È ora di mettere al bando le «armi di distruzione di messa». Nella
Chiesa italiana, spesso divisa, c’ è un argomento che mette d’ accordo
tutti, un po’ più scandalizzati i tradizionalisti, un po’ più ironici i
progressisti: le canzoncine devote che si ascoltano ogni domenica in
tutte le parrocchie della penisola tra l’ introibo e il missa est sono quasi sempre desolanti, banali, lagnose o bizzarre, talora ridicole e a volte perfino sbadatamente eretiche.
Tanto che nessuno giurerebbe che lo strepitoso rap
che la regista Alice Rohrwacher, appena acclamata a Cannes, fa cantare
ai catecumeni nel suo film Corpo celeste («Mi sintonizzo con Dio / è la
frequenza giusta / mi sintonizzo proprio io / e lo faccio apposta») sia
del tutto inventato, e non magari ascoltato veramente in qualche
oratorio di periferia. Non si può dire che gli allarmi non siano
risuonati,è il caso di dire, molto in alto.
Già venticinque anni fa l’ allora
cardinale Ratzinger fu spietato con la playlist degli altari: «Una
Chiesa che si riducaa fare solo della musica “corrente” cade nell’
inetto e diviene essa stessa inetta». Oggi, da pontefice amante della
musica, insiste sul concetto in un libro, Lodate Dio con arte,
applaudito dal maestro Riccardo Muti, anche lui esasperato da «quelle
quattro strimpellate di chitarre su testi inutili e insulsi che si
ascoltano nelle chiese, un vero insulto».
La questione sta diventando spinosa,
anzi esplosiva, perché da anni è sullo stile delle celebrazioni che si
gioca l’ aspra contesa tra conciliaristi e restauratori, con i secondi
al facile attacco di quella «eresia dell’ informe», come la definisce lo
scrittore tedesco Martin Mosebach, che corrode la liturgia a colpi di
«canti sguaiati». «A che serve avere belle chiese se la musica è
penosa?», insorse dieci anni fa l’ allora presidente del Pontificio
istituto di musica sacra, il catalano Valentino Miserachs Grau.
La Chiesa francese ha risolto la
questione da tempo, con piglio gallicano, stilando una lista rigorosa e
vincolante di canti ammessi, una sorta di canatur, versione canora dell’ imprimatur.
Invece in Italia, sede del cattolicesimo ma anche patria del bel canto,
l’ anarchia del parrocchia’ n’ roll sembra ingovernabile. Ogni diocesi
dovrebbe possedere un Ufficio di musica sacra tenuto a vigilare sulla
serietà del sacro pop, ma di fatto quel che finisce per risuonare tra
banchie navate è quasi sempre frutto della creatività improvvisata di
qualche catechista munito di iPod, o di certi sacerdoti chitarristi.
La scena, un po’ dovunque, dev’ essere
quella frettolosa e distratta descritta dal bolognese don Riccardo Pane
nel suo sconsolato pamphlet Liturgia creativa: «Prima della messa mi
piomba immancabilmente in sacrestia qualcuno a chiedere: “Don, che cosa
cantiamo?”, e il mio ritornello è inesorabilmente “vatti a leggere le
antifone e vedi se trovi un canto che ci azzecca”». Il risultato è nelle
orecchie di tutti. Reperibilea vagonate anche sui canali di YouTube, pure in versioni medley e remix.
Motivetti che non ci azzeccano proprio, incongruità ( Signore scende la
sera cantato alla messa delle 11 di mattina), cascami di musica di
consumo, simil-Ramazzottie para-Baglioni, esotismi world music con bonghi e maracas (come il cantatissimo Osanna-eh «africano») che sconcertano le vecchiette, azzardi stilistici estremi (c’ è un Gloria hip-hop), perfino cover da grandi successi (allucinata la parafrasi del Pater sull’ aria di The Sound of Silence di Simon
La ribellione è nell’ aria; un gruppo
Facebook frequentato da sacerdoti ha stilato perfino la classifica dei
canti più disastrosi: ha vinto con 374 nomination l’ Alleluja delle lampadine, ribattezzato così perché di solito è accompagnato da gesti delle mani che sembrano mimare il lavoro di un elettricista.
L’ arcivescovo di Bologna Carlo Caffarra
ha spuntato personalmentea matita rossa dai libretti parrocchiali i
canti «che non devono più esserci», come Alleluja la nostra
festa, visto che, semmai, la messa è la festa del Signore. Da più parti
s’ invocano il ripristino d’ autorità del Gregoriano e la disciplina
monostrumentale dell’ organo a canne,o almeno dell’ armonium.
Sotto queste pressioni, un paio d’ anni
fa la Conferenza episcopale chiese al suo consulente don Antonio Parisi,
esperto di musica sacra e compositore, di mettere ordine nello
sconcertante frastuono. Povero don Antonio, si trovò di fronte un oceano
di quindicimila canti, canzoni e canzoncine estratti da quarantacinque
anni di raccolte nazionali e locali. E c’ era di tutto. Delle musiche
abbiamo detto, ma i testi, i testi ancora peggio. Pieni di parole
tronche, da poesiola delle elementari («Il nostro mal / sappi
perdonar…»), banali, inappropriate, di orrori grammaticali («Te nel
centro del mio cuor»), di espressioni rubate a qualche spot
televisivo di banche («Tutto ruota intorno a Te»), quando non sono zeppi
di ingenuità (definire Maria «l’ irraggiungibile» non è incoraggiante
per la partecipazione al rosario) e di veri e propri strafalcioni
teologici, commessi sicuramente in buona fede, magari per far quadrare
un verso: cantare «Tu che sei nell’universo» solo perché «nell’ alto dei
Cieli» non ci stava, più che riecheggiare una canzone di Mia Martini
significa circoscrivere Dio dentro la sua Creazione, e non va proprio
bene.
Un compito immane, defatigante,
sconsolante, da cui don Parisi riuscì meritoriamente a far scaturire un
Repertorio nazionale di canti per la liturgia che ne seleziona 384
decenti e adeguati, ma che ancora non fa testo: «Non si può procedere
per imposizioni», spiega, «bisogna formare, formare persone nelle
diocesi, nelle parrocchie, far studiare musica ai presbiteri, agli
animatori, ai catechisti, il canto liturgico non è un optional, è un
segno sacro». Giusto non voler guastare l’ entusiasmo degli animatori
parrocchiali, volonterosi e incolpevoli. Ma il punto è questo, che i
canti durante la messa non sono un “accompagnamento”, non sono gli
“stacchetti” fra un responsorio e una lettura: fanno parte della
liturgia, sono cosa sacra come le parole dell’ Elevazione.
Come è possibile che la stessa Chiesa
che ripristina la messa in latino chiuda un occhio di fronte alla
colonna sonora da X-Factor di quella in italiano? I conservatori hanno
una spiegazione storica: la profanazione canora cominciò con «la
deflagrazione nucleare» chiamata “Messa Beat“. Chi la ricorda?
Anno 1965, Concilio appena terminato, fibrillazione del rinnovamento, il
maestro Marcello Giombini accantonò le colonne sonore degli
spaghettiwestern e, ispirato, scrisse una messa musicale «per i
giovani». Davvero una bomba atomica. Trasmissioni Rai, concerti, tournée
internazionali, benedizione del gesuita padre Arrupe, 45 giri
pubblicati dall’ etichetta discografica delle Edizioni Paoline. Il
torrente non si fermò più, proliferarono i «complessi» da scantinato di
canonica, alcune band divennero famose, Angel and the Brains, The Bumpers,
per non dire delle due formazioni parallele dei Focolarini, Gen Verde e
Gen Rosso, le cui audiocassette infestano ancora gli oratori.
Ma fu così che la Chiesa non perse l’
onda del Sessantotto. E non fu affatto una sciagura, assicura monsignor
Vincenzo De Gregorio, responsabile per la liturgia musicale della Cei:
«Prima le messe erano o tutte recitate o tutte cantate, ma cantate solo
dal coro, solo da ascoltare. La Messa Beat fu una sana apertura, ed era
di qualità, il guaio come sempre sono gli epigoni. Anzi, il guaio è la
cultura musicale inesistente degli italiani. In questo Paese ormai si
canta solo a messa».
I tradizionalisti sbagliano. Dare la
colpa al Concilio è troppo facile, anche la Chiesa guardinga dell’
Ottocento ebbe parecchi problemi con le hit parade da altar maggiore.
Sentite come nel 1884 la Sacra congregazione dei riti elencò con
disgusto quel che rimbombava tra le navate: «Polcke, valzer, mazurche, minuetti, rondò, scottisch, varsoviennes, quadriglie, galop,
controdanze, e pezzi profani come inni nazionali, canzoni popolari,
erotiche o buffe, romanze…». Il difetto della Chiesa postconciliare
semmai fu trovarsi musicalmente impreparata alla sua stessa rivoluzione
liturgica.
Con l’ abbandono del latino, la Cei
predispose il nuovo messale in italiano, ma trascurò il rinnovamento del
repertorio canoro. A disposizione c’ erano solo un po’ di litanie
antiquate, Mira il tuo popolo, T’adoriam ostia divina.
«Ai parroci non restò che prendere le canzonette del gruppo rock che
faceva le prove in oratorio, o quelle dell’ ultimo campeggio scout, e
portarle sull’ altare», sospira monsignor De Gregorio. Risultato: un’
infantilizzazione drastica dei contenuti, degli stili, dei testi. Eppure
ci sono, nel grande mondo ecclesiale, talenti da utilizzare,
compositori di qualità. Don Parisi li cita con rispetto: don Marco
Frisina, compositore apprezzato anche negli Usa, don Pierangelo Sequeri,
autore del diffusissimo Symbolum 77, il gesuita Eugenio Costa, il
camilliano Giovanni Maria Rossi, il salesiano Domenico Machetta… «Vedo
il bicchiere mezzo pieno: sono passati solo cinquant’ anni dalla riforma
conciliare, è presto per tirare delle conclusioni». La Cei sta pensando
di commissionare a loro un nuovo repertorio, finalmente di qualità.
Nell’ attesa, quando rintocca la campana della messa, viene ancora il
sospetto che le parrocchie d’ Italia, come patrono della musica, non
invochino santa Cecilia, ma Sanremo. © 2011 La Repubblica
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