di Pio XII, che condanna l’idea di ridurre ad una qualsiasi formula la necessità di appartenere alla Chiesa Cattolica.
Ora, chi ha seguito quel processo che sembra aver attuato alla lettera le profezie paoline (2 Tess. 2,3 e seguenti, non può non aver notato che nel “nuovo Magistero” i documenti vaticano-secondisti più innovativi (sopratutto la “Nostra aetate”, la “Dignitatis humane” e la “Gaudium et Spes”) hanno praticamente soppiantato i precedenti Concilii e la stessa Sacra Scrittura, specie i Vangeli sempre meno richiamati.
Premesso questo, è bene che ricordiamo anche che la dottrina cattolica della “giustificazione” fu rinnegata dalla “Dichiarazione Congiunta” il 31 ottobre 1999, ad Augusta (Germania).
La causa più grave e profonda dello stato disastrato della Chiesa cattolica è, senza dubbio, lo spirito ecumenico in tutti i gangli vitali della vita ecclesiale. Lo stiamo vedendo in questo nostro scritto sul tema teologico.
Ora, qui, vediamo la Rivoluzione protestante nella Chiesa quanto avanzi di continuo: dopo la nuova dottrina sociale, la nuova Messa, il nuovo Diritto Canonico, la nuova dottrina mariana... la nuova dottrina sulla “giustificazione per la Fede”, che fu elaborata insieme al Papa Giovanni Paolo II (cfr. “Osservatore Romano” del 9/12/1999).
Questa dottrina della “giustificazione mediante la Fede” è un tema tra i più importanti anche nei testi paolini. La dottrina in esso contenuta offre un insegnamento teologico e spirituale, contrassegnato dal carisma della perennità, tanto nella Lettera ai Romani (3, 21-26), quanto in quella dei Galati.
Il testo ai Romani è fondamentale per la nozione paolina della “giustizia di Dio”, e per la correlazione della “giustificazione” del peccatore. Leggiamola:
«mai al presente, indipendente dalla legge, la giustizia di Dio si è manifestata, ed a essa rendono testimonianza la legge e i profeti; giustizia di Dio, dico, per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti coloro che credono - poiché non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della grazia di Dio - e sono giustificati gratuitamente per sua grazia in virtù della redenzione compiuta nel Cristo Gesù, che Iddio destinò strumento di propiziazione col suo stesso sangue, mediante la fede; voleva mostrare la sua giustizia al tempo presente affinché sia giusto e giustificato chi si fonda sulla fede di Gesù».
Il testo paolino annuncia l’instaurazione, mediante il sacrificio propiziatorio di Cristo, di una economia divina contrassegnata dalla “giustizia salvifica di Dio”, come categoria specifica della teologia della “storia della salvezza”, in cui il credente in Cristo ne riceve il Frutto redentivo: la giustificazione, ossia una grazia divina che conferisce a chi la riceve la qualità di “giusto”.
Cos’è, quindi, la dottrina della giustificazione?
Lutero fonda la sua dottrina sulla Lettera paolina ai Romani.
Hans Küng scrive: «Senza esagerazione, si può dire che la dottrina della giustificazione è alla radice di quell’immenso confronto teologico intorno alla vera forma del cristianesimo; confronto che dura fino ai nostri giorni; essa è alla radice della più grande catastrofe che si sia abbattuta sulla Chiesa cattolica lungo la sua storia bi-millenaria”1.
Questa dottrina fu definita: “giustizia imputata”, sintetizzata nella formula: “simul iustus et peccator”; è il midollo del luteranesimo.
Quindi, il cristiano non è intrinsecamente giusto, ma è un essere insieme giusto e peccatore.
Lutero si serve di espressioni che ha S. Paolo, come il termine del Salmo 32, dove si parla di peccati “ricoperti” (Rom. 4,7), del termine di “imputazione”, desunto dalla Volgata, “logizein”, talora come “reputare”, altre volte con “imputare”.
Ma il principale argomento scritturistico, Lutero lo toglie dal c. 7 della medesima Lettera, dove si legge:
«Io non Faccio quello che voglio, ma faccio quello che odio... In realtà, non sono io che agisco, ma il peccato che abita in me... Io posso volere il bene, ma non compierlo, poichè io non faccio il bene che voglio, e faccio il male che non voglio... ». (7,15-19).
Questa concezione “latitudinarista” ed ecumenica della Chiesa è scaturita dal Vaticano II: in “Unitatis Redintegratio”, in “Lumen Gentium”, nel “nuovo Diritto canonico (C. 201,1), nella Lettera di Giovanni Paolo II “Catechesi tradendae”, nell’Allocuzione tenuta nella chiesa anglicana di Canterbury, nel Direttorio ecumenico “ad totam Ecclesiam” del Segretariato per l’Unità dei Cristiani, ecc..
Ma è una concezione eterodossa, che, purtroppo, è stata convalidata con le autorizzazioni date per costruire sale destinate per il “pluralismo religioso”, per pubblicare “Bibbie ecumeniche” non più conformi all’esegesi cattolica, e per cerimonie ecumeniche (come quella di Canterbury)…
Anche nella “Catechesi tradendae” è ripetuto lo stesso “errore”.
Nella Allocuzione che Giovanni Paolo II tenne nella cattedrale di Canterbury, il 25 maggio 1982, ebbe a dichiarare che
«la promessa del Cristo ci ispira fiducia che lo Spirito Santo sanerà le divisioni introdotte nella Chiesa fin dai primi tempi successivi alla Pentecoste».
Sono affermazioni che, certamente, sono contrarie alla Fede tradizionale; sono affermazioni che sembrano dire che l’Unità del “Credo”, nella Chiesa cattolica, non sia mai esistita!.. Da tutto questo si dovrebbe concludere che il Protestantesimo non è altro che una “forma particolare” della medesima religione cristiana!
Quindi, il Vaticano II, proclamando «una vera unione nello Spirito Santo»2 con tutte le sètte eretiche!, e «una certa comunione, ancora imperfetta, con esse»3, in pratica si è messo contro la dottrina tradizionale, insegnata dal Magistero perenne della Chiesa. Infatti, questa “unità ecumenica” voluta dal Vaticano II, contraddice, ad esempio, l’enciclica “Satis cognitum” di Leone XIII, il quale insegna che
«Gesù non ha fondato una Chiesa che abbracci più comunità che si rassomigliano genericamente, ma distinte e non legate da un vincolo che formi una Chiesa singola e unica».
E ancora questa “unità ecumenica” è contraria all’enciclica “Humani Generis” di Pio XII che condanna l’idea di ridurre ad una qualsiasi formula la necessità di appartenere alla Chiesa cattolica.
Ed è anche contraria all’enciclica “Mystici Corporis” del medesimo Papa, il quale condanna la concezione di una “Chiesa pneumatica”, che costituirebbe il legame invisibile tra le comunità separate nella Fede.
E ancora: questa “unità ecumenica” è pure contraria agli insegnamenti di Pio XI nella sua enciclica “Mortalium animos”, dove dice:
«Su questo punto è opportuno esporre e respingere una certa opinione falsa che è alla radice di questo problema e di quel complesso movimento con il quale i “non cattolici” si sforzano di realizzare una unione tra le chiese cristiane. Coloro che aderiscono a tale opinione, citano costantemente le parole di Cristo: “Ch’essi siano una sola cosa… e che non ci sia che un solo gregge e un unico pastore” (Jo. 17,21, e 10,16), e pretendono che con tali parole il Cristo esprima un desiderio e una preghiera che non è stata mai realizzata. Essi pretendono, di fatto, che l’unità di Fede e di Governo, che è una delle “note” della vera Chiesa di Cristo, praticamente fino ad oggi non sia mai esistita e a tutt’oggi non esista».
Come vedete, siamo di fronte a “due Magisteri”, in antitesi tra loro. Quid dicendum?..
Continuiamo nel ragionamento: questo ecumenismo del Vaticano II, pur essendo condannato dalla Morale e dal passato Diritto Canonico, oggi, invece, ha permesso che si ricevano i Sacramenti della Penitenza, dell’Eucarestia e dell’Estrema Unzione da “ministri non cattolici” (Can. 844 del “Nuovo Diritto Canonico”), e ha favorito “l’ospitalità ecumenica” autorizzando i ministri cattolici a dare il Sacramento dell’Eucarestia a “non cattolici”!
Anche questo è palesemente contrario alla Rivelazione divina, la quale prescrive la “separazione”, come pure respinge la mescolanza «tra la luce e le tenebre, tra il fedele e l’infedele, tra il tempio di Dio e quello delle sètte» (II Cor. 6,14-18).
Quindi, questo Concilio pancristiano del nuovo millennio, sarebbe in contrasto evidente con la dottrina cattolica dei due millenni precedenti, spezzando in due versanti opposti al Cristianesimo.
Ora, leggendo il documento “Charta Oecumenica” del 22 aprile 2001, è come leggere una qualsiasi dichiarazione di un gruppo politico in una serie di buoni propositi, elaborati in questo ultimo secolo e mezzo, in una sorte di “passatismo” di idee retrograde, nonostante sia un documento ufficiale della Chiesa da mettersi a confronto con gli insegnamenti della Chiesa precedente, in termini di dottrina e di morale.
Nell’introduzione, si afferma che
«tutte le Chiese» si impegnano «con il Vangelo per la dignità della persona umana, creata ad immagine di Dio, a contribuire insieme come chiese alla riconciliazione dei popoli e delle culture».
Si tratterebbe di un impegno di “tutte le Chiese”, ossia di quelle strutture che, nell’ultimo mezzo millennio, si sono diffuse in tutta l’Europa, demolendo, fin dal 1300, la Cristianità e la religione di Dio. La cultura moderna, quindi, è la somma di tutto questo sfasciamento. Senza un ritorno a Dio, perciò, non può risorgere una dignità umana.
All’inizio del documento, abbiamo il richiamo del passo di S. Giovanni, nel quale il Signore prega il Padre perché tutti i discepoli siano una cosa sola, «come Te, Padre, sei in Me ed Io in Te». La dichiarazione evangelica fu posta alla firma a tutte le Chiese presenti, quasi che i firmatari fossero tutti discepoli di Cristo. Si noti, però, la contraddizione di “annunciare insieme” il messaggio evangelico, pur sapendo che tra loro non c’è alcuna concordanza nell’apprenderlo e confessarlo, per cui la loro fede non vale.
Lo dice lo stesso documento:
«Differenze essenziali sul piano della fede impediscono ancora l’unità visibile. Sussistono concezioni differenti soprattutto a proposito della Chiesa e della sua unità, dei sacramenti e dei ministeri».
Al secondo punto, si precisa che
«il compito più importante delle Chiese in Europa è quello di annunciare insieme il Vangelo attraverso la parola e l’azione, per la salvezza di tutti gli esseri umani».
Ma come si può annunciare “il Vangelo insieme”, magari a gente che non ci crede, o che di esso se n’è fatto un’idea propria, solo umana, su propri convincimenti filosofici e sociologici?
Al terzo punto, si dice che è necessario
«rielaborare insieme la storia delle Chiese cristiane».
Quindi, è necessario “rielaborare” per poter giustificare tutto, senza alcun rispetto della verità storica, in favore di una funzionalità storica, perché la “credibilità della testimonianza cristiana” ha subìto mutamenti dalle “divisioni”, dalle “inimicizie”, dagli “scontri bellici”.
E si continua dicendo che
«i doni spirituali delle diverse tradizioni cristiane, imparare gli uni dagli altri ad accogliere i doni gli uni degli altri».
Il fine, dunque, è l’ecumenismo che bisogna raggiungere ad ogni costo, anche della verità. E per realizzare questo, le “Chiese” devono imparare a
«superare l’autosufficienza e a mettere da parte i pregiudizi», nonché a «promuovere l’apertura ecumenica e la collaborazione nel campo dell’educazione cristiana, nella formazione teologica iniziale e permanente, come pure nell’ambito della ricerca».
Quindi, la Chiesa post-conciliare deve demolire il Magistero cattolico, perché le “eresie” sono un volgare pregiudizio.
La collaborazione, perciò nel campo dell’educazione cristiana e della formazione teologica, deve essere cambiata in “ricerca” della verità rivelata e insegnata, uscendo dai due mila anni di oppressione culturale della Chiesa.
Al quarto punto della “Dichiarazione” si dice di
«difendere i diritti delle minoranze e di aiutare a sgombrare il campo da equivoci e pregiudizi tra le chiese maggioritarie e minoritarie nei nostri paesi».
Al punto quinto si dice che per
«pregare insieme» bisogna aver prima «operato insieme».
Ma come si può «pregare insieme», lasciando «che lo Spirito Santo operi in noi ed attraverso di noi», se il pregare con chiunque, anche sedicente cristiano, non c’è, prima, la vera fede? Lo Spirito Santo opera solo in coloro che sono veri discepoli di Cristo. Ma questo ecumenismo, col Vaticano II va equivocando fino a sostenere che la grazia di Dio è presente ovunque.
Tutti alla pari, dunque, «ad imparare a conoscere e ad apprezzare le celebrazioni e le altre forme di vita spirituale delle altre chiese». Ossia: un sacerdote che celebra il Santo Sacrificio della Messa, sarebbe alla pari di un conviviale che si riunisce con altre persone che si dicono “pastori” o presidenti laici. Ma per fare questo non era necessaria l’Incarnazione del Figlio di Dio, l’insegnamento degli Apostoli, le migliaia di Martiri, di Santi e Dottori e di duemila anni di vita della Chiesa!
Al sesto punto, il Documento ricorda che
«esistono anche contrasti sulla dottrina, sulle questioni etiche e sulle norme di diritto ecclesiale». E conclude: «Non c’è alcuna alternativa al dialogo».
No comment! Perché l’alternativa c’è, ed è il Vangelo di Cristo, insegnato dalla Chiesa cattolica, anche se oggi, dopo il Vaticano II, il valore supremo è l’unità, la pace del mondo, il benessere su questa terra, mentre il peregrinare in “questa valle di lacrime”, il dolore per i peccati, sfuggire le occasioni prossime al peccato, la vigilanza sulle insidie del mondo, la salvezza dell’anima, sono tutte cose che appartengono al passato, sul quale si è ormai steso un velame pietoso.
Un ecumenismo, quindi, finalizzato a un qualsiasi progetto di sociologia e di politica.
Ma non sono, forse, gli attuali falsi cristi e falsi profeti che vanno predicando sulla “responsabilità sociale”, come lo dichiara il punto ottavo, scrivendo che
«Noi consideriamo come una ricchezza dell’Europa la molteplicità delle tradizioni regionali, nazionali, culturali e religiose»?..
È lo stesso Documento che lo sottolinea:
«I nostri sforzi comuni sono diretti alla valutazione ed alla risoluzione dei problemi politici e sociali e a rafforzare la condizione e la parità di diritti delle donne in tutte le sfere della vita e promuovere la giusta comunione tra donne e uomini in seno alla Chiesa e alla società».
Dal naturalismo del punto nono, in cui l’ecologismo diventa “salvaguardia del creato”, rinunciando al peccato originale, per prendersi ancora cura del “Giardino”, come dei nuovi Adami, si passa, al punto 10, all’archeologia, per dire:
«Una speciale comunione ci lega al popolo d’Israele, con il quale Dio ha stipulato una eterna alleanza»,
ossia a quel nefasto archeologismo che giustificherebbe le più stupide innovazioni del mondo moderno, cancellando quello che ci fu insegnato per millenni che, dopo la venuta di Gesù, il vero popolo di Israele è il popolo cristiano, ignorando quello che scrisse S. Paolo ai Romani, in intere pagine di condanna agli Ebrei che si rifiutano di riconoscere Gesù come loro Salvatore e Signore, e poi, nel versetto 6 dello stesso capitolo 9, dove dice:
«tuttavia… non tutti quelli che appartengono alla stirpe d’Israele sono Israeliti, né tutti i discendenti di Abramo sono suoi figli» (Rom. 9,6-8).
Certo, bisogna deplorare le manifestazioni di anti-semitismo e le persecuzioni; ma non v’è nessun legame tra la fede cristiana e l’ebraismo, perché non v’è alcuna misura in comune tra chi crede in Gesù Cristo e chi non vi crede, come è asserito nel Vangelo: «chi crede sarà salvato, chi non crede sarà condannato»!
Al punto 11, infine, è evidente l’ipocrisia nel successivo richiamo alle relazioni con l’Islam, come avvenuto con l’Ebraismo; ma questo può significare che si tratti di “relazioni religiose”. Portare la scusa della fede nel Dio unico, significa insegnare ai fedeli cattolici che, in fondo, farsi mussulmano non è poi così male. Per questo, allora, si ripete di continuo che ognuno deve essere libero di abbracciare la fede che vuole. Ma questo che ognuno è libero di abbracciare la fede che vuole, non è un volere la demolizione della Chiesa?
Gli effetti di questa mentalità non possono essere che un “relativismo religioso” che considera le varie confessioni religiose come “vie” legittime di ricerca di Dio. Ogni uomo, quindi, è libero di seguire una presunta via salvifica che gli sembra più congeniale con le sue aspirazioni religiose. Ma questa è la gnosi massonica, espressa nella “New Age”, che vuole la svalutazione della Redenzione di Cristo!
Questa gnosi è la diffida di ogni atto missionario e apologetico; questa è il dissolvimento della stessa Chiesa!
Che il Signore, per intercessione della sempre vergine Maria, Madre di Dio, preservi la sua Chiesa e i suoi fedeli dagli “errori” che commettono gli uomini della Chiesa vera, quella cattolica!
Ma torniamo al problema della “giustificazione”, perché questo tema della Giustificazione mediante la fede è un tema tra i più importanti trattati della vasta soteriologia paolina.
L’importanza e l’attualità del tema si possono raggruppare così:
1) S. Paolo vede l’essenziale differenza che c’è tra il Vangelo di Cristo dal giudaismo mosaico e rabbinico, la differenza della giustificazione mediante la Fede con esclusione delle opere dalla legge.
2) La giustificazione della catechesi paolina sulla giustificazione mediante la Fede, è contenuta nel Vangelo come l’annuncio lieto di una salvezza di Dio, riservata a coloro che credono (Rom. 1,16 s.).
3) Il tema della “giustificazione mediante la Fede” è costruito su basi paoline della “giustizia di Dio”, della “grazia”, della gratuità della redenzione…
4) La “giustificazione mediante la Fede” è uno dei temi maggiori della “Lettera ai Romani”.
5) È un tema che riguarda direttamente la disposizione con cui l’uomo è chiamato ad accogliere la grazia che Cristo gli propone col suo Vangelo.
6) La “giustificazione della Fede-non mediante opere” è una dottrina teologica più duramente discussa fin dall’epoca della Riforma protestante e della Contro-riforma cattolica.http://www.pontifex.roma.it/index.php/opinioni/consacrati/8485-concilio-vaticano-ii-dietro-front-qnulla-possiamo-contro-la-veritaq-parte-8
LA DOTTRINA LUTERANA DELLA GIUSTIFICAZIONE - Anche Lutero, per fondare la sua dottrina, si rifà principalmente su la “Lettera di S. Paolo ai Romani”. Lo stesso Hans Küng ebbe a scrivere: «Senza esagerazione, si può dire che la dottrina della giustificazione è alla radice di quell’immenso confronto teologico intorno alla vera forma del cristianesimo; confronto che dura fino ai nostri giorni; essa è alla radice della più grande catastrofe che si sia abbattuta sulla chiesa cattolica, lungo la sua storia bimillenaria». Tale dottrina, Lutero la definì come quella della “giustizia imputata”. La stessa dottrina fu sintetizzata con la formula: «simul iustus et peccator». È il midollo stesso del protestantesimo. Difatti, Lutero, costantemente, ripete che il cristiano non è intrinsecamente giusto. La sua giustizia è quella di Cristo; l’uomo rimane un peccatore, solo Dio lo riguarda rigenerato anche dopo la giustificazione, non imputandogli più i suoi ...
... peccati. Quindi, il peccato non lo condanna più, ma il peccato gli rimane.
In concreto, detta dottrina offusca i concetti cristiani di “purificazione”, di “santificazione”, di “salvezza”. Questo stato, per Lutero, viene raggiunto solo nell’al di là, nella gloria celeste.
Il suo principale argomento scritturistico è quello di S. Paolo ai Romani, là dove dice: «Io non faccio quel che voglio, ma faccio quel che odio… In realtà, non sono io che agisco, ma il peccato che abita in me… Io posso volere il bene, ma non compierlo, poiché io non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio…». (Rom. 7, 15-19).
Tutto, quindi, proviene da Dio, sia il merito che le opere buone. Dall’uomo proviene il peccato; non il merito, né le opere buone.
Nel suo commento della Lettera i Romani, Lutero cita S. Agostino: «Per la legge delle opere, Dio dice: “Fa’ quello che Io comando”; per la legge della Fede, l’uomo dice a Dio: “Da’ quello che comandi”; perché se la legge comanda, è per richiamare alla fede ciò che questa deve fare: colui che riceve un ordine, e non può ancora compierlo, deve sapere ciò che deve domandare; ma se lo può e lo compie ubbidendo alla legge, deve sapere ugualmente in virtù di qual dono egli lo può» (cap. 13).
S. Agostino, dunque, studia due possibilità: in una, l’uomo, perché peccatore, non può eseguire il precetto, perché gli manca la grazia; nel secondo caso, l’uomo giusto, può eseguire il precetto, perché questo potere viene da Dio, “quo donante posse”.
Lutero, invece, contempla una sola possibilità: la legge delle opere dichiara: Fa’ ciò che io comando, mentre la legge della fede dice: Da’ ciò che tu comandi.
Quindi, uno dice: io ho fatto; l’altro: io domando di poter fare. L’uno dice: ordina quello che vuoi e io lo farò; l’altro dice: da’ quel che hai comandato, perché io lo faccia; l’uno confida in una giustizia già acquisita; l’altro, invece, sospira dietro una giustizia da acquisire.
Per Lutero, quindi, l’uomo della fede non è giusto se non in speranza verso una giustizia da acquisire. Perciò, sta qui la differenza più pronta che separa la teologia cattolica da quella luterana, la cui formula è «peccator in re, iustus autem in spe»; il che formula l’altra: «simul iustus et peccator».
Questo pensiero di Lutero, però, oggi viene discusso, vedendo nella giustizia imputata dall’esterno, inconciliabile con l’efficacia che si ha con le azioni divine, specie nel quadro redentivo del mistero di Cristo.
Con quel dire Lutero credette di aver reso il giusto senso dei testi paolini sulla “giustificazione mediante la fede”. Ma è una autentica “eresia” e per quello che afferma e per quello che esclude.
***
Chiara è, invece, la dottrina della giustificazione che troviamo nel Concilio di Trento, non come un dialogo interconfessionale, né come teologia della controversia, bensì l’affermazione positiva della verità cattolica. Il motivo stesso del Decreto sulla giustificazione non fu spiegazione scientifica senza pretese, ma l’eresia che aveva fatto irruzione nella Chiesa. L’introduzione al Decreto, manifesta chiaramente il punto di vista del Concilio:
«Essendosi in questo tempo, non senza danno e grave detrimento di molte anime e dell’unità ecclesiastica, sparsa una certa dottrina erronea intorno alla giustificazione.., il Sinodo Tridentino… intende esporre a tutti i fedeli di Cristo la vera e sana dottrina della stessa giustificazione…» (cfr. Dz. 792 a).
Il Decreto tridentino, quindi, era orientato contro una dottrina da combattere, che aveva, per la loro interpretazione, provocato nel Decreto un certo antroprocentrismo innegabile.
Sulla “natura” della giustificazione del peccatore e sulle “cause” di esso, il Decreto, nel capitolo 7, dice:
«(La giustificazione)… non consiste unicamente nella remissione dei peccati, ma è anche santificazione e rinnovazione interiore dell’uomo … per cui l’uomo da ingiusto è fatto giusto, e da nemico, amico, affinché sia “erede”, secondo la speranza, della vita eterna. (Tit. 3,7).
Le cause di questa giustificazione sono le seguenti: cause finali è la gloria di Dio e di Cristo e la vita eterna; causa efficiente è Dio misericordioso, il Quale gratuitamente “lava” e “santifica” (1 Cor. 6,11), segnando e ungendo “con lo Spirito Santo della promessa, che è pegno della nostra eredità” (Ef. 1, 13 s.); causa meritoria è il suo dilettissimo Unigenito, Nostro Signore Gesù Cristo, il quale, “mentre eravamo nemici” (Rom. 5,10), “per il grande amore con cui ci amò” (Ef. 2,4), meritò per noi la giustificazione con la sua santissima Passione sul legno della croce, e per noi soddisfece a Dio Padre; causa strumentale è il sacramento del Battesimo, che è “il sacramento della Fede”, senza il quale nessuno mai può avere la giustificazione. Infine, unica causa formale è la “giustizia di Dio, non quella per cui Dio stesso è giusto, ma quella per cui Dio ci fa giusti” (S. Agostino), per la quale, cioè, da Lui fatti oggetto di un dono, siamo rinnovati nello spirito nella nostra mente e non solo siamo reputati, ma veramente siamo chiamati e siamo giusti, ricevendo ciascuno di noi in sé una giustizia sua, secondo la natura che “lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno come vuole” (1 Cor. 12,11)».
Un concetto basilare nella dottrina cattolica della giustificazione, è che tutto ciò che l’uomo possiede in proprio, in materia di giustizia, gli è donato per grazia di Dio. Tutto è “grazia”. Ad ogni momento, quindi, la giustizia rimane quella che è stata acquisita da Dio come grazia. E quindi l’uomo giustificato è realmente giusto, interiormente, positivamente, un nuovo essere. Perciò, la nostra questione sul “simul iustus et peccator”, non può essere quella intesa da Lutero e seguaci, perché metterebbe in dubbio l’autenticità della giustificazione che viene da Dio.
Già nel Concilio di Cartagine (anno 418) venne definito il detto “simul iustus et peccator”.
Vien detto:
1° basandosi sul testo di Gv. 1,6, il Concilio condanna chi pensa che si debba dire che portiamo il peccato, soltanto per umiltà, e non perché così veramente siamo (can. 6);
2° si condannano coloro che pensano che quando i Santi dicono “rimetti a noi i nostri debiti”, lo dicano non per se stessi, in quanto ciò per loro non è necessario, ma per gli altri, cioè, per le membra peccatrici del popolo (can. 107);
3° si condanna pure l’opinione secondo cui le stesse parole del Pater noster: “rimetti a noi i nostri debiti”, siano dette dai Santi per umiltà e non secondo verità (can. 108).
Ma questo viene a negare praticamente la giustificazione interiore ed effettiva dell’uomo.
La formula di Lutero, quindi, “simul iustus et pecator” fu condannata dal Concilio di Trento perché presentata come una affermazione concreta e storica. Perciò, l’uomo giustificato, essendo rigenerato interiormente e fatto nuova creatura, non è più colpevole rispetto al peccato, fu eliminato nel suo intimo. Tuttavia, anche l’uomo giustificato rimane come avvolto dalla sua fragilità, rimane quasi unito al proprio passato, benché il peccato, pur cancellato dalla colpevolezza attuale, rimane pur sempre un avvenimento della storia di un determinato individuo che ha ottenuto il dono della giustificazione, ma che deve assumersi il peso dei propri peccati, fino a quando, per la grazia di Dio, il suo tempo diventi non più avvenire, ma un eterno presente in una donazione totale di sé a Dio che si offre all’uomo in Cristo Gesù.
Fu il card. Cassidy che, assieme agli esponenti cattolici e luterani, redasse una “Dichiarazione congiunta” sulla dottrina della “giustificazione”, tutta di valore eretico.
Si pensava che il card. Cassidy si mostrasse rigido coi luterani, scomunicati dal Concilio di Trento, discutendo con gli eretici su dottrine rivelate e definite, invece… non ebbe, certo, l’animo di S. Paolo che combatteva tutti i falsi dottori che trattavano errori teorici e pratici, ed era “sempre pronto a punire ogni disobbedienza, per rendere ogni intelletto un libero prigioniero di Cristo” (2 Cor. 10, 5-6).
Comunque, era già stato riprovevole discutere la dottrina alla pari, quando si sapeva che i luterani professavano una dottrina diversa, una falsa religione, quindi, come l’afferma Pio XI in “Mortalium animos”, perché essi erano e sono per la libertà di dottrina, di governo, di culto, del libero esame, contro il principio di autorità, di obbedienza al Dio Unico e Trino, e alla Chiesa.
Non si doveva discutere, quindi, con chi, parlando di “giustificazione”, nega la purificazione dell’anima, misteriosamente trasformata da diventare santa, unita a Dio stesso, che ne è la causa.
Lutero, considerava la natura umana totalmente corrotta dal peccato originale, per cui l’uomo sarebbe incapace a cooperare con la Grazia attuale che lo muove e prepara alla giustificazione.
L’uomo, per Lutero, rimane totalmente corrotto, incapace di emettere un atto di fiducia a Dio, mentre, invece, per la dottrina cattolica, l’uomo, benché attratto dal male, mediante i Sacramenti viene trasformato, divinizzato, diventando capace di vivere moralmente, e Gesù Cristo gli ha addirittura intimato di divenire perfetto, sì da poter dire con S. Paolo: “che è Cristo, con la sua Grazia, a vivere in lui” (Col. 2, 20).
Al N. 23 della “Dichiarazione congiunta”, invece, viene confermata la dottrina luterana che “la giustificazione si realizza senza la cooperazione umana”, contro il Concilio di Trento.
E al N. 24, viene ribadito che “il dono divino della Grazia nella giustificazione resta indipendente dalla cooperazione umana”, il che viene scomunicato dall’infallibile Concilio di Trento.
Nessuno può misconoscere che ci sia indissolubilità tra Fede, Sacramenti e Salvezza, per cui credere in Gesù significa fare la sua volontà, come risulta dal Vangelo.
Così S. Paolo dice: «Noi siamo, infatti, opera di Lui, creati in Cristo Gesù, in vista delle opere buone, predisposte da Dio perché noi le pratichiamo» (Ef. 2, 10).
Anche se l’opinione luterana della non imputazione sia stata scomunicata, nella “Dichiarazione congiunta”, al N. 22, si legge che «i cattolici professano assieme ai luterani la dottrina della non imputazione», contro la sentenza infallibile del Concilio di Trento che ha emanato:
«Se qualcuno nega che, per la Grazia di Gesù Cristo, conferita nel Battesimo… tutto ciò che è vero e proprio peccato, non è tolto, ma solo imputato, sia anatema» (Cfr. Ds. 15,15).
Per questo, il card. Cassidy e seguaci sarebbero stati scomunicati dal Concilio di Trento, il quale ha scomunicato chi afferma che la grazia sia soltanto un favore di Dio: “esse tantum favorem Dei, anatema sit!”.
Nella “Dichiarazione congiunta”, pur evidenziando le parole: fede, grazia, sacramenti, però, le concezioni tra i cattolici e i luterani sono radicalmente contraddittorie, opposte, perché mentre, per i cattolici, la Fede è un’adesione intellettuale a tutte le verità dogmatiche, per i protestanti, invece, è un atto volontario incondizionato, di fiducia in Dio e non crede alla grazia santificante che rigenera il battezzato. Ma S. Paolo afferma che Gesù fu predestinato a santificarci: “ha amato la Chiesa e si è dato per essa per santificarla” (Ef. 5, 26).
Ora, la “Dichiarazione congiunta” avendo ignorato tutta la Tradizione cattolica, si può dire che non è teologica. I Santi Padri, S. Agostino, il dottore della Grazia, e S. Tommaso, parlarono ampiamente del rapporto tra natura e grazia, per cui, circa la giustificazione, già nel secolo XVI si insegnava una dottrina certa, senza alcun dissenso.
Ricordiamo, qui, la preghiera di Gesù, rivolta al Padre, affinché i suoi seguaci, e non altri, possano vivere la loro unione e santità Trinitaria, “conservandosi nella verità loro rivelata” (Gv. 17, 12), e ricordata dallo Spirito Santo, il cui linguaggio non è percepito da chi è schiavo di Satana, e che è vittima del criticismo moderno che crede d’essere scientifico, mentre è solo inquinato e menzognero.
Gesù Cristo ha fondato la sua Chiesa e non altre chiese, donando solo alla Sua Chiesa gli strumenti di Grazia e di salvezza. Dogmaticamente, perciò, fuori della Sua Chiesa non c’è salvezza. Le “chiese sorelle” non sono che chiese moderniste, destinate a perire se non rientrano nell’unico ovile di Cristo, ossia attraverso l’unità della Fede, cancellando ogni trasformazione della dottrina rivelata.
Il 31 ottobre 1999, sottoscrisse, assieme al card. Cassidy la “Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione”, un evento che il pastore Noko disse: “che ha cambiato il panorama delle relazioni ecumeniche”.
E fu davvero un documento che ha riaperto uno dei problemi dottrinali più importanti che aveva portato - nel Cinquecento - alla Riforma e poi alla Contro-Riforma quell’appunto della “giustificazione”.
Storia dell’ecumenismo, dalle origini al Concilio Vaticano Il
1910 Conferenza missionaria mondiale per la considerazione dei problemi missionari in riferimento al mondo non cristiano, tenuta ad Amburgo.
1921 Nasce il Consiglio Missionario Internazionale.
1925 Nasce il Consiglio Cristiano Universale per la vita e l’azione.
1927 Nasce la Conferenza Mondiale per la fede e la costituzione.
1937 I due organismi precedenti si fondono nel Consiglio delle chiese noto anche come Con¬siglio Ecumenico.
1948 Il Consiglio Ecumenico realizza la sua organizzazione nella assemblea di Amsterdam che vede la partecipazione di molte chiese ortodosse.
1954 Seconda conferenza mondiale a Evanston (USA) con la partecipazione di delegati di 161 chiese di 48 paesi.
1960 A Roma, per opera di Papa Giovanni XXIII, viene costituito il Segretariato per l’unità dei cristiani e affidato al card. Bea. Tale istituto sarà poi trasformato nel Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani da parte di Papa Giovanni Paolo Il nel 1988.
1961 A Nuova Delhi, il Consiglio Missionario Internazionale si fonde con il Consiglio Ecumenico. Partecipano per la prima volta osservatori ufficiali cattolici. Il Consiglio si definisce come: “Una colleganza di chiese che confessano il Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore secondo le scritture, perciò cercano di adempiere insieme la loro comune vocazione dell’Unico Dio, Padre Figlio e Spirito Santo”.
1962 (1962-1965) Si celebra il Concilio Vaticano Il dove vengono invitati a partecipare ai lavori, come osservatori, i delegati delle chiese e confessioni cristiane non cattoliche.
«Se ho contro di me tutti i Vescovi,
ho con me, però, tutti i Santi
ed i Dottori della Chiesa?».
(San Tommaso Moro)
***
«Condannandoci,
voi condannate tutti i vostri antenati.
Perché che cosa abbiamo
noi insegnato
che essi non insegnarono?».
(Sant’Etmondo Campion)http://www.pontifex.roma.it/index.php/opinioni/consacrati/8484-concilio-vaticano-ii-dietro-front-qnulla-possiamo-contro-la-veritaq-parte-9
Capitolo V - COSTITUZIONE “GAUDIUM ET SPES” – Chiesa e Mondo – Come si sa, la “Carta dei Diritti dell’uomo” è nata dalla Rivoluzione francese (1789). Pio IX disse: «La rivoluzione è ispirata da Satana stesso. Il suo scopo è di distruggere dalle Fondamenta il cristianesimo» (8 dic.1849). I principi “Libertà, Uguaglianza, Fratellanza” non sono in sè cattivi, ma lo sono, però, perché sono falsati dal fatto che non sono subordinati a Dio e alla sua legge. Difatti, nel 1789, l’Assemblea Costituente distrusse l’antica Costituzione della Chiesa in Francia; il 4 agosto, soppresse i canoni su cui era fondata; il 27 settembre, spogliava le chiese dai loro oggetti sacri; il 18 ottobre, annullava gli Ordini Religiosi; il 2 novembre, si appropriò delle proprietà ecclesiastiche, preparando così l’atto eretico e scismatico della “Costituzione Civile del clero”, promulgato l’anno seguente. La stessa Assemblea formulò, in 17 articoli, la “Dichiarazione dei Diritti dell’uomo”, sopprimendo ...
... i “Diritti di Dio”. I famosi principi mascherano il vero, che vien posto abilmente confuso con il falso.
Ora, nella Costituzione: “La Chiesa nel mondo di questo tempo”, si legge: «La Chiesa, in virtù del Vangelo (?) che le è stato affidato, proclama i “Diritti dell’uomo”, riconosce e tiene in gran valore il dinamismo del nostro tempo che, ovunque, dà un nuovo slancio a questi diritti».
Se è così, allora non ci sarebbe da stupirsi di quella dichiarazione di Paolo VI, a Manila: «Sento il dovere di professare, qui più che altrove, i “Diritti dell’uomo” per voi e per tutti i poveri del mondo» (27 nov. 1970).
Noi ci aspetteremmo che un Papa sentisse il dovere di professare il Vangelo, ma leggendo, invece, gli scritti di Paolo VI si vede che, per Lui, essere messaggero del Vangelo e della “Carta dei Diritti dell’uomo”, sia la stessa cosa.
E ancora: «La Chiesa crede molto fermamente che la promozione dei “Diritti dell’uomo” sia un’istanza del Vangelo e che essa deve occupare un posto centrale nel suo ministero» (17 nov. 1974).
E insiste: «Desiderando convertirsi pienamente al suo Signore e compiere meglio il suo ministero, la Chiesa intende manifestare rispetto e sollecitudine per i “Diritti dell’uomo” anche all’interno di sé stessa» (Messaggio al Sinodo, 23 ott. 1974).
E continua: «Alla luce di quanto percepiamo del nostro dovere di evangelizzare, e con la forza che ci deriva dal nostro dovere di proclamare la Buona Novella, affermiamo la nostra determinazione di promuovere i “Diritti dell’uomo” e la riconciliazione nella Chiesa e nel mondo di oggi».
Quindi, questa era l’opinione di Paolo VI. Ai suoi occhi, la “Carta dei Diritti dell’uomo” sarebbe una specie di versione moderna del Vangelo, mentre è proprio il contrario!
Il Vangelo, infatti, non insegna i diritti dell’uomo, ma insegna i doveri che abbiamo verso Dio, che però, rispettando quei doveri di DIO, sono rispettati anche i diritti del nostro prossimo. «Ciò che farete al più umile dei miei, è a Me che lo fate» (Mt. 25,40).
Quindi, pensando al “progetto salvatore di Dio” e mettendo Gesù Cristo in primo piano, si deve rigettare la dottrina del Vaticano Il, quale nella Costituzione “Gaudium et spes”, vuole che la Chiesa si apra a tutto ciò che è contenuto nel concetto “Mondo”.
Ora, possiamo dire che l’opera principale del Vaticano II è quella contenuta nel discorso di Giovanni XXIII, nel suo discorso d’apertura al Concilio: “l’aggiornamento”.
L’apertura al “modernismo”, per esempio, è stato un incontro tra “Chiesa e Mondo”, nella pace e serenità. Con l’aggiornamento conciliare per aggiornare le strutture, i modi d’azione, di lingua, la Chiesa si spogliò della sua posizione di supremazia.
La Chiesa, dunque, aperse al mondo, alla società contemporanea, ma anche alle altre chiese e credenze, e perciò al sincretismo, a cui Paolo VI e Giovanni Paolo II, nei loro viaggi, diedero vita. Ricordiamo la visita del Papa alla Sinagoga di Roma, la preghiera al “Dio unico”, a Casablanca, presenti 40 mila musulmani; l’incontro d’Assisi, dove i responsabili delle religioni furono invitati non a “pregare assieme”, ma a “essere insieme per pregare”, come a incoraggiare gli idolatri a praticare il loro culto, per insegnarci, comunque, a difendere i “Diritti dell’uomo”. Una resa al mondo che ci ha fatto perdere la nostra identità cristiana!
Tra i testi del Vaticano II, scritti negli “Atti”, come la “Lumen Gentium” e la “Dei Verbum”, due Costituzioni né dogmatiche, né teologiche, né pastorali, vi è anche la Costituzione “Gaudium et spes” che, qualificata come pastorale, è il testo più caro al Concilio, anche se il più discusso e passionale oggetto del Concilio.
Ma questo occuparsi del mondo contemporaneo, ha finito col far diminuire, sempre di più, l’amore verso Gesù, mentre i passati Concili diedero nelle mani del mondo la ricchezza propria dell’esperienza cristiana, il Vaticano II, invece, ha usato un altro metodo, intraprendendo un’analisi del mondo, delle sue preoccupazioni e desideri. È un antico metodo apologetico, da San Giustino al Vaticano II si trova sempre un medesimo sforzo: stabilire un ponte tra il mondo e la verità cattolica.
Così, il “dialogo” ha sostituito l’“anatema”. Ma mentre gli antichi Concilii dirigevano lunghi esposti teologici, e in brevi riassunti, poi, precisavano le posizioni condannate, nel Vaticano II i Padri, preferendo il “dialogo”, si arresero al mondo!
Nello schema su “La chiesa nel mondo” si ritrovano, infatti, implicitamente, tutti i temi liberali e modernisti, da far pensare che i redattori non avevano certo la fede cattolica, per il semplice fatto che si sia presentato, senza vergogna, ai Padri del Concilio quello schema, che dimostra chiaramente il progresso di quelle idee false. Difatti, la dottrina pastorale, presentata in questa Costituzione, non concorda affatto con la dottrina di teologia pastorale insegnata sempre dalla Chiesa. Le conseguenze furono subito gravi. In molti posti vennero affermate proposte ambigue e pericolose, che esigono una chiara spiegazione per essere ammissibili.
L’unità della Chiesa, per esempio, non è l’unità del genere umano, come si legge a pagina 38 nelle righe 22 e 23, dove la Chiesa viene definita “come il sacramento dell’unione intima con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”.
Moltissime frasi ambigue che dimostrano che la dottrina dei redattori non è quella cattolica tradizionale, ma una dottrina nuova, fatta di un misto di nominalismo, di modernismo, di liberalismo e di teilhardismo.
Moltissime sono le omissioni gravi, come il tacere sempre sul peccato originale e le sue conseguenze sul peccato personale. Sulla vocazione della persona umana, concepisce l’uomo senza la legge morale. Così, si parla della vocazione dell’uomo, senza una parola sul Battesimo, sulla giustificazione e sulla grazia soprannaturale.
La dottrina del catechismo, perciò, è modificata da cima a fondo.
Anche la Chiesa non è più presentata come una società perfetta, dove tutti gli uomini devono entrare per essere salvi; e non è più nemmeno ovile, perché non esistono più né mercenari, né ladri, né briganti, ma è detta solo come “il fermento evangelico di tutta la massa umana”.
Concludendo, si deve dire che questa Costituzione “Gaudium et spes” non è né pastorale né quella emanata dalla Chiesa cattolica.
Difatti, l’articolo della Costituzione “Gaudium et spes” sul mondo contemporaneo, si occupa esplicitamente della “terra nuova e del cielo nuovo”, che avverrebbe come finale del Regno di Dio. Questo articolo conclude il cap. Ill (art. 33-39 GS) col titolo “De novitate humanae in universo mundo”. È un capitolo che esprime una vera esaltazione dell’attività umana, fino al finale del Regno di Dio.
Qui, però, si dimentica che l’attività umana è corrotta dal peccato, il quale tende a piegare il progresso a fini umani, egoistici, mentre essa deve essere purificata per mezzo della Croce e della Risurrezione di Cristo.
È una “dottrina nuova” diversa da quella insegnata da sempre dalla Chiesa cattolica col dire che il “nuovo comandamento dell’amore” è la “legge fondamentale dell’umana perfezione” e, perciò, anche della trasformazione (transformatio) del mondo.
Nell’art. 39 della GS, parlando della “terra nuova” e del “cielo nuovo”, che si attua alla fine dei tempi, il Vaticano II, parlando della sal¬vezza eterna di “tutte le creature”, manifesta l’idea abnorme che nel Regno di Dio entreranno tutte le creature razionali, indistintamente.
Quindi, il Regno di Dio, proposto dal Vaticano Il, non è affatto conforme all’insegnamento della Chiesa di sempre, perché ha non solo oscurato, ma anche deformato la visione del Secolo Venturo, che appartiene alla Fede, inserendo nei testi un contenuto intra-mondano della attività umana, conferendogli persino un significato cosmico, per cui il Regno di Dio sarebbe il punto d’arrivo finale, “eterno ed universale” di tutta l’attività dell’uomo! È chiaro, perciò, la distinzione tra regno della natura dal Regno della Grazia, tra ciò che è dell’uomo e ciò che è proprio di Dio.
Si può anche notare che questo Regno non è più conforme al Regno soprannaturale indicatoci nel Discorso della Montagna, una chiara esortazione a «ricercare, prima di tutto il “Regno di Dio” e la sua giustizia, poiché tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt. 6,33).
La trascendenza del Regno di Dio, quindi, è totale e assoluta. Il Signore ci spinge a lanciarsi con tutta l’anima verso di essa, affidandoci a Lui in ogni nostro problema, difficoltà, bisogno, sofferenza. È lo scopo ultimo, perciò, della nostra vita, sempre insegnato dalla Chiesa di Cristo.
Il Vaticano II, invece, insinua l’idea della natura sociale della Salvezza, che la Chiesa di prima aveva sempre negata, perché dopo la morte, l’anima viene sottoposta al giudizio sia particolare che individuale. Questo risulta dalla Tradizione e dalla Sacra Scrittura (Mt. 5,25-26; 12,36;22,11-14; 25,30 - Rm. 2,16; Ebr. 9,27;10,21-27). Ma per la “Nouvelle Théologie”, invece, è diventata un vero cavallo di battaglia!
Difatti, la “Gaudium et Spes” è apparsa, a non pochi Padri conciliari, come una sorta di “contro Sillabo”.
Il concetto di Incarnazione dell’articolo 22 è apparso notevolmente ambiguo, affermando che «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito “in certo modo” a ogni uomo», dove l’avverbio “in certo modo” vorrebbe dire che ogni uomo è stato “in certo modo” divinizzato dalla Incarnazione di Nostro Signore, mentre sappiamo dal dogma che solo l’uomo Gesù di Nazareth, e solo Lui, fu unito nell’unione ipostatica, esclusivamente alla natura umana. E allora, come mai il Vaticano II ci viene a dire dell’Incarnazione come di una unione di Nostro Signore “con ogni uomo”? Non è, forse, un volere divinizzare l’uomo? Io credo che quell’articolo 22.2 della “Gaudium et Spes” sconfina nell’eresia!
Anche l’inciso che si trova nell’art. 24.4, che l’uomo sarebbe «la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso», ha un carattere eterodosso che manifesta la tendenza antropocentrica che si manifesta nei testi conciliari, come si può rilevare con chiarezza negli art. 12 e 24 della “Gaudium et Spes”, dove l’articolo si occupa dell’uomo “immagine di Dio”. Ma la centralità finalistica dell’uomo nel creato è stata esclusa dalla nuova teologia. L’affermazione che l’uomo sia la sola creatura che Dio ha voluta per sé stesso (GS 24,4), smentisce il passo dei Prov. 16,4: «Universa propter semetipsum operatur est Dominus». Comunque, la dottrina della Chiesa di sempre, a pro¬posito della creazione, è che Dio ha fatto tutto per la Sua gloria, anche se Dio ha voluto l’uomo “re del creato”, e gli abbia concesso di “assoggettare” la terra e di “signoreggiare” su tutti gli animali.
Quindi, l’uomo è stato voluto da Dio, con la sua “humanitas”, per la gloria di Dio, come tutto quello che ha creato. L’antropocentrismo della “Gaudium et Spes” che porta, in sostanza, ad identificare l’uomo con Dio, è solo una aberrante finalità a cui conducono le ambiguità dissennate nei documenti del Vaticano II, come ora vedremo, in breve analisi, in varie parti della “Gaudium et Spes”:
1) A riguardo del “peccato” si può dire che il testo conciliare della “Gaudium et Spes” riassume, la dottrina tradizionale della Chiesa sul peccato; però la definizione del peccato ne abbassa il significato a una dimensione umana che oscura le implicazioni soprannaturali. Difatti, ecco cosa sarebbe il peccato nella “Gaudium et Spes”: «una diminuzione per l’uomo stesso, in quanto gli impedisce di conseguirne la propria pienezza» (GS 13.2). È una definizione che mette in secondo piano il significato oggettivo del peccato, senza riferimento esplicito delle sue conseguenze sovrannaturali.
2) Mentre la Costituzione di un Concilio avrebbe dovuto avere il concetto di peccato in conformità con l’insegnamento tradizionale, ossia che il peccato è anche una diminuzione (della propria umanità), che impedisce all’uomo di conseguire la propria salvezza”, la “Gaudium et Spes”, invece, al posto di “salvezza”, mette “pienezza”. Ma che centra la “pienezza”, e di quale “pienezza” si tratta? E perché il Vaticano II non ricorda, con chiarezza, che, a causa del peccato, l’umanità, alla fine dei tempi, verrà divisa, e per sempre, da Nostro Signore Gesù Cristo, in eletti e reprobi, perché la conseguenza ultima del peccato è proprio quella di chiudere per sempre, ai peccatori impenitenti, la vita eterna?
Quella “pienezza”, quindi, sa di gnosticismo, di pensiero profano, che vede il mondo come antropocentrico della consapevolezza di sé, dell’io, mettendo in oblìo la teologia dei Novissimi!
3) Possiamo, ora, concludere che il peccato, impedendo all’uomo di realizzare la propria “pienezza”, gli impedisce anche di comprendere la propria “innata grandezza”, costituita dalla sua dignità ricevuta da Dio. E allora, come mai la “Gadium et Spes” dedica addirittura gli artt. 19 e 20 all’ateismo, pur ammettendo che l’ateismo costituisce sempre un peccato (GS 21.1), ma che però, non cerca affatto di rifiutarli, anzi li chiama al “dialogo”, e li «invita cortesemente a prendere in considerazione il Vangelo di Cristo con animo aperto» (GS 21.8); non per convertirli, dunque, ma per costruire insieme un mondo migliore (GS 21.7). Ma si rifletta: perché convertirli, allora, se anche loro si salverebbero ugualmente, come si può accertarsene da un ambiguo passo dell’art. 16 della Costituzione “dogmatica” “Lumen Gentium” sulla Chiesa?
4) Secondo la dottrina eterodossa dei “cristiani anonimi” di Karl Rahner, tutti gli uomini sarebbero già stati salvati, senza saperlo, dall’Incarnazione. Secondo questa prospettiva, la “salvezza” (la Redenzione) sarebbe universale, senza più distinzione tra eletti e reprobi.
Il compito della Chiesa, allora, sarebbe solo di far prendere loro coscienza della loro salvezza che già possiedono. Quindi, niente più conversioni al cattolicesimo, e neppure più alcun confronto, ma solo “dialogo” su questa presa universale di coscienza. Simile concezione, però, ci mette di fronte a una teologia che non può dirsi cattolica perché, in modo manifesto, non corrisponde a quanto ha sempre insegnato la Chiesa col suo Magistero sul dogma del peccato originale, definito dal Concilio di Trento.
5) Il testo del Vaticano II (GS 22.2) afferma che l’Incarnazione ha innalzato “anche noi”, la natura umana, a una “dignità sublime”. Ma il Magistero conciliare dei Concilii ecumenici Costantinopolitano Il e III, e quello di Calcedonia, insegnano che l’Incarnazione ha, sì, elevato la natura umana, ma non in noi stessi, bensì in Nostro Signore Gesù Cristo, in Colui, cioè, che si è incarnato, perché uomo perfetto e senza peccato. I dogmi Calcedonesi e Costantinopolitani non contengono affatto l’idea di una Incarnazione che unisca, in quanto tale, il Cristo “a ogni uomo”.
In una sua epistola, san Leone Magno ribadisce questo concetto: «l’unione (Incarnazione) non ha diminuito le caratteristiche divine con quelle umane, ma ha innalzato le caratteristiche umane con quelle divine». L’“innalzato”, però, non è in ogni uomo, ma in sè stessa, nella natura umana, che era unita nella persona del Verbo. L’elevazione della natura umana a una grande dignità, quindi, avviene in Cristo, ma non “eo ipso, anche a noi”, come afferma, invece, la “Gaudium et Spes” (22.2).
Gesù Cristo, in conclusione, ha riformato la dignità della natura dell’uomo innalzando quella dignità della natura umana nella carne assunta dal Figlio di Dio!
6) Non sono poche le conseguenze negative della dottrina di GS 22.2. Mentre, da un lato, essa conduce a divinizzare l’uomo, sorvolando sul dogma del peccato originale, da un altro lato, riduce all’incertezza il dogma stesso dell’Incarnazione, perché mescola il divino con l’umano, in Gesù e in noi.
San Paolo afferma che Cristo è venuto per salvare tutti gli uomini; perciò, «chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo», appunto perché ha creduto in Lui. Quindi, chiunque si converte a Cristo, avrà la grazia per perseverare nella vita cristiana, la sola che ci conduce alla vita eterna. Ora, questa dottrina paolina ha niente a che fare con l’idea della “Gaudium et Spes” 22, che afferma che Cristo si sarebbe incarnato unendosi ad ogni uomo, mentre abbiamo visto che San Paolo non ha mai insegnato che Gesù con l’incarnazione, si sia unito ad ogni uomo.
È chiaro, così, che viene stravolto il significato salvifico del nome di Gesù, quel «nome divino che solo reca la salvezza».
7) L’art. 22.5 della “Gaudium et Spes” applica a tutti gli uomini un concetto che San Paolo, invece, applica, in modo chiaro, ai solo eletti in Cristo, e quindi distinguendo tra buoni e cattivi. Il discorso, perciò, non si accorda con l’insegnamento tradizionale della Chiesa che afferma che lo Spirito Santo dà a tutti gli uomini “la possibilità” della salvezza, sempre condizionata, però, alla cooperazione da parte di ciascun uomo. Quindi, l’insegnamento della “Gaudium et Spes” è una vera “nuova dottrina” affermando che, nell’Incarnazione, il Signore «si è unito, in certo modo, a ogni uomo» presenta una “nuova dottrina”.
La supposta unione ontologica tra Cristo e tutti gli uomini, garantisce a tutti la possibilità della salvezza senza bisogno di farsi cristiani. Perciò, la cristologia della “Gaudium et Spes” è fuori dalla Tradizione della Chiesa, perché insinua che la “Missione” di Cristo non è quella di svelare all’uomo di essere un peccatore, per redimerlo e condurlo alla vita eterna, bensì quella di dargli coscienza della sua dignità e della sua missione, al di fuori di ogni soprannaturalità!
Difatti, l’antropologia delineata dalla “Gaudium et Spes” si segnala, soprattutto, per la “scomparsa della distinzione tra natura e soprannaturale”, rendendo, così, più affine alla concezione dell’uomo del protestantesimo. Perciò, questo Nuovo Cristianesimo ha creato una “nuova ecclesiologia”, secondo la quale non c’è distinzione né separazione tra “Chiesa e Mondo”, per cui non deve esistere per sè stessa, ma per il Mondo, al suo servizio, e perciò non deve più cercare la sua affermazione creando “opere cattoliche”, ma deve mettersi a disposizione del mondo.
In molte proposizioni della Costituzione pastorale “Gaudum et Spes”, si esalta il progresso antropologico e scientifico che ignora completamente e la Grazia divina e la creazione.
Per esempio: nell’articolo 63, si esalta «il dominio crescente dell’uomo nella natura». E per l’uomo afferma: «Oggi, procede sulla strada di un più perfetto sviluppo della personalità e della progressiva scoperta dei propri diritti» (art. 41). Sono parole tra puerili e ignoranti. Basterebbe che chi le scriveva avesse pensato a tutte le schiavitù che ci hanno costretto queste ideologie moderne, insatanate di sesso, di droga, di ateismo!
Anche l’art. 44 lo può attestare: «La Chiesa confessa (?) che molto giovamento le è venuto e le può venire dalla violenta opposizione di quanti la avversano e la perseguitano, e non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dal progresso del genere umano». Parole, anche queste, di una squalificante cognizione del mondo di ieri e di oggi! Perché Paolo VI non è andato a rallegrarsi con il KGB del comunismo ateo, in qualche angolino della Siberia, per constatare “de visu” quel “progresso del genere umano” nei più di duemila “lager” dove i nostri fratelli della “Chiesa del silenzio” soffrivano la tortura e la morte?..
Da notare, comunque, che questa “Dichiarazione conciliare” fu curata dal gesuita card. Bea, circondato da altri cripto giudei, quali l’Osterreicher e il Baum (che aveva gettato alle ortiche la sua tonaca!) e l’onnipotente card. Willebrands!
Questo “nuovo umanesimo” fu proclamato da Paolo VI nel discorso di chiusura del Vaticano II il 7 dicembre 1965, ma lo aveva già trattato nel discorso dell’11 Ottobre 1962.
Aveva detto: «NOI PIÙ di chiunque altro, NOI ABBIAMO IL “CULTO DELL’UOMO”»!
Da allora, la fede cattolica in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, un solo Dio in tre Persone Divine, non è più che un punto fisso attorno al quale l’umanesimo secolare può accedere al suo duplice ideale di perfezione della persona umana, in tutta la sua dignità, e di unità mondiale nella pace terrestre.
Ora, questi due fini ultimi “odorano di eresia”. Nel Vangelo, infatti, leggiamo: «Voi non potete servire Dio e Satana, e il denaro e il Mondo». Eresie, quindi, che riguardano i due fini ultimi, il che esprime la rottura con il Cristianesimo che professa la necessità di credere in Gesù Cristo, non per migliorare la vita umana, ma per sfuggire l’inferno e guadagnare, invece, il Paradiso.
Mentre la Chiesa, prima del Vaticano Il, aveva sempre lavorato “nel Mondo” solo per il suo Signore, oggi, invece, con l’“aggiornamento”, si è aggiornata verso un mondo per il quale «Cristo non ha pregato» (Giov. 17,9), ma al quale, invece, Paolo Vl disse di volgersi con “una simpatia senza limiti”.
Ma questo è uno spirito di adulterio, che sottomette la Fede divina ai capricci delle masse, ispirato dal “Principe di questo Mondo” (2 Tim. 4,3). Un atteggiamento, quindi, che sa più di “mercato” che non di “aggiornamento”!
«La libertà
si sacrifica solo a Dio».
(S. Ecc.za Giambattista Bosio)
***
«È già un approvare l’errore
il non resistervi;
è già un soffocare la verità
il non difenderla!».
(Papa Felice III)http://www.pontifex.roma.it/index.php/opinioni/consacrati/8483-concilio-vaticano-ii-dietro-front-qnulla-possiamo-contro-la-veritaq-parte-10
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