ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 19 settembre 2011

Fritto misto

L’aria fritta di Mancuso. Con uno chef d’eccezione, Gustavo Zagrebelsky




 Ho letto su Repubblica la recensione entusiasta di Gustavo Zagrebelsky all’ultima fatica (si fa per dire) di Vito Mancuso, quel libro dal titolo «Io e Dio» con cui l’autore vuole insegnarci la sua particolare «teologia», ove «il passo decisivo è il rifiuto di un Dio che comanda, giudica, condanna esercitando un potere esterno».

Non ho letto, e non intendo leggere, il libro in questione: a una certa età «il tempo si fa breve» e bisogna saper scegliere quali letture fare. Del resto mi ha colpito questa caustica riflessione di Camillo Langone su Il Foglio di oggi, 10 settembre 2011: «Se un albero balordo produce buoni frutti lo si può ancora definire balordo? I libri di Paolo Brosio, considerato meno che un sempliciotto, vendono. Di più: vengono letti. Ancora di più: vengono creduti. Ho visto persone partire per Medjugorje, e tornarne cambiate, grazie alle sue pagine prive di qualsiasi pretesa letteraria o teologica. Mentre non ho mai conosciuto nessuno che si sia avvicinato o riavvicinato ai sacramenti grazie ai libri degli intelligentissimi [e qui il Nostro elenca una serie di personalità cattoliche - NdC]… Nessuno. Il Vangelo è un libro rivoluzionario, applichi Matteo 12,33 (“dal frutto si conosce l’albero”) e ribalti un mucchio di reputazioni.»
Credo che sia il miglior commento a quanto scritto da Zagrebelsky. Non intendo avvalorare il giudizio di Langone sugli «intelligentissimi», certo è che un libro deve servire, proprio perché introduce alla verità della vita, ad un vivere bene, ad un cammino che apra gli orizzonti dell’uomo a qualcosa di più che un semplice sentimento. Se vale la pena credere a un Dio, penso che questo implichi che sia una realtà «reale», non una proiezione di sé, di uno stato d’animo, di un desiderio irrealizzato. Che farsene di un dio così: «Il mio assoluto, il mio dio, ciò che presiede la mia vita, non è nulla di esterno a me», dice Mancuso. Vuol dire che è dentro di me, nel senso ch’io sono dio per me stesso? Per nulla. «Credendo in Dio, io non credo all’esistenza di un ente separato da qualche parte là in alto; credo piuttosto a una dimensione dell’essere più profonda di ciò che appare in superficie […], capace di contenere la nostra interiorità e di produrre già ora energia vitale più preziosa, perché quando l’attingiamo ne ricaviamo luce, forza, voglia di vivere, desiderio di onestà. Per me affermare l’esistenza di Dio significa credere che questa dimensione, invisibile agli occhi, ma essenziale al cuore, esista, e sia la casa della giustizia, del bene, della bellezza perfetta, della definitiva realtà»?
Di questo «dio» ci hanno sbarazzato Feuerbach e Marx. Perché non imparare la lezione?

Io credo in quel Dio che ha un volto umano, e che Benedetto XVI e la Chiesa mi fanno conoscere ed incontrare. E so per certa esperienza che tale Dio (che è il Dio di Gesù Cristo, Padre, Figlio e Spirito Santo) mi chiede quella obbedienza per cui servire a Lui è veramente regnare. Cioè essere finalmente se stessi. Alla faccia di Mancuso e Zagrebelsky.

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