«Preferire il prodotto nazionale anche e soprattutto nei
miracoli»: questa – scritta «in grosse lettere a lapis blu» – la
categorica indicazione di Benito Mussolini, duce del fascismo, in un suo
appunto riservato del 1937. Il regime soffriva allora di una crisi
valutaria nei cambi con l'estero. Si voleva quindi ridurre al minimo i
viaggi collettivi degli italiani fuori dai confini nazionali, e poté
sembrare che anche i pellegrinaggi religiosi dovessero essere
scoraggiati o addirittura vietati. In particolare, poté sembrare che
andasse vietato il pellegrinaggio degli italiani al maggiore santuario
mariano d'Europa, quello francese di Lourdes. E Mussolini era di questa
idea: pensava che anche in materia di miracoli andasse adottata
l'"autarchia".
L'Italia non disponeva forse a Loreto, nelle Marche, di un santuario mariano in tutto e per tutto adatto allo scopo? Il duce stesso lo aveva visitato il 24 ottobre del '36, associando nell'omaggio la devozione per il volo a Loreto della Santa Casa di Nazaret e l'omaggio all'Istituto Baracca per gli orfani degli aviatori. L'Italia poteva bastare a se stessa anche nel campo delle devozioni. Il 28 agosto precedente, il duce aveva visitato il santuario di Montevergine, nell'Avellinese. Il santuario della Madonna di Pompei andava a sua volta rilanciato. Andava insomma realizzata in pieno, anche nel campo della religiosità popolare, la riconciliazione fra l'Italia laica e l'Italia cattolica drammaticamente avviata dall'"unione sacra" della Grande Guerra e trionfalmente suggellata dai Patti lateranensi.
Soltanto uno sketch, questo mussoliniano-mariano del 1936-37? Soltanto una variazione sul tema inesauribile delle metamorfosi ducesche, Mussolini pellegrino così come Mussolini aviatore (anche a Loreto, si disse, che il duce era giunto pilotando il suo proprio aereo), Mussolini trebbiatore, Mussolini sciatore, Mussolini minatore, Mussolini taumaturgo? No, forse qualcosa di più. L'indizio di un rapporto strutturato fra miracoli e politica nell'Italia del Novecento. Quello stesso rapporto che è stato messo in luce da studi non agiografici sulla figura di Padre Pio da Pietrelcina, il cappuccino con le stigmate. E sul quale ritorna adesso una studiosa fra le più attente della vita religiosa italiana nell'età contemporanea, Emma Fattorini, con un libro intitolato Italia devota.
Fattorini non appartiene a quel genere di storici che trattano la materia di fede come qualcosa da sbugiardare piuttosto che da interpretare. Non ritiene che si debba applicare alla devozione dei pellegrini del Ventesimo secolo (o del Ventunesimo) l'antidoto della ragione e magari del sarcasmo: non le importa sostenere che le cinque piaghe di Padre Pio erano il frutto di un'impostura, che le guarigioni miracolose di Lourdes non hanno mai guarito nessuno, che nessuna Madonna è mai apparsa davvero nel cielo portoghese di Fatima, eccetera. Perché il punto non è questo, lo storico non è né un medico né un giudice. Al pari dei migliori studiosi stranieri delle apparizioni mariane (Ruth Harris, storica di Lourdes; David Blackbourn, storico di Marpingen in Germania; William A. Christian, storico di Ekzioga nei Paesi Baschi), Fattorini ritiene che le devozioni vadano restituite alla complessità culturale e antropologica del loro tempo.
Soltanto a prima vista si tratta di fenomeni anacronistici, residui di arcaismo nelle nostre società secolarizzate: a guardar meglio, sono espressioni della più dispiegata modernità. Quando producono miracoli di guarigione, si tratta spesso di devozioni certificate (così a Lourdes) dal sigillo ufficiale della scienza medica. Si tratta di devozioni alimentate da tutta una serie di infrastrutture di trasporto, comunicazione, marketing, che hanno reso il turismo religioso la prima forma di turismo di massa. Si tratta di devozioni spesso recuperate dalla politica: come attesta, più di ogni altro, il caso della devozione per il Sacro Cuore di Gesù nell'Italia della Grande Guerra e poi nell'Italia fascista. Si tratta di devozioni rilanciate, al giorno d'oggi, da una presenza capillare e quasi aggressiva sul web.
Piuttosto che cercare il "trucco" nelle devozioni, Emma Fattorini prova a riconoscere una logica storica nelle fasi successive della loro duratura fortuna. E ci riesce. Nel secondo Ottocento, l'esplosione di Lourdes rappresentò una risposta cristiana all'offensiva conquistatrice di una scienza medica talmente fiduciosa di se stessa da credersi onnipotente, e che invece doveva pur confrontarsi con le malattie incurabili, con il dolore, e con la speranza – antica quanto il mondo – di un intervento prodigioso e salvifico. Nell'età della Prima guerra mondiale e poi negli anni Venti e Trenta, il boom di una rinnovata religiosità popolare corrispose alla reazione di una società dapprima traumatizzata dall'enormità del conflitto, poi frustrata dalla modestia dei suoi risultati. Mentre la fortuna a noi contemporanea di devozioni come quella per la Madonna di Medjugorje, in Bosnia-Erzegovina, sembra rispondere a bisogni della mente piuttosto che del corpo. Più che miracoli di guarigione, Medjugorje produce miracoli di conversione: rimedia alla depressione, alla mancanza di senso, alla fatica di vivere diffuse (scrive Fattorini) nella «liquidità dei nostri tempi insicuri».
Certo, tutta una parte del mondo cattolico aveva potuto augurarsi – negli anni Sessanta e Settanta del Novecento – uno sviluppo delle cose differente. Il teologo svizzero Hans Küng scriveva nel 1968: «Si dovrebbe aver preso atto della pericolosità del degenerante marianismo, che manca di vicinanza alla Bibbia e di una concezione cristocentrica». La cultura del Concilio Vaticano II trovava le devozioni popolari, il culto dei miracoli, la materializzazione della fede, qualcosa di improprio e quasi di imbarazzante, un sintomo di arretratezza per non dire di sottosviluppo. In Italia, i piani pastorali della Cei proponevano al cristiano qualità di impegno e di continuità nella fede diverse da quelle proprie di un pellegrino in marcia verso il convento di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, in Puglia, o verso la Madonna nera di Czestochowa, in Polonia.
In mezzo fra "l'allora" e "l'adesso" sta la figura – anche in questo decisiva – di papa Wojtyla. Lo studente polacco di teologia che fin dal 1948 aveva compiuto il suo pellegrinaggio nel Gargano, si era votato a Padre Pio. L'arcivescovo di Cracovia che negli anni Sessanta aveva rilanciato, per quanto il sistema comunista lo permetteva, il culto della Madonna nera. E il Santo Padre che nell'ultimo quarto del Novecento ha accompagnato l'ultima metamorfosi moderna delle devozioni popolari. Non più autarchici "prodotti nazionali" (secondo il gergo di Benito Mussolini), ma sapienti combinazioni di radicamento regionale e irradiamento internazionale, sofisticate miscele di localismo e globalismo. Prodotti glocal.
L'Italia non disponeva forse a Loreto, nelle Marche, di un santuario mariano in tutto e per tutto adatto allo scopo? Il duce stesso lo aveva visitato il 24 ottobre del '36, associando nell'omaggio la devozione per il volo a Loreto della Santa Casa di Nazaret e l'omaggio all'Istituto Baracca per gli orfani degli aviatori. L'Italia poteva bastare a se stessa anche nel campo delle devozioni. Il 28 agosto precedente, il duce aveva visitato il santuario di Montevergine, nell'Avellinese. Il santuario della Madonna di Pompei andava a sua volta rilanciato. Andava insomma realizzata in pieno, anche nel campo della religiosità popolare, la riconciliazione fra l'Italia laica e l'Italia cattolica drammaticamente avviata dall'"unione sacra" della Grande Guerra e trionfalmente suggellata dai Patti lateranensi.
Soltanto uno sketch, questo mussoliniano-mariano del 1936-37? Soltanto una variazione sul tema inesauribile delle metamorfosi ducesche, Mussolini pellegrino così come Mussolini aviatore (anche a Loreto, si disse, che il duce era giunto pilotando il suo proprio aereo), Mussolini trebbiatore, Mussolini sciatore, Mussolini minatore, Mussolini taumaturgo? No, forse qualcosa di più. L'indizio di un rapporto strutturato fra miracoli e politica nell'Italia del Novecento. Quello stesso rapporto che è stato messo in luce da studi non agiografici sulla figura di Padre Pio da Pietrelcina, il cappuccino con le stigmate. E sul quale ritorna adesso una studiosa fra le più attente della vita religiosa italiana nell'età contemporanea, Emma Fattorini, con un libro intitolato Italia devota.
Fattorini non appartiene a quel genere di storici che trattano la materia di fede come qualcosa da sbugiardare piuttosto che da interpretare. Non ritiene che si debba applicare alla devozione dei pellegrini del Ventesimo secolo (o del Ventunesimo) l'antidoto della ragione e magari del sarcasmo: non le importa sostenere che le cinque piaghe di Padre Pio erano il frutto di un'impostura, che le guarigioni miracolose di Lourdes non hanno mai guarito nessuno, che nessuna Madonna è mai apparsa davvero nel cielo portoghese di Fatima, eccetera. Perché il punto non è questo, lo storico non è né un medico né un giudice. Al pari dei migliori studiosi stranieri delle apparizioni mariane (Ruth Harris, storica di Lourdes; David Blackbourn, storico di Marpingen in Germania; William A. Christian, storico di Ekzioga nei Paesi Baschi), Fattorini ritiene che le devozioni vadano restituite alla complessità culturale e antropologica del loro tempo.
Soltanto a prima vista si tratta di fenomeni anacronistici, residui di arcaismo nelle nostre società secolarizzate: a guardar meglio, sono espressioni della più dispiegata modernità. Quando producono miracoli di guarigione, si tratta spesso di devozioni certificate (così a Lourdes) dal sigillo ufficiale della scienza medica. Si tratta di devozioni alimentate da tutta una serie di infrastrutture di trasporto, comunicazione, marketing, che hanno reso il turismo religioso la prima forma di turismo di massa. Si tratta di devozioni spesso recuperate dalla politica: come attesta, più di ogni altro, il caso della devozione per il Sacro Cuore di Gesù nell'Italia della Grande Guerra e poi nell'Italia fascista. Si tratta di devozioni rilanciate, al giorno d'oggi, da una presenza capillare e quasi aggressiva sul web.
Piuttosto che cercare il "trucco" nelle devozioni, Emma Fattorini prova a riconoscere una logica storica nelle fasi successive della loro duratura fortuna. E ci riesce. Nel secondo Ottocento, l'esplosione di Lourdes rappresentò una risposta cristiana all'offensiva conquistatrice di una scienza medica talmente fiduciosa di se stessa da credersi onnipotente, e che invece doveva pur confrontarsi con le malattie incurabili, con il dolore, e con la speranza – antica quanto il mondo – di un intervento prodigioso e salvifico. Nell'età della Prima guerra mondiale e poi negli anni Venti e Trenta, il boom di una rinnovata religiosità popolare corrispose alla reazione di una società dapprima traumatizzata dall'enormità del conflitto, poi frustrata dalla modestia dei suoi risultati. Mentre la fortuna a noi contemporanea di devozioni come quella per la Madonna di Medjugorje, in Bosnia-Erzegovina, sembra rispondere a bisogni della mente piuttosto che del corpo. Più che miracoli di guarigione, Medjugorje produce miracoli di conversione: rimedia alla depressione, alla mancanza di senso, alla fatica di vivere diffuse (scrive Fattorini) nella «liquidità dei nostri tempi insicuri».
Certo, tutta una parte del mondo cattolico aveva potuto augurarsi – negli anni Sessanta e Settanta del Novecento – uno sviluppo delle cose differente. Il teologo svizzero Hans Küng scriveva nel 1968: «Si dovrebbe aver preso atto della pericolosità del degenerante marianismo, che manca di vicinanza alla Bibbia e di una concezione cristocentrica». La cultura del Concilio Vaticano II trovava le devozioni popolari, il culto dei miracoli, la materializzazione della fede, qualcosa di improprio e quasi di imbarazzante, un sintomo di arretratezza per non dire di sottosviluppo. In Italia, i piani pastorali della Cei proponevano al cristiano qualità di impegno e di continuità nella fede diverse da quelle proprie di un pellegrino in marcia verso il convento di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, in Puglia, o verso la Madonna nera di Czestochowa, in Polonia.
In mezzo fra "l'allora" e "l'adesso" sta la figura – anche in questo decisiva – di papa Wojtyla. Lo studente polacco di teologia che fin dal 1948 aveva compiuto il suo pellegrinaggio nel Gargano, si era votato a Padre Pio. L'arcivescovo di Cracovia che negli anni Sessanta aveva rilanciato, per quanto il sistema comunista lo permetteva, il culto della Madonna nera. E il Santo Padre che nell'ultimo quarto del Novecento ha accompagnato l'ultima metamorfosi moderna delle devozioni popolari. Non più autarchici "prodotti nazionali" (secondo il gergo di Benito Mussolini), ma sapienti combinazioni di radicamento regionale e irradiamento internazionale, sofisticate miscele di localismo e globalismo. Prodotti glocal.
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