È quando finiscono le (vane) parole, che inizia la preghiera
una riflessione su un modo alternativo di pregare: cioè stando seduti zitti e fermi
Silenzioso Dio, che ti nascondi dentro un po’ di pane. Ma se Dio già sa che ti serve, perchè lo ammorbi ripetendoglielo? Nel cuore di Roma: chiesa dei SS. Andrea e Claudio. Il Sacramento è esposto (ma tu fissi i glutei della ragazza al banco davanti). Su 100 persone che pregano, 99 si illudono. Non prenderti troppa confidenza con Dio. Se sei Dio e questa è la città del tuo vicario, perchè ci sto solo io in chiesa? Quel libretto su una sedia… Solo un po’ di compagnia. La musica del silenzio: è la voce di Dio stesso.
La preghiera non è fatta solo di parole, può essere fatta anche di silenzio, astensione dalla parola, mentale e vocale; così come l’adorazione eucaristica non necessariamente deve essere un’azione, e magari azione frammista a parole; la si può fare anche astenendosi dal compiere e dal dire alcunchè all’indirizzo del Sacramento. Si può pregare e adorare persino in maniera più alta il Santissimo, standosene seduti zitti e fermi: semplicemente facendogli compagnia, e Lui a noi. Anche tutto questo è preghiera.Quando all’improvviso non riesci più a dire niente e resti muto e sgomento davanti alla Sua Presenza, è quello l’attimo in cui stai facendo veramente ingresso nel Mistero. Quando finiscono le parole, è quello il momento in cui inizia la vera preghiera. Quando inizia il silenzio, là iniziano le parole di Dio. Ascoltare il segreto, il mistero, la musica che c’è nel silenzio è ascoltare la voce di Dio stesso. Una strana, ineffabile sinfonia intellegibile al cuore soltanto, che umile e docile, la trasmette all’anima. Questo è l’istante in cui inizia la vera adorazione.
di Antonio Margheriti Mastino
SILENZIOSO DIO, CHE TI NASCONDI DENTRO UN PO’ DI PANE
Pensando ai miei due ultimi articoli sul “silenzio” e le “vane parole”, all’orecchio della memoria ha cominciato a risuonare l’eco di una “canzone” liturgica della mia infanzia, che, stranamente, aveva parole molto belle e pertinenti, e che riecheggiano i più eloquenti bravi veterotestamentari. Il ritornello, che ricalcava l’incipit del Libro di Geremia, era questo: “Prima che io nascessi, mio Dio, tu già mi conosci…”, e dice ancora, “Ricordati, Signore, che l’uomo è come l’erba, come il fiore del campo”, e conclude: “Spirito della vita, che abiti nel mio cuore: rimani in me, Signore, rimani oltre la morte…”, e queste ultime parole non c’entrano col nostro discorso e ve le riporto solo perchè mi piacciono. E poi me ne tornava in mente un’altra, con le stesse qualità della prima, solo un po’ più patetica – come era nello stile del famigerato don Giosy Cento, il prete cantautore di canzonette religiose anni ’70 che agli anni ’70 a tuttoggi sembra ancora fermo, canzonette abusivamente elevate a inni liturgici – e che faceva così: “Silenzioso Dio che ti nascondi dentro un po’ di pane, come un bambino dentro la sua mamma”, e proseguiva, “oggi Tu entri nella mia vita… io ti adoro silenzioso Dio che mi hai creato con immenso amore; e inviti l’uomo nella casa tua, alla tua mensa nell’intimità. Tu sazi l’uomo con la vita tua; un infinito sei dentro le creature; e l’uomo sente e vede il volto vero di un Dio che vive nell’umanità”. Niente, ve lo dico per richiamare ricordi che suppongo comuni a noi cattolici da parrocchietta del quartierino: per creare l’atmosfera, ecco. E anche per comunicarvi un’altra cosa.
MA SE DIO GIÀ SA CHE TI SERVE, PERCHÈ LO AMMORBI RIPETENDOGLIELO?
Dice: abbiamo tanti problemi, e se vogliamo che Dio ci ascolti, occorre che gli raccontiamo tutto per tiro e per segno. A che pro? Ma che te voi raccontà? Che glielo “chiedi” e richiedi a fare se Dio già sa tutto, e soprattutto sa di cosa hai bisogno, come ha pure appena affermato Geremia (“Prima che tu nascessi, Io già ti conoscevo”). E invece no!… ci incaponiamo che dobbiamo comunque ammorbare l’Altissimo con inutili e spesso fastidiose parole. E succede, succede sempre, che quando si ha bisogno, presi dall’urgenza, nella frenesia parolaia e cronachistica, rivolgendoci a Lui, si rischia di cadere nella tentazione di esprimere voti che poi non saremo capaci di rispettare, compiendo così un gravissimo sacrilegio. E infatti, proprio ad evitare questi incidenti che equivarrebbero a una turlupinatura del Signore, il Qoelet severamente avverte: “E’ meglio non far voti, che farli e poi non mantenerli. Non permettere alla tua bocca di renderti colpevole e non dire davanti al messaggero [Il sacerdote che a detta del Levitico aveva il compito di controllare le offerte presentate al tempio. Ndr] che è stata una inavvertenza, perchè Dio non abbia ad adirarsi per le tue parole e distrugga il lavoro delle tue mani. Poiché da molti sogni provengono molte delusioni e molte parole. Abbi dunque il timore di Dio”.
Il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno… prima che gliele chiediamo. Parole rassicuranti, che fanno piacere: rilassiamoci, dunque, mettiamo da parte le ansie comunicative: chi troppo parla poco sente e meno dice; non si accorge più di niente e di nessuno. Riflettiamola bene quella frase. A me ha fatto riflettere assai. Non è un caso, quindi, che abbia capovolto il mio approccio col Divino.
Mi spiego.
NEL CUORE DI ROMA: CHIESA DEI SS. CLAUDIO E ANDREA
Lo sapete, il centro di Roma in certe ore del pomeriggio è un casino, una babele. Un giorno che non ne potevo più di tutte le lingue del mondo, di clacson, fumi di scarico, sirene, autoblu e autobus, taxi, ubriaconi, mendicanti di professione, gente sporca e ciancicata, finti handicappati, trovandomi a piazza San Silvestro, vicino Palazzo Chigi, dissi basta, mi hanno scassato tutti le palle: la prima chiesa che trovo mi ci barrico dentro e se possibile chiudo a chiave pure il portone.
Ebbene, la prima che mi capitò a tiro era appunto San Claudio e Andrea dei Borgognoni. Entro per sedermici e rilassarmi. Ma appena entrato mi dico subito c’è poco da rilassarsi qui: no, i rumori dell’esterno arrivavano molto filtrati, non era per questo. È per via che c’era -e come dopo capii, c’è sempre- il Santissimo esposto sull’altare. Come faccio a rilassarmi mò se c’è Lui lì che mi guarda?, mi dissi subito. Mò cambio chiesa, lì per lì mi balenò in testa. Poi pensai che magari facevo una offesa sanguinosa al Santissimo: ma come, entri in chiesa, la casa del Signore, vedi che c’è il Signore esposto e tu che fai? … scappi casomai il Padrone di Casa disturba il tuo bivaccare. Non solo era una offesa alla Presenza Reale quel mio pensiero, non solo era un sacrilegio inverecondo: era una vera e propria tentazione demoniaca. Come se poi andando in un’altra chiesa il Sacramento non ci sarebbe stato comunque: “Sì, c’è pure là, ma almeno è nascosto e non ti mette in imbarazzo”, mi diceva ancora la testa. Ossia il demonio. Alla fine mi vergognai di questo pensiero e, comunque controvoglia, restai lì. Sicuramente queste parole susciteranno lo scandalo di qualcuno. Qualcuno precipitoso, però. Vi devo una spiegazione, infatti.
IL SACRAMENTO È ESPOSTO (MA TU FISSI I GLUTEI DELLA RAGAZZA AL BANCO DAVANTI)
Tutto questo intrippo nasce da un equivoco di fondo: il credere che la preghiera sia fatta di sole parole, o addirittura di parole compulsive, di frenesie d’ogni genere, sino alla stravaganza. E così quella volta capitò a me. Mi spiego meglio.
Fuori c’era casino, io ero stressato, stanco di tanto vociare, disgustato dalla bolgia e dall’alienzione dell’essere sconosciuti nella metropoli; entro in chiesa per stare in silenzio, procurare un po’ di vuoto e di pace al cervello, sedermi e prendere fresco. Sull’ultima sedia, al riparo da ogni sguardo indiscreto. Ma che mi trovo davanti? Un Santissimo esposto. Ossia Colui che mi vede, non solo fuori, ma pure dentro, e che, alla faccia della discrezione che andavo cercando, guardandomi dentro e fuori non poteva non vedere la mia sporcizia morale. Tanto più che poco più avanti c’era una dorata giovane polacca inginocchiata a pregare, e io le stavo fissando il culo (un’altra -diciamola tutta- delle ragioni per cui mi siedo sempre all’ultimo banco: ottima visuale). E quel Sacramento sembrava fissarmi e vedere pure questo: le immagini immonde che, Lui presente, mi scorrevano nella testa: come potevo rilassarmi? “Mi accusa, mi sta accusando, essì ce l’ha proprio con me stammatina: vedi come mi fissa… vedilo!”, mi diceva il cervello come un automa, senza che riuscissi a frenarlo e mettendomi in imbarazzo. Poi pensai che forse non era il cervello che faceva l’automa: ma la mia coscienza che automaticamente “prende atto che faccio schifo e mi addita al Santissimo”. E poi un Santissimo, che incorpora il Cristo, se sta lì esposto è per essere adorato, ergo te devi mettere ad “adorarlo”. Altro che rilassarsi! Ed è qui il punto, qui nasce l’equivoco, l’uggia sbuffante.
SU 100 PERSONE CHE PREGANO, 99 SI ILLUDONO
Infatti ero convinto che adorare e pregare il Sacramento significasse una cosa soprattutto: parlare, parlare di continuo al Santissimo: parole parole parole, soltanto parole, parole tra noi, come dice la canzone di Mina. Imbastire tutto sulla parola, lo sperpero a volontà di parole: ero imbevuto di manie tipicamente post-conciliari. Dire preghiere preconfezionate, le classiche, e, come non bastasse, aggiungerci le implorazioni, le lodi che seduta stante ti passavano per la testa, a ruota libera, sforzandoti di ritradurle, meditandole, in bella forma: è quest’ultimo sforzo di magniloquenza, tronfia e vuota il più delle volte, ti rende non solo più stitico ancora, ma se qualcosa tiri fuori è pure una ciofeca. Allora capite bene lo stress. Stress di chi non ha capito niente, nemmeno con chi ha a che fare. Eppure, avrei dovuto ricordare che Matteo aveva riferito queste già altrove citate parole del Cristo (Mt 7: 21): “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”.
Ma soprattutto avrei dovuto ricordare le pesantissime parole di Ignazio di Loyola, uno che di profondità delle coscienze se ne intendeva – tanto da aver creato quella sorta di “psicoanalisi” cattolica, che da secoli si dimostra quasi sempre infallibile ove la si sperimenta: gli Esercizi (quel che venne secoli dopo, Freud e Jung, furono scimmiottature di dilettanti allo sbaraglio) –, il quale affermò: “Su 100 persone che pregano, 99 si illudono”. Proprio per le ragioni succitate.
Ad ogni modo, stetti un po’ in ginocchio, dissi le solite preghiere pensando alle ginocchia che mi facevano male. Stetti in piedi, e ancora preghiere: pensando che mi facevano male i piedi ed ero stanco. Stetti seduto continuavo col bla bla bla, parole parole parole: pensando che mi faceva male la testa. E che volevo silenzio. Ma niente: penso, studio, preparo in tutta fretta quello che gli devo dire: sembra male, mi dicevo, stare davanti al Sacramento e star zitti, mi giudicherà impreparato, un indolente. Come fosse un esame, come se la favella dovesse servire a distrarre l’interrogante dalle domande che ci prenderebbero in fallo, cercando di dirottarlo su quelle che ci sono più facili: e allora bisogna parlare, parlare, ossia “pregare”. E con tutto questo rumore dentro, che eguagliava e superava quello di fuori… in un attimo fui trafitto.
NON PRENDERTI TROPPA CONFIDENZA CON DIO
Mi ricordai quel severo ammonimento del Qoelet -troppo spesso e da troppo tempo dimenticato da fedeli e sacerdoti-, dal titolo già di per sé forte tanto che un tempo mi era sembrato persino stravagante: “Non prenderti troppa confidenza con Dio”. E spiegava: “Bada ai tuoi passi, quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicinarsi per ascoltare vale più del sacrificio offerto dagli stolti che non comprendono di far male. Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio, perchè Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò le tue parole siano parche, poiché dalla molte preoccupazioni vengono i sogni e dalle molte chiacchiere il discorso dello stolto”. Rimasi ammutolito. Senza più pensieri. Senza più parole, come alcune volte mi era successo agli esami universitari, studiati a memoria e senz’anima: arrivato davanti al professore, non avevo nulla da dire, tutto dimenticato, evaporato dalla testa, confusione tanta, scena muta finale: fallimento. Fu così, così. Fu un attimo: nel quale capii che pure Lui, il Santissimo, forse pure Lui, voleva un po’ di silenzio. Lo guardo mi guarda: e sono sbigottito: è come mi dicesse zitto, calmo, accomodati. Mi accomodo, sto zitto. Mi calmo. Ma è una calma strana, che non ti inventi lavorando artificialmente sulla tua psiche: cala sopra di te dall’alto, al di là della tua volontà, e scende, dentro, profonda, lieve, lenta, calda e balsamica come quella grappa bevuta in un capodanno nel piccolo bar di un paesino abbruzzese in cima a un monte sotto una bufera di neve gelida. E mentre sto calmandomi, sento nelle orecchie quel saluto cristiano che avevo ascoltato ai neocatecumenali, e che è tipico loro, e mi sembra quello più adatto a esprimere questa sensazione: “La Pace”, dicono così gli allievi di Kiko Arguello. Non una pace qualsiasi, laica, e neppure approssimativamente la “pace” cristiana. No, qualcosa un po’ di più e che va pronunciata con tutto l’articolo: “La Pace”. Quella lì. So che di sicuro è quello il suo nome, così si chiamava la mia in quel momento: La Pace!
SE SEI DIO E QUESTA È LA CITTÀ DEL TUO VICARIO, PERCHÈ CI STO SOLO IO IN CHIESA?
Ora capivo. Fermo lì, seduto in un angolo sul fondo della chiesa. Senza dire nulla. Guardavo il Santissimo esposto e lui guardava me. Osservavo la sua solitudine tutta intorno. Accanto alla chiesa c’era un tabacchino, intasato di gente; un po’ più in là c’era una libreria stracolma di gente; di fronte c’era un negozio di abbigliamento e siccome c’erano i saldi ma era ancora chiuso, la gente faceva la fila dietro la saracinesca calata; il capolinea del bus in mezzo la piazza traboccava di gente in attesa dei bus, vociante, fumante, nervosa, alienata. Tutto era affollato intorno alla chiesa: ma nella chiesa aperta, uscita la polacca, c’ero rimasto solo io. Fui colto da questo pensiero di desolazione. È qui che ricominciai a parlare. E rivolto con rammarico al mio Signore Eucarestia, gli feci notare: “Ma mio Signore, fuori c’è tanta gente, siamo nella città dove hai mandato il tuo Pietro, dove c’è il tuo Vicario, dicono questa città sia il cuore del cristianesimo, la città eterna. Ma allora io domando a te, Cristo qui presente: dove sono i tuoi figli? Eppure, vedi?… passano davanti alla Casa del Padre, e non si fermano a salutare. Cosa ci è successo? Cosa li ha messi contro di te? Che significa tutta questa indifferenza?”.
In quello stesso momento mi resi conto che queste mie parole umanissime, questo interpellare Dio per una cosa che lo riguardava, non erano solo parole in libertà: erano preghiera. La preghiera è anche questo: non necessariamente dire parole magniloquenti, ampollose e ruffiane, formule standardizzate a getto continuo. Ma è anche porre delle domande a Cristo. Addolorarsi per la sorte che la caparbia iniquità del mondo ogni giorno gli riserva. Consolarsi di poi all’idea che tanto la storia è salda nelle sue mani, specie quando sembra più sfuggirgli di mano, essere consapevoli che alla fine del gioco le sole regole che varranno, saranno le sue. E ci sarà un solo vincitore a prescindere: Lui.
QUEL LIBRETTO SU UNA SEDIA…
Stetti a guardarlo muto, attendendo un segno di risposta. L’occhio mi cadde sul libretto poggiato su una sedia. Lo presi: nella prima pagina era raffigurato un Gesù nell’orto del Getzemani: prega da solo, afflosciato su una roccia nuda; dalla fronte e dagli occhi secerne sudore e “sangue”; intorno ma distanziati ci sono i discepoli, proni per terra addormentati: l’hanno lasciato solo nell’ora estrema. Giro la pagina: c’è l’immagine di un Cristo lacerato sulla croce, in cima a una collina non solo deserta ma desolata, squallida; appena più in là un teschio che indica il nome del luogo, il Golgota; sull’estremità dell’immagine si vedono due soldati romani, che si allontanano allegri, sghignazzando, con una lancia, un dado forse, e una tunica, la stessa che avevano strappato al Cristo, tirandola a sorte fra loro. Sul fondo, un cielo plumbeo e violaceo come il livor mortis. E questo è tutto. Sono questi pochi elementi i soli compagni di Gesù nell’ora estrema; è questo il contesto di “gloria” nel quale muore miseramente nientemeno che il Figlio del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. La seconda Persona della Trinità, ossia Dio stesso.
Guardo il mio Cristo esposto sull’altare del Sacrificio, guardo intorno a me il deserto in chiesa, guardo il caos fuori: e confronto tutto a quelle immagini della passione appena viste. Nulla è cambiato sotto gli occhi di Cristo: la sua solitudine di allora è anche quella di oggi. Deserto c’era tutto intorno, deserto c’è. Provo a leggere per simboli quell’immagine del Golgota: il Cristo straziato sulla croce è il Santissimo; il deserto del Golgota è il deserto intorno a lui nella chiesa; i soldati romani che sghignazzanti, cinici e indifferenti si allontanano, erano gli stessi romani di oggi, là fuori. E il teschio sotto la croce? Quello potevo essere io: convertito nella testa ma non nel cuore: e vuota come quel teschio che ha perso l’umanità sebbene conservandone qualche sembianza, era la mia fede. Aveto interpellato Cristo Sacramento ed Egli, a modo suo, mi aveva risposto.
Senza vane parole, forse avevo instaurato il più sincero colloquio della mia vita con Lui: tacendo, riuscii ad ascoltare quel silenzioso Dio. Ed era stata quella anche la più alta fra tutte le preghiere della mia vita.
SOLO UN PO’ DI COMPAGNIA
Avevo scoperto un’altra cosa. Siccome Gesù eucaristico era lì da solo, senza molestarlo, ammorbarlo di inutili parole, potevo starmene seduto e zitto davanti a Lui, semplicemente a fargli compagnia. Tacendo. “Sto un po’ qui con te: facciamoci un po’ compagnia: ti avrebbe fatto bene averla nell’Orto degli Ulivi in quella notte… ma non l’hai avuta. Per quel che vale, giacchè sempre Getzemani è, ieri come oggi, te la faccio io”. E furono le ultime mie parole. Stetti con Lui un’ora. Muto. Rilassato. Guardandoci spesso. Questa, anche questa è preghiera, è adorazione, alternative se volete, ma lo sono al pari di altre. L’ho inventata io, o esisteva già questa cosa?
Con gli occhi della fede mi parve, andandomene, che quel suo “sguardo” misterioso, soprannaturale che promanava potente e sempre più potente dal Santissimo, era uno sguardo non più gonfio di amarezza, ma sollevato, pieno di gratitudine. E anche il mio. Misterioso incredibile commovente Dio che si è sempre ostinato a celare l’onnipotenza del suo braccio pur di avere la collaborazione degli uomini: questo Dio quasi “controvoglia”, che non si rassegna a fare tutto da sé ma che vuole l’aiuto degli uomini nella realizzazione del suo disegno provvidenziale. Strano commovente Dio, che si sente alleviato dalla “compagnia” di un uomo, un povero spregiudicato peccatore. Questo Dio che si rende “impotente” e accetta l’esilio della solitudine d’amore: un Dio che soffre, per degli uomini per giunta, per dei mortali, dove lo si è visto mai, in quale religione? Eravamo abituati agli dei che si incazzavano, vendicavano, punivano, facevano capricci, che imperavano: ma un Dio che “soffre” per l’uomo, perchè addirittura lo “ama”, quello lo abbiamo avuto solo noi. È il Dio di Cristo. Il silenzioso Dio. Deus absconditus… per essere cercato. E quando lo hai trovato, ti rivela come stanno le cose, così come lo rivelò a Paolo: “No, Paolo, no: non sei tu che mi hai trovato; sono Io che ti ho cercato”.
LA MUSICA DEL SILENZIO: È LA VOCE DI DIO STESSO
Perchè vi sto dicendo tutto questo? Per dirvi proprio di questa cosa che dovrebbe essere scontata, ma che a quanto pare non lo è: la preghiera non è fatta solo di parole, può essere fatta anche di silenzio, astensione dalla parola, mentale e vocale; così come l’adorazione eucaristica, non necessariamente deve essere una azione, e magari azione frammista a parole; la si può fare anche astenendosi dal compiere e dal dire alcunchè all’indirizzo del Sacramento. E che si può pregare e adorare persino in maniera più alta il Santissimo, standosene seduti zitti e fermi: semplicemente facendogli compagnia, e Lui a noi. Anche tutto questo è preghiera.
Quando all’improvviso non riesci più a dire niente e resti muto e sgomento davanti alla Sua Presenza, è quello l’attimo in cui stai facendo veramente ingresso nel Mistero. Quando finiscono le parole, è quello il momento in cui inizia la vera preghiera. Quando inizia il silenzio, là iniziano le parole di Dio. Ascoltare il segreto, il mistero, la musica che c’è nel silenzio è ascoltare la voce di Dio stesso. Una strana, ineffabile sinfonia intellegibile al cuore soltanto, che umile e docile, la trasmette all’anima. Questo è il momento in cui inizia la vera adorazione.
Andandomene dalla chiesa dei Santi Claudio e Andrea, rivolgo un ultimo sguardo al Santissimo: mi è parso di averci parlato per un secolo: “Io ti ringrazio per questo silenzio che è rimasto tra noi. Tornerò a trovarti!”.
Ma appena uscito dalla chiesa, mi torna ancora in mente il Dio di Paolo, che mi ridesta: No, non sei tu Paolo che mi hai trovato. Sono io che ti ho cercato”. Già! Ma allora, se così è, “resta con me Signore, ora che, come sulla strada per Emmaus, scende la sera, ed è buio, tutto intorno e dentro".
veramente bello, queste parole mi hanno fatto capire tanto.
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