ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 17 febbraio 2016

Quia pulvis es







Quattuor Temporum Quadragesimae 


Lasciate che anch'io vi rivolga la parola, per incoraggiarvi a questa battaglia del digiuno, fatto in preparazione alla gran festa. Soldati di Cristo, andiamo a combattere contro le potestà invisibili!
I soldati e gli atleti irrobustiscono il corpo per combattere. Noi, al contrario, lo indeboliamo per vincere. 
La mortificazione è per l'anima quel che i massaggi d'olio son per i muscoli.Il digiuno è utile in tutti i tempi, e impedisce sempre gli attacchi del demonio.
Nessuno, dunque, si sottragga al censimento che gli angeli van facendo per le città,notando chi digiuna. Sei ricco? Non stimare il digiuno indegno della tua mensa. Sei povero? Non dirlo l'eterno compagno della tua. Sei un ragazzo? Quale scuola migliore?(Hom.2) . Siate dunque d'aspetto festoso. Gli istrioni recitano la parte dell'ipocrita, dandosi un'aria che non corrisponde alla realtà. Tu non lo fare. Digiuna, ma con viso gaio (Hom. 1).


« Tutto ciò che spicca per antichità è venerabile ». Nessuna cosa è più antica del digiuno. Il piccolo precetto dato da Dio nel Paradiso terrestre, non fu altro che una prova d'astinenza (Gn 3, 3). « Per non aver digiunato, fummo espulsi dall'Eden, digiuniamo,adunque,'perchè tornino ad aprirsi le sue porte ». Sceglietetra Eva e Lazzaro (Lc 16, 21): l'una si rovinò per la gola, l'altro si salvò per le sue privazioni.Mosè si preparò con un lungo digiuno, prima di salire il monte (Es 24, 18), e mentre vi si tratteneva privo d'ogni cibo,Iddio gli scrisse col dito i comandamenti su due tavole. Cosa avvenne nel frattempo ai piedi del monte? Che il popolo si sedette per mangiare e si alzò per giocare, ma dalle       vivande e dal gioco passò all'idolatria.
Passando alla vita spirituale, « è il digiuno che dà ala alla preghiera, perché possa salire al cielo; è la saldezza                   della famiglia, la salvezza della madre e il maestro dei figli. Il digiuno, non solo ti libera dalla condanna nell'altra vita,            ma ti preserva da molti mali, e tien soggetta la carne, diversamente non domabile ... Bada che non t'accada che,                        disprezzando ora l'acqua, non abbia poi ad implorarne una goccia nell'inferno. Vivete nelle crapule, e trascurate di                  nutrire l'anima, coi dommi e la dottrina « come se non sapeste che viviamo continuamente in guerra, e che chi sostenta            una parte, contribuisce alla sconfitta della contraria. Pertanto, colui che serve la carne, annienta lo spirito, ma chi aiuta lo        spirito, riduce il corpo suo schiavo ...         
         (Ad Populum variis argumentis homiliae XIX. H omiliae I et II de ieiunio Divi Basilii Magni..)


                      POLVERE SEI E RITORNERAI

    «Convertitevi e credete al Vangelo» equivale a «Ricordati uomo che polvere sei e ritornerai»?Quelli nati prima del Concilio ricordano come i fedeli si accostavano all’altare per ricevere sul capo un pugno di cenere benedetta 
di Francesco Lamendola


Il Mercoledì delle Ceneri, introduzione alla prima Domenica di Quaresima, i fedeli cattolici celebrano l’avvento di un tempo sacro “forte”: un tempo che preannuncia la Resurrezione, massima ricorrenza liturgica del calendario cristiano; i quaranta giorni che precedono la Pasqua e che sono dedicati alla riflessione, alla preghiera, al raccoglimento, alla penitenza, al digiuno.
Quelli che appartengono alla generazione nata prima del Concilio, ricordano come i fedeli si accostavano all’altare per ricevere, sul capo, un pugno di cenere benedetta, mentre il sacerdote pronunciava una frase solenne, tale da far tremare le vene e i polsi; e la diceva in latino (tutte le formule liturgiche erano in latino, allora), cosa che ne accresceva la solennità e ne amplificava il mistero: «Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris»: Ricordati, o uomo, che sei polvere, e che in polvere ritornerai. Quelli della nostra generazione erano, allora, bambini di sei, sette, otto anni: eppure non sfuggiva loro l’intimo significato della cerimonia, la sua grandiosa serietà, la sua austera e veritiera pedagogia; e anche la bellezza e l’autorevolezza della lingua latina aveva, in ciò, la sua parte: perché la liturgia è un insieme di simboli, e i simboli valgono per ciò cui alludono, non per ciò che sono in se stessi, materialmente e accidentalmente.  I cattolici dell’ultima fase pre-conciliare avevano conservato qualche sia pur debole riflesso della grande e affascinante concezione cristiana medievale: secondo la quale tutto è segno della presenza di Dio, a cominciare dagli oggetti della natura; e secondo la quale, per intendere rettamente lo spettacolo del mondo, non ci si deve fermare alla superficie, alle cose quali ci si presentano materialmente, ma bisogna domandarsi a che cosa alludano, di che cosa siano la manifestazione.
Ecco: la fila dei credenti era lì, raccolta ai piedi del presbiterio; dall’alto dei gradini, il sacerdote, più che mai solenne nei suoi paramenti sacri – colore liturgico quaresimale: il viola -, attorniato dai chierichetti che facevano oscillare il turibolo dell’incenso, sparge la cenere sulla testa dei giovani e dei vecchi, dei ricchi e dei poveri, dei sani e dei malati, dei felici e degl’infelici, e a ciascuno, solennemente, con franchezza quasi brutale, ma necessaria, ripeteva, scandendo bene le parole: Ricordati, uomo, che polvere sei, e povere tornerai. E ciascuno, dopo aver ricevuto, sul capo, quella manciata di cenere, se ne tornava al proprio posto, e s’inginocchiava sul banco, a pregare e a riflettere, pensando, più o meno: «La vita è breve, è solo un pellegrinaggio: una manciata di giorni, di mesi, di anni, come questa manciata di cenere che il ministro di Dio ha lasciato cadere sui capelli bianchi dei vecchi e sui capelli folti e splendenti dei giovani. Tutti veniamo dalla terra, nudi, e alla terra torneremo, altrettanto nudi; delle cose che bramiamo così ardentemente, e per le quali tanto ci affatichiamo, nemmeno una potremo portarla oltre i cancelli della morte, davanti a Dio giudice. Che sarà un giudice misericordioso, certo, perché Dio è misericordia; ma anche giudice giusto, e quindi severo, che non fa sconti dell’ultima ora, che non salva chi non ha voluto essere salvato, e non perdona a chi non ha voluto essere perdonato, né ha saputo, a sua volta, perdonare». Era una pedagogia del realismo: l’uomo è creatura, e deve sempre ricordarsene; se lo dimentica, se crede di poter giocare ad essere Dio, va incontro alla rovina materiale e alla perdizione dell’anima.
La formula latina, infatti, è la traduzione di un passo della Bibbia, e precisamente del Libro della Genesi: del passo nel quale Dio, dopo aver fatto scacciare i due primi uomini dal Paradiso terrestre, colpevoli, appunto, d’un gravissimo peccato di superbia, ammonisce Adamo con queste tremende parole: «Con il sudore della fronte ti guadagnerai il pane, finché non tornerai alla terra: perché polvere sei e polvere ritornerai» (3, 19). Era una pedagogia efficacissima: valeva più di mille parole.
Poi è arrivata la riforma liturgica del Concilio Vaticano II, e anche questa formula, come tante altre cose, è stata relegata in soffitta – non si sa bene da chi, né per quale ragione; al suo posto, il sacerdote pronuncia ora una frase dal tono e dal significato assai diversi: «Paenitemini, et credite Evangelio»: Convertitevi, e credete al Vangelo. Anche queste parole, ormai pronunciate sempre in lingua italiana, sono tratte dalla Bibbia, precisamente dal Vangelo di Marco (1,15), e si riferiscono all’inizio della vita pubblica di Gesù Cristo, con l’annuncio del suo messaggio di salvezza: «Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo». Sono parole molto belle, senza dubbio: solenni, carche di significato, perfino conturbanti; parole che scuoterebbero anche l’anima più indurita nel vizio, anche il cuore più sprofondato nell’indifferenza. E, tuttavia, si può affermare che esse siano altrettanto efficaci, altrettanto appropriate di quelle che si pronunciavano un tempo, e che richiamavano l’uomo, in maniera esplicita, quasi rude, alla sua natura mortale, alla sua condizione creaturale?
Sorge spontanea la domanda: perché la formula del Mercoledì delle Ceneri è stata cambiata? Perché qualcuno ha pensato che quella in uso nella Chiesa, da tempo immemorabile, non andasse più bene, e che fosse necessario aggiornarla? In che cosa la nuova formula risponde meglio agli scopi che la cerimonia stessa si prefigge? In che cosa, e perché, qualcuno ha presunto che essa risultasse più utile per la santificazione delle anime e per cooperare alla loro salvezza? Le cose non si cambiano così, senza una ragione, senza uno scopo; non si cambia nemmeno la formazione di una squadra di calcio, fin che i risultati sportivi sono buoni, fin che le cose marciano nel senso giusto. Tanto meno si cambia la sacra Liturgia, frutto di una esperienza e di una saggezza due volte millenarie, e che – giova sempre ripeterlo e tenerlo bene a mente – non rispecchia un sapere puramente umano, una volontà puramente umana, ma è espressione di una Tradizione che scende dall’Alto, in quanto ispirata da Dio.
Convertirsi e credere al Vangelo: certo, l’essenza del messaggio è tutta qui. Ma queste parole non sono specificamente adatte alla particolare funzione che si celebra nel giorno delle Ceneri: non recano con sé l’idea della penitenza, né quella della fragilità umana, né quella della brevità della vita e della illusorietà dei beni terreni; non implica nessuno di questi pensieri, non evoca una sola di queste immagini. Non riconduce l’anima al pensiero della vecchiaia e della morte; non la obbliga a fare i conti con la transitorietà della condizione terrena. È molto più generica, molto più ampia, ma anche più astratta. Convertirsi e credere alla Lieta Novella: certo. Ma ciascuna anima ha la sua strada da percorrere, ciascuna segue le sue vie per arrivarci. Invece, la vecchia formula del «Memento» era, nel medesimo tempo, personalizzata e collettiva. Invitava ciascuna anima a fare i conti con se stesa, a fare il bilancio della propria vita, a tenere lo sguardo fisso su quello che conta, su quello che è essenziale, su quello che resterà per sempre; e, insieme, esortava tutte le anime a staccarsi dai pensieri e dai desideri di quaggiù e ad alzare lo sguardo verso il Cielo, ma passando attraverso la severa esperienza della morte, che si deve affrontare in solitudine, senza il conforto di amici, di beni, di sostegni d’alcun genere.
La vecchia formula del «Memento» era parte di una liturgia, di una pedagogia e di una dottrina, o di un complesso dottrinale, molto più vasto: era uno dei tanti elementi, dei tanti simboli, dei tanti mezzi per ricondurre l’uomo alla coscienza della sua fragilità, provvisorietà (in quanto corpo) e creaturalità; per impedirgli di adagiarsi troppo nelle pieghe della vita terrena, di scordarsi d’essere solo un pellegrino, d’illudersi di essere già arrivato. Cristiani non si è mai completamente; ci si sforza di esserlo, si tenta di esserlo, ci si protende alla ricerca di Dio. Si bussa alla sua porta, si chiama il suo nome, si supplica il suo aiuto.
L’anima religiosa ha una infinita nostalgia della trascendenza, ha fame e sete di spiritualità. Ecco perché una liturgia troppo razionale, troppo funzionale, troppo “moderna”, tradisce la sua stessa missione. La liturgia non ha lo scopo di creare una cornice scenografica intorno agli atti della fede; niente affatto: ha lo scopo di simboleggiare, attraverso segni, forme, colori, parole e gesti, sensazioni e formule rituali, ciò che, in questa dimensione terrena, rimane celato, perché è invisibile all’occhio del corpo. Ha lo scopo di fornire al credente un piccolo anticipo di eternità; di socchiudergli una finestrella sull’infinito e sull’assoluto; di ricordargli e suggerirgli che, quando potrà incontrare Dio faccia a faccia, tutto gli apparirà chiaro, tutto gli sarà svelato, anche quelle cose che, ora, gli rimangono oscure; anche quelle cose che lo turbano, che lo inquietano, che lo angosciano, perché, nella sua limitata esperienza umana, non può vederle sino in fondo, nella loro vera luce, né riesce a interpretarle chiaramente, perché fuorviato dal modo di sentire e di pensare che è proprio della natura umana, ma che differisce alquanto dalla luce abbagliante, sfolgorante, dell’Intelletto e della Sapienza divini.
Se la religione dovesse privare gli uomini di questa domanda di spiritualità, se dovesse rispondere con argomenti, con gesti e con parole puramente umani, alla sua sete e fame di Dio, allora essa tradirebbe l’uomo e tradirebbe se stessa; tradirebbe la propria missione, la propria ragion d’essere, la propria meta; smentirebbe impietosamente ciò per cui è stata istituita, amata, custodita: portare le anime verso Dio, accompagnarle al compimento del loro destino eterno. Questo vale anche per l’arte sacra: pensiamo alla «Divina Commedia»; pensiamo alla musica sacra di Bach; pensiamo alle migliaia e migliaia di architetti, di pittori, di scultori, di mosaicisti, di vetrai, i quali hanno costruito e abbellito le chiese e le cattedrali di cui è disseminata la cristianità, da un capo all’altro della Terra, a partire da un tempo che rimonta indietro, ormai, di quasi duemila anni. Ciascuno di loro ha sentito come sua missione imprescindibile quella di indicare alle anime la vita del Cielo; di distoglierle dal male e dal peccato; di riavvicinarle alla Verità e all’Amore divino.
Non sempre sono stati fedeli a tale missione. Qualche volta, bisogna ammetterlo, si sono lasciati afferrare dalla seduzione di ciò che è terreno, si sono lasciati irretire dalla bellezza umana: e, così, invece di mostrare alle anime la via del Cielo, le hanno riportate sulla terra, nel mezzo delle passioni, delle brame, dei desideri, a volte disordinati: e ciò è accaduto specialmente a partire dal Rinascimento, quando la bellezza terrena è divenuta un valore in se stessa, slegata dalla Bellezza spirituale, la quale, come nel paganesimo antico, ha trascinato gli uomini verso la palude della concupiscenza, invece di innalzarli verso le altezze del soprannaturale. Eppure, anche in mezzo a tali errori e deviazioni, qualcosa della missione originaria, della santa ispirazione che aveva mosso quegli artisti e che aveva dato vita a quelle opere, è rimasto; raramente il senso del divino si è perduto del tutto, anche nel tempo che più si è impegnato a celebrare l’uomo, la sua dignità, la sua autonomia, la sua fiducia in se stesso.
Le cose hanno incominciato a cambiare con l’avvento della civiltà moderna. La società, la cultura, la famiglia, il lavoro, le professioni, si sono gradualmente allontanati dalla sfera del divino; hanno creduto di emanciparsi da Dio; si sono scordati del Cielo, e, alla fine, lo hanno rinnegato, lo hanno vilipeso, lo hanno oltraggiato. L’arte sacra moderna ha risentito di questo stravolgimento, di questa involuzione. L’architettura degli edifici sacri ultramoderni, le vetrate delle chiese, perfino le illustrazioni dei Messali (ce lo faceva notare proprio un sacerdote) hanno smarrito la dimensione del sacro, si sono secolarizzate, si sono abbassate sull’orizzonte immanentistico. Invece di trasmettere spiritualità e sete di Dio, spesso non trasmettono altro che confusione, smarrimento, inquietudine. E la stessa cosa è accaduta, purtroppo, anche alla sacra liturgia. In parecchi aspetti, essa ha cessato di indicare la via delle altezze, e si è messa a corteggiare l’effimero, a ricalcare e quasi a scimmiottare modi e stili della società profana, del mondo secolarizzato. Si è trattato di un errore colossale; sempre ammesso che di un errore si sia trattato, di una imprudenza, di una leggerezza, e non qualcosa di assai peggiore.
In una società secolarizzata, il compito della religione non è quello di elemosinare un posticino accanto alla cultura laicista, quasi per farsi perdonare il suo essere “diversa”, il suo essere “scomoda”: tutt’altro. «Voi siete il sale della terra – disse una volta il divino Maestro ai suoi discepoli -; ma se il sale perde il suo sapore, con che cosa lo si renderà salato?» (Matteo, 5, 13). E ancora: «Voi siete la luce del mondo: non può restare nascosta una città collocata sopra un monte; né si accende la lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Matteo, 5, 14-16).
Ebbene: anche la sacra liturgia deve risplendere davanti al mondo, deve illuminare tutta la casa. È un segno, certo: ma lo è come la conchiglia che reca in se stessa l’eco misteriosa del mare lontano..
«Convertitevi e credete al Vangelo» equivale a «Ricordati, uomo, che polvere sei e ritornerai»?

di Francesco Lamendola

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