ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 28 settembre 2013

Sretati e incidentati ..!

Ama il link tuo come te stesso. La Chiesa al tempo della rete

Chiesa 2.0
CHIESA 2.0

Oggi il “prossimo” è chi è “connesso” con me. La lezione di Spadaro al Festival del Diritto


Internet sta cambiando il nostro modo di pensare e di vivere. Le recenti tecnologie digitali non sono più tools , cioè strumenti completamente esterni al nostro corpo e alla nostra mente. La Rete non è uno strumento, ma un «ambiente» nel quale noi viviamo. Forse anche qualcosa di più, un vero e proprio «tessuto connettivo» della nostra esperienza della realtà.

Ha scritto Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni del 2010: «I moderni mezzi di comunicazione sono entrati da tempo a far parte degli strumenti ordinari attraverso i quali le comunità ecclesiali si esprimono, entrando in contatto con il proprio territorio e instaurando, molto spesso, forme di dialogo a più vasto raggio».

È tanto più vero se consideriamo come la Rete sia diventata importante per lo sviluppo delle relazioni tra gli appartenenti a quella che ormai viene comunemente definita «generazione Y», cioè quella dei giovani nati tra gli Anni Ottanta e il Duemila. La generazione Y è caratterizzata da una grande familiarità con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali. È la generazione del cosiddetto web 2.0, nel quale i rapporti tra le persone sono al centro del sistema e dello scambio comunicativo, almeno tanto quanto lo sono i contenuti.


Isocial network non danno espressione a un insieme di individui, ma a un insieme di relazioni tra individui. Il concetto chiave non è più la «presenza» in Rete, ma la «connessione»: se si è presenti ma non connessi, si è «soli». Si entra in Rete per sperimentare o incrementare una qualche forma di «prossimità», di vicinanza. Occorre dunque comprendere bene in che modo il concetto stesso di «prossimo» – così caro alla terminologia cristiana, e così legato alla vicinanza spaziale – si evolva proprio a causa della Rete. Da qui certamente seguiranno conseguenze di ordine politico.


La possibile separazione tra connessione e incontro, tra condivisione e relazione implica il fatto che oggi le relazioni, paradossalmente, possono essere mantenute senza rinunciare alla propria condizione di isolamento egoistico. Sherry Turkle ha riassunto questa condizione nel titolo di un suo libro: Alone together, cioè: «Insieme ma soli». Anzi, gli «amici», proprio perché sempre on line , cioè disponibili al contatto o immaginati come presenti a dare un’occhiata ai nostri aggiornamenti sui social network , sono immancabilmente presenti e dunque, proprio per questo, rischiano di svanire in una proiezione del nostro immaginario. La frattura nella prossimità è data dal fatto che la vicinanza è stabilita dalla mediazione tecnologica per cui mi è «vicino», cioè prossimo, chi è «connesso» con me.


Il vero nucleo problematico della questione è il concetto di «presenza» al tempo dei media digitali e dei networksociali che sviluppano una forma di presenza digitale. Che cosa significa essere presenti gli uni agli altri? Che cosa significa essere presenti a un evento, a una decisione? L’esistenza digitale appare configurarsi con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale. Il concetto di partecipazione – ecclesiale o politica – è strettamente legato a quello di «presenza».

L’esistenza digitale, certo, non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una res extensa , una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste solo nell’accadere dell’interazione. Le sfere esistenziali coinvolte nella presenza in Rete sono infatti da indagare meglio nel loro intreccio. Si apre davanti a noi un mondo «intermediario», ibrido, la cui ontologia andrebbe indagata meglio.


Alla luce delle considerazioni sull’essere «prossimo» com’è possibile dunque immaginare il futuro della vita di una comunità ecclesiale al tempo della Rete? Già nel 2001 Manuel Castells comprendeva bene che la questione chiave per noi è il passaggio dalla comunità al network come forma centrale di interazione organizzativa. Le comunità, almeno nella tradizione della ricerca sociologica, erano basate sulla condivisione di valori e organizzazione sociale. Inetwork sono costituiti attraverso scelte e strategie di attori sociali, siano essi individui, famiglie o gruppi.

La Chiesa al tempo della Rete potrebbe finire con l’essere vista come una struttura di supporto, un hub , una piazza, dove la gente possa «raggrupparsi», dar vita a gruppi, o meglio «grappoli» ( cluster ) di connessioni. Questa visione offre un’idea della comunità che fa proprie le caratteristiche di una comunità virtuale intesa come leggera, senza vincoli storici e geografici, fluida.

Come valutare questo modello? Certamente la relazionalità della Rete funziona se i collegamenti ( link ) sono sempre attivi: qualora un nodo o un collegamento fosse interrotto, l’informazione non passerebbe e la relazione sarebbe impossibile. La reticolarità della vite nei cui tralci scorre una medesima linfa dunque non è molto distante dall’immagine di Internet. La Chiesa, infatti, è un corpo vivo se tutte le relazioni al suo interno sono vitali. Già nel Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni del 2011 il Papa notava che il web sta contribuendo allo sviluppo di «nuove e più complesse forme di coscienza intellettuale e spirituale, di consapevolezza condivisa».
La rete di queste conoscenze dà vita a una forma di «intelligenza connettiva». Mons. Gerhard Ludwig Müller, oggi prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede, nel novembre 2012 aveva colto lucidamente la sfida, cioè la «responsabilità della Chiesa nella formazione di una cultura umana collettiva, per la quale la società odierna, con la sua rete di connessioni internazionali – globali – fornisce del resto degli ottimi presupposti».

Tuttavia restano aperti molti interrogativi. La Chiesa infatti non è semplicemente una rete di relazioni immanenti, né è concepibile come un progetto enciclopedico frutto dello sforzo di uomini di buona volontà. La Chiesa ha sempre un principio e un fondamento «esterno» e non è riducibile a un modello sociologico. L’appartenenza alla Chiesa è data da un fondamento esterno perché è Cristo che, per mezzo dello Spirito, unisce a sé intimamente i suoi fedeli. La Chiesa insomma è un «dono» e non un «prodotto» della comunicazione. E questa prospettiva aiuta a comprendere come la stessa società civile non è un «prodotto». L’«appartenenza» (ecclesiale, civile…) non è il prodotto della comunicazione. I passi dell’iniziazione cristiana non possono risolversi in una sorta di «procedura di accesso» (login ) all’informazione, forse anche sulla base di un «contratto», che permette anche una rapida disconnessione (log off ). Il radicamento in una comunità non è una sorta di «installazione» ( set up ) di un programma ( software ) in una macchina ( hardware ), che si può dunque facilmente anche «disinstallare» ( uninstall ).

Ecco allora il nodo: la città di Dio e la città dell’uomo sono chiamate a pensare l’appartenenza al tempo della Rete che, di sua natura, è fondata sui link , cioè sui collegamenti orizzontali. Papa Francesco ha affermato che la cittadinanza è piena solamente se letta alla luce dell’esperienza di popolo che condivide un orizzonte comune che trascende il bilanciamento fluttuante e provvisorio di interessi: «È impossibile immaginare un futuro per la società senza un forte contributo di energie morali in una democrazia che rimanga chiusa nella pura logica o nel mero equilibrio di rappresentanza di interessi costituiti». E dunque «essere cittadini significa essere convocati per una scelta, chiamati a una lotta, a questa lotta di appartenenza a una società e a un popolo». Ma questa, mutatis mutandis , è una definizione valida anche per coloro che sono parte del «popolo fedele di Dio in cammino» che è la Chiesa.
PADRE ANTONIO SPADARO SJ*ROMA

* direttore de "La Civiltà Cattolica

http://vaticaninsider.lastampa.it/inchieste-ed-interviste/dettaglio-articolo/articolo/spadaro-web-cyber-teologia-chiesa-28162/

Ai catechisti: “Meglio una Chiesa incidentata piuttosto che chiusa”

catechisti
CATECHISTI

Nell'Udienza ai partecipanti al Congresso internazionale sulla Catechesi organizzato nell'Anno della Fede, il Papa ha detto: “Non abbiate paura di andare con Gesù nelle periferie”

DOMENICO AGASSO JR.ROMA
“La catechesi è un pilastro per l'educazione della fede, e ci vogliono buoni catechisti!”; e per esserlo bisogna “ripartire da Cristo”, che significa “non aver paura di andare con Lui nelle periferie”. Lo ha detto papa Francesco nell'udienza ai partecipanti al Congresso internazionale sulla Catechesi (in corso da ieri fino a domani nell'Aula Paolo VI) promosso in occasione dell'Anno della Fede. All'inconntro, che tratta il tema “Il catechista, testimone della fede”, sono presenti 1600 tra catechisti, operatori pastorali, docenti ed esperti di varie realtà formative.

Il Pontefice ha ringraziato per il servizio dei catechisti “alla Chiesa e nella Chiesa. Anche se a volte può essere difficile, si lavora tanto, ci si impegna e non si vedono i risultati voluti, educare nella fede è bello! Aiutare i bambini, i ragazzi, i giovani, gli adulti a conoscere e ad amare sempre di più il Signore è una delle avventure educative più belle”. Francesco poi ha puntualizzato: occorre “'essere' catechisti!”; ed ecco uno dei numerosi e consueti passaggi “a braccio” del Papa: “La Chiesa non cresce per proselitismo ma per testimonianza”, ha affermato citando Benedetto XVI. Quello del catechista non è un lavoro: “Badate bene, non ho detto 'fare' i catechisti, ma 'esserlo', perché coinvolge la vita. Si guida all’incontro con Gesù con le parole e con la vita, con la testimonianza. Ed 'essere' catechisti chiede amore, amore sempre più forte a Cristo, amore al suo popolo santo”. E questo amore, “necessariamente, parte da Cristo”.

Il Papa si è soffermato sul concetto di “ripartire da Cristo”: “Che cosa significa questo per un catechista, per voi, anche per me, perché anch’io sono catechista?”. Almeno tre cose.

Innanzitutto vuole dire “avere familiarità con Lui. Gesù lo raccomanda con insistenza ai discepoli nell’Ultima Cena, quando si avvia a vivere il dono più alto di amore, il sacrificio della Croce”. Il Figlio di Dio usa l’immagine della vite e dei tralci “e dice: rimanete nel mio amore, rimanete attaccati a me, come il tralcio è attaccato alla vite. Se siamo uniti a Lui possiamo portare frutto, e questa è la familiarità con Cristo”. Dunque  quello che occorre realizzare prima di tutto “per un discepolo, è stare con il Maestro, ascoltarlo, imparare da Lui. E questo vale sempre, è un cammino che dura tutta la vita!”. Il Papa che sta riformando la Chiesa attraverso la “normalità” ha raccontato una sua esperienza di vita quotidiana, “normale”: “Per me, ad esempio, è molto importante rimanere davanti al Tabernacolo; è uno stare alla presenza del Signore, lasciarsi guardare da Lui. E questo scalda il cuore, tiene acceso il fuoco dell’amicizia, ti fa sentire che Lui veramente ti guarda, ti è vicino e ti vuole bene”. Il Pontefice comprende che “per voi non è così semplice: specialmente per chi è sposato e ha figli, è difficile trovare un tempo lungo di calma. Ma, grazie a Dio, non è necessario fare tutti nello stesso modo; nella Chiesa c’è varietà di vocazioni e varietà di forme spirituali; l’importante è trovare il modo adatto per stare con il Signore; e questo si può, è possibile in ogni stato di vita”.

Poi, ecco il secondo elemento: ripartire da Cristo “significa imitarlo nell’uscire da sé e andare incontro all’altro. Questa è un’esperienza bella, e un po’ paradossale. Perché chi mette al centro della propria vita Cristo si decentra! Più ti unisci a Gesù e Lui diventa il centro della tua vita, più Lui ti fa uscire da te stesso, ti decentra e ti apre agli altri”. E quello descritto dal Papa che proviene “quasi dalla fine del mondo” è “il vero dinamismo dell’amore, questo è il movimento di Dio stesso! Dio è il centro, ma è sempre dono di sé, relazione, vita che si comunica... Così diventiamo anche noi se rimaniamo uniti a Cristo, Lui ci fa entrare in questo dinamismo dell’amore. Dove c’è vera vita in Cristo, c’è apertura all’altro, c’è uscita da sé per andare incontro all’altro nel nome di Cristo”.



Infine, “ripartire da Cristo significa non aver paura di andare con Lui nelle periferie”. Eccola, una delle parole-chiave del pontificato di Francesco: le periferie, non solo geografiche ma anche esistenziali. E qui il Papa ha suggerito “la storia di Giona, una figura davvero interessante, specialmente nei nostri tempi di cambiamenti e di incertezza. Giona è un uomo pio, con una vita tranquilla e ordinata; questo lo porta ad avere i suoi schemi ben chiari e a giudicare tutto e tutti con questi schemi, in modo rigido”. E così “quando il Signore lo chiama e gli dice di andare a predicare a Ninive, la grande città pagana, Giona non se la sente. Ninive è al di fuori dei suoi schemi, è alla periferia del suo mondo. E allora scappa, fugge via, si imbarca su una nave che va lontano”. Il Pontefice ha consigliato di andare a “rileggere il Libro di Giona! E’ una parabola molto istruttiva, specialmente per noi che siamo nella Chiesa. Ci insegna a non aver paura di uscire dai nostri schemi per seguire Dio, perché Dio va sempre oltre, Dio non ha paura delle periferie”. “Dio è sempre fedele – ha proseguito - è creativo, non è chiuso, e per questo non è mai rigido, ci accoglie, ci viene incontro, ci comprende”. Ma per essere fedeli, “per essere creativi, bisogna saper cambiare. Per rimanere con Dio bisogna saper uscire, non aver paura di uscire”.
E poi ha espresso un triplice monito: “Se un catechista si lascia prendere dalla paura, è un codardo; se un catechista se ne sta tranquillo finisce per essere una statua da museo; se un catechista è rigido diventa incartapecorito e sterile”. Bisogna cambiare, per adeguarsi alla circostanze in cui si deve annunciare la Parola di Dio, ha detto il Papa; a volte nelle comunità della Chiesa ”è come essere in una stanza chiusa, e poi ci si ammala, certo se si va per le strade possono succedere incidenti, ma io dico che preferisco mille volte una Chiesa incidentata piuttosto che una Chiesa ammalata”.

Francesco ha precisato che non si è soli: “Gesù non dice: andate, arrangiatevi. No! Gesù dice: Andate, io sono con voi!”. E proprio questa “è la nostra bellezza e la nostra forza: se noi andiamo, se noi usciamo a portare il suo Vangelo con amore, Lui cammina con noi, ci precede, sempre”. E quando si ha timore perchè “pensiamo di andare lontano, in una estrema periferia, in realtà Lui è già là: Gesù ci aspetta nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima senza fede”. “Ci sono tanti bambini che non sanno farsi il segno della Croce. E questa è una periferia", ha detto ricordando la propria esperienza pastorale a Buenos Aires. 

Francesco ha lanciato un appello finale: “Cari catechisti, usciamo, apriamo le porte, abbiamo l’audacia di tracciare strade nuove per l’annuncio del Vangelo”.

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