Propongo
di seguito un articolo di don Laurent Jestin, pubblicato sull'ultimo
numero, 117/Autunno 2012, di Catholica - prestigiosa Rivista francese di
riflessione politica e religiosa - non ancora disponibile on line. Il
titolo già ci introduce nel cuore del problema attualissimo
dell'ermeneutica - anzi delle ermeneutiche - e, insieme al corpo
dell'articolo, fa riferimento al discorso di Benedetto XVI alla Curia del 22 dicembre 2005.
La trattazione è articolata e interessante e si sviluppa passando in
rassegna gli scritti più recenti: prende infatti in considerazione
autori francesi come don Claude Barthe e don Bernard Lucien, le
parole di un vescovo ausiliare di Parigi, ma attinge soprattutto a
recenti apporti di autori italiani, come Pasqualucci, Gheradini,
Lanzetta e - anche - la sottoscritta, citando il mio libro recente. Su alcune formule, quali il magistero pedagogico
di Bernard Lucien, l'autore si pone con circospezione. Ma la visione
d'insieme risulta interessante e porta alla conclusione che il
discorso di Benedetto XVI ha avuto un effetto liberatorio che ha
prodotto i suoi effetti, ma richiede di essere vieppiù precisato e
risolto non solo teoricamente perché la posta in gioco è molto alta.
Il punto morto delle ermeneutiche
Se, a giusto titolo, si è apprezzato il discorso di Benedetto XVI alla Curia
del 22 dicembre 2005, oggi ineludibile, nella lettura di opere recenti
si percepisce un forma di delusione e nello stesso tempo, su un certo
piano, di contestazione delle categorie che questo discorso ha
enunciato, o piuttosto della loro supposta evidenza e della possibilità,
nel quadro che esse han posto, di risolvere le difficoltà dell'attuale
situazione della Chiesa.
La ripartizione degli approcci
relativi al concilio Vaticano II in due ermeneutiche, una di « rottura
», l'altra di « riforma nella continuità », (e non soltanto di
continuità come una lettura troppo rapida e orientata aveva lasciato
credere ad alcuni - ma sarebbe sufficiente leggere il seguito del
discorso, sulla libertà religiosa, per non cadere in un simile
abbaglio), è criticata per la sua semplicità. È rivendicato come
possibile e legittimo un terzo approccio (o insieme di approcci, perché
risulta evidente una certa pluralità interna di queste categorie),
quello di un'ermenutica della tradizione. A questo punto sorge
una certa reticenza ad accostare i termini « ermeneutica » e «
tradizione »: il seguito tende a dimostrare che si tratta di un
ossimoro. Ma è questo il termine (tradizione) che usano gli autori presi
in considerazione. Senza dubbio il discorso del 22 dicembre impone il
suo vocabolario al quale ci si allinea, se non altro come strategia e/o
desiderio sincero di assumersi la propria parte del compito enunciato
dal Papa: non essendo questo definito, è possibile partecipare a
forgiargli dei contorni.
Un recente opuscolo lo iscrive
così in un quadro generale : « Il Papa non ha escluso altre
interpretazioni, soprattutto quella, in qualche modo vicina e tuttavia
ben distinta, dall’“ermeneutica della continuità”, che potrebbe dirsi
“ermeneutica della tradizione”, che al Concilio fu rappresentata dal
cardinal Ottaviani, dal cardinal Siri, Mons. Lefebvre, Mons. Carli, ecc.
I successori intellettuali della minoranza conciliare hanno dunque
anch'essi il diritto d'interpretarne i testi, e ciò tanto più per il
fatto che si fondano alla tradizione bimillenaria del magistero ».(1)
Oltralpe,
è il pensiero di Romano Amerio e, per quanto qui ci interessa, la
tripartizione che egli aveva formalizzato, che sono nuovamente
riproposti(2). L’autore di Iota unum
individuava tre ermeneutiche relative al concilio Vaticano II : la
prima, « sofistica estrema », rappresentata dalla Scuola di Bologna e
dalla Nouvelle théologie, proclama e mette in atto una
discontinuità ed una rottura essenziali tra la Chiesa pre e quella post
Vaticano II, attraverso un orientamento del pensiero e della vita
cristiani secondo « finalità esterne alla fede e alla teologia» ; la
seconda, « sofistica moderata », quella dei papi che hanno seguito e
promosso il concilio, presuppone e invoca – sinceramente ma spesso senza
dimostrarla – una continuità, sforzandosi « di piegare al senso della
Tradizione le anfibologie e le equivocità testuali ». Quanto alla terza,
essa « s'appoggia sulla Tradizione » e argomenta secondo gli schemi di
una teologia sistematica; è « dogmatica e vincolante », quando la prima
si riduce in definitiva ad una ideologia o un'ermeneutica continua, e la
seconda corre il rischio di cadere nel sentimentalismo, nel fideismo,
preludio di autoritarismo magisteriale(3).
È opportuno
insistere su ciò che distingue questa terza ermeneutica dalla prime due :
certamente la tradizione, ma anche il ricorso alla teologia come
scienza; questi due elementi possono avvicinare all'ermeneutica « della
tradizione » alcuni rappresentanti della seconda ermeneutica: coloro per
i quali non basta postulare sulla continuità, ma che si sforzano di
esplicitarla.
Ma, pur essendo coscienti del valore
relativo che bisogna accordare a queste categorie, e degli aggiustamenti
di cui avrebbero bisogno, non è già una concessione alla prima
ermeneutica il semplice fatto di entrare in questa prospettiva delle
ermeneutiche, poco importa quella che si rivendica ? Si possono rinviare
i fedeli lettori della rivista ad un articolo del professor Paolo
Pasqualucci proprio su questo punto(4). Ci sembra di cogliere, in
mancanza del fatto che sia affermata chiaramente, una simile reticenza
in due recenti opere di Mons. Gherardini, una sulla Chiesa(5), l’altra
sulla Tradizione(6), intendendo attraverso esse risalire a monte di una
problematica senza fine e che, in sé, concede già troppo alla
modernità. Cosa che certamente non significa che ci sia bisogno di
cadere nella trappola di una « Tradizione chiusa in un intoccabile ed
inattaccabile fissismo », secondo quella che, nella sua ultima opera in
ordine di tempo(7), Mons. Gherardini sottolinea come una cattiva
risposta, ieri ed oggi, al progressismo ; fissismo al quale si possono
indirizzare le stesse critiche che a una certa ermeneutica della
continuità : sentimentalismo, fideismo, fondato su un autoritarismo
magisteriale, qui quello dei Papi tra Pio IX e Pio XII.
Senza
dubbio ne consegue comunque, da questa reticenza a entrare allo stesso
livello nella questione dell'ermeneutica o delle ermeneutiche del
Vaticano II, nell'interrogazione iniziale di Padre Lanzetta : « Il
concilio Vaticano II si riassume in una questione di adattamento
ermeneutico alla modernità più o meno riuscito? »(8) Non è fare un passo
verso una teologia in cui non si trova più nulla se non in termini di
condizioni di possibilità : « La realtà, e anche la fede e la
Rivelazione di Dio, sono state subordinate alla comprensione del
credente e dell'uomo in generale […] La fede diventa una questione : la
questione della sua comprensione per l'uomo di oggi.[…].
L’interrogativo
“come comprendere il Concilio” è una conseguenza della domanda posta
dal Concilio: come comprendere la fede oggi ? » (pp. 21-22) Occorre
respingere questa prospettiva distruttiva, « esercitandone una
valutazione critica [, non della fede, ma] della modernità partendo dal
primato di Dio. » (ibid.) Per assicurare questo salutare riorientamento,
e anche augurare una soluzione alla crisi, si rivelano necessarie contemplatio e traditio,
perché « noi non siamo la Chiesa, non ne esauriamo il mistero » (p.
178). La contemplazione, cioè la santità della vita, o la vita alla
scuola dei santi, la preghiera, particolarmente la liturgia nella «
forma extraordinaria del rito romano » ; la tradizione, cioè dare il
primo posto alla verità e al dogma, a partire dall'esercizio del
Magistero.
Su quest'ultimo punto, ci sono errori da rettificare, ambiguità da precisare; ed eccovi giunti alla chiarificazione che alcuni chiedono, circa un'altra affermazione del discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 : l'unico soggetto-Chiesa. Il Papa ha dichiarato a questo proposito : « C'è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha dato ; è un soggetto che cresce nel tempo e che si sviluppa, restando tuttavia sempre lo stesso, l'unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. » Ora, obietta padre Lanzetta, « cosa viene prima : la Chiesa o un concilio ? » (p. 8) La risposta è piuttosto, si sa, una « super-dogmatizzazione del Vaticano II »9, la facoltà che gli è data di criticare, almeno potenzialmente, tutti gli altri concili precedenti e la teologia anteriore nel suo insieme(10). Questa pretesa facoltà proviene dal fatto che l'ermeneutica non è semplicemente dopo (« sul ») concilio, ma si trova nel concilio stesso, dai discorsi di apertura; ed anche, aggiunge P. Lanzetta, perché questo principio ermeneutico si presenta sotto l'attraente categoria d’aggiornamento che, mai definita e dunque poco criticabile, permette, essa, di criticare e delegittimare identificando antichità con obsolescenza ; senza dimenticare che l'altra categoria-faro di pastoralità tra la prima e la seconda sessione si è caricata di una connotazione antidogmatica.
Su quest'ultimo punto, ci sono errori da rettificare, ambiguità da precisare; ed eccovi giunti alla chiarificazione che alcuni chiedono, circa un'altra affermazione del discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 : l'unico soggetto-Chiesa. Il Papa ha dichiarato a questo proposito : « C'è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha dato ; è un soggetto che cresce nel tempo e che si sviluppa, restando tuttavia sempre lo stesso, l'unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. » Ora, obietta padre Lanzetta, « cosa viene prima : la Chiesa o un concilio ? » (p. 8) La risposta è piuttosto, si sa, una « super-dogmatizzazione del Vaticano II »9, la facoltà che gli è data di criticare, almeno potenzialmente, tutti gli altri concili precedenti e la teologia anteriore nel suo insieme(10). Questa pretesa facoltà proviene dal fatto che l'ermeneutica non è semplicemente dopo (« sul ») concilio, ma si trova nel concilio stesso, dai discorsi di apertura; ed anche, aggiunge P. Lanzetta, perché questo principio ermeneutico si presenta sotto l'attraente categoria d’aggiornamento che, mai definita e dunque poco criticabile, permette, essa, di criticare e delegittimare identificando antichità con obsolescenza ; senza dimenticare che l'altra categoria-faro di pastoralità tra la prima e la seconda sessione si è caricata di una connotazione antidogmatica.
Non
ci si può dunque lasciar abbindolare da alcuni falsi dibattiti tra
ermeneutica della rottura e ermeneutica della continuità, perché alla
radice dell'una come dell'altra, si trova spesso una simile
super-dogmatizzazione, il (o addirittura IL) concilio trasformato in vulgata, termine attraverso il quale Mons. Gherardini designa un corpus
che non fa riferimento che a se stesso non si spiega che attraverso se
stesso, senza istanze critiche esterne(11), né autentica opera di
analisi storica, esegetica, teologica e dogmatica, morale e
giuridica(12). Occorre a contrario riaffermare che « la Chiesa è
più grande del Concilio. Questo è una manifestazione della Chiesa, la
più solenne, la più mediatica diremmo oggi, ma una delle manifestazioni
della Chiesa. La Chiesa trascende il Concilio »(13)
.
.
La
negazione o l'attenuazione di questa trascendenza o primato della Chiesa
non è che un punto storico : oltre ciò che si è detto della prospettiva
ermeneutica, si possono menzionare alcune correnti di pensiero e di
azione ben ancorate nella vita ordinaria della Chiesa, degli slittamenti
teologici (Romano Amerio condannava fortemente un cambiamento nella
Teologia della Trinità, nel quale l'ordine Essere-Ragione-Volontà è
stato rovesciato a beneficio dell'ultima, con ripercussioni
non-razionali e soggettiviste in un buon numero di ambiti del pensiero e
dell'esistenza cristiani). Anche la storiografia è un campo di
battaglia in questo ambito, dove la scuola di Bologna ha regnato da
padrona sulla storia del Vaticano II, fino allo studio storico di
Roberto de Mattei e alle critiche sistematiche di cui è stata fatta
oggetto. Tra le pubblicazioni più recenti, si può leggere con interesse
l'analisi di una nuova edizione dei Decreti dei Concili, presentata dal
cardinal Brandmüller, nel 2006, attraverso l’Istituto delle Scienze
religiose di Bologna : tra altre cose sorprendenti e in definitiva
rivelatrici, egli vi nota l'inclusione dei decreti dei concili di Pisa e
di Costanza, l'estensione del corpus dei decreti di Basilea agli
pseudo-decreti presi quando il concilio fu in realtà trasferito a
Ferrara, la qualificazione di « generali » e non di « ecumenici » per i
concili di Trento, Vaticano I e Vaticano II(14).
Ma, è
però col tema, se non della dottrina, della collegialità episcopale che
la difficoltà di afferrare « l'unico soggetto-Chiesa » nella sua unità e
continuità si presenta con particolare acutezza. Nelle opere
considerate finora, alcuni (P. Lanzetta, don Barthe) non negano ogni
l'interesse al tema della collegialità episcopale, riconoscendovi anche
un certo valore dottrinale, tuttavia rilevando una effettiva ambiguità
di formulazione e diffidando del veleno introdotto dalle conferenze
episcopali. Dal canto suo, su un tema collegato, Mons. Gherardini si
spinge al punto di affermare che è senza dubbio in ragione di una
supervalutazione del primato del papa, accresciuto da un sincero amore
per lui, che un numero non indifferente di vescovi votarono un certo
numero di testi del concilio Vaticano II, e non tanto per i testi
stessi, insoddisfacenti (p. 356). Questa osservazione, oltre al suo
interesse storico, ha valore di segno di una realtà più ampia, in
particolare oggi : perché la Tradizione come deposito della Rivelazione è
relativizzata a favore di una maggioranza oltranzista della storia
nella formulazione dogmatica della fede – il che porta il nome di
tradizione vivente, ma la tradizione vivente può non essere quello… ;
poiché la spiegazione di questa tradizione da parte del Magistero e dei
teologi non è più fatta secondo una teologia sistematica, anzi lascia il
terreno del dogma per quello della testimonianza, del dialogo e delle
scienze profane, incentivando sia la tendenza dei fedeli moderni alla
soggettività, il solo argine ad un crollo generale si trova in una
concezione non-razionale, spesso affettiva e in definitiva autoritarista
del magistero attuale. Secondo una più precisa terminologia teologica,
si potrà dire che le mancanze nell'oggetto materiale (la verità
rivelata) e nell'oggetto formale (l'autorità del magistero, secondo i
suoi gradi differenti chiaramente individuati) conducono ad un indebito
gonfiamento del soggetto (il papa o il collegio dei vescovi) del
Magistero ecclesiastico.(15)
Il Magistero è,
chiaramente « identificato al [magistero] attuale. Così gli viene
conferita una prerogativa che non è la sua propria »(16) : quella di
essere l'istanza critica del tempo presente e, dunque, lo si è visto, di
tutta la storia passata, poiché l’aggiornamento e la pastoralità gli
appartengono. Per risolvere la difficoltà, insolubile in teologia
classica, si è arrivati al punto di qualificare il magistero come «
carismatico », il che garantirebbe la sua continuità con la Tradizione e
sarebbe dunque il punto di partenza della riflessione teologica e
dell'adesione alle parole di questo magistero(17).
Una
formulazione alternativa di questa importanza indotta è quella che
prende atto di quest'altra affermazione conciliare – della quale neppure
si potrà risolvere la questione vertente sul suo valore dottrinale o
dogmatico – che è la sacramentalità dell'episcopato(18). Essa ha senza
dubbio accresciuto il valore della collegialità episcopale e,
soprattutto, ha permesso di assicurare un legame tra l'affermazione
iniziale della Costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa, vale a
dire la sacramentalità della Chiesa : « Dato che la Chiesa è, in Cristo,
in qualche modo il sacramento, cioè nello stesso tempo segno e
strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere
umano » (LG 1). E' una formula dal contenuto più poetico che dottrinale,
ma ciò non impedisce che associata alla sacramentalità dell'episcopato e
alla collegialità episcopale, essa possa dar luogo ad una formulazione
radicale di questa sopravvalutazione del magistero attuale. Una
conferenza tenuta da Mons.Eric de Moulins-Beaufort, il 24 marzo 2012,
per il raduno nazionale diocesano a Lourdes, in occasione del 50°
anniversario di apertura del concilio Vaticano II, ne sarà l'esempio(19)
: « Nel collegio dei Vescovi, nel corso della storia, si manifesta ciò
che non è ancora visibile ma che è già acquisito da Cristo morto e
risorto per noi : l'aggregazione di tutti gli uomini che Dio chiama alla
salvezza nell'eterna unità della carità ». Questa prima affermazione
potrebbe non sorprendere per il suo richiamo alla internazionalità
dell'episcopato come specchio dell'universalità della Chiesa ; ciò in un
certo modo appiattisce, secondo un criterio sociologico, quella che è
la nota di cattolicità della Chiesa o la qualità del Vaticano II come
concilio ecumenico… a meno che il vescovo ausiliare di Parigi non
intenda situare la sua idea « nel corso della storia ». La
concatenazione dei concetti che abbiamo annunciato è dunque stabilita.
Su un simile fondamento, il primato e la dimensione carismatica su ogni
altra – istituzionale, tradizionale – non tarda affatto a venire, a
quanto ci appare, nelle frasi seguenti : « La Chiesa non è una realtà
già data, una istituzione che non dovrebbe che sforzarsi di perpetuarsi
senza cambiamenti attraverso il tempo. Essa, al contrario, è
innanzitutto un dono ricevuto dall'alto, da ricevere sempre di più
attraverso la storia, perché è lo Spirito Santo all'opera all'interno
del corpo che è la Chiesa […] affinché il dono del Cristo penetri sempre
più l'umanità e vi porti maggiori frutti » Come non potrebbe essere
frontale e rude il colpo inferto a « l’unico soggetto-chiesa, che il
Signore ci ha dato ; […] soggetto che cresce e si sviluppa nel tempo
restando tuttavia sempre lo stesso, l'unico soggetto del popolo di Dio
in cammino » (Benedetto XVI, discorso alla Curia, 22 dicembre 2005) ?
Saremmo ormai solo un passo per cadere nell'autoritarismo ; eccolo, in
alcune frasi: « Tutto ciò che proviene da noi non ha il suo pieno valore
davanti a Dio e per l'eternità se non si inserisce nella comunione
concreta della Chiesa.
Ora, cari amici, a questa comunione,
Cristo Signore non ha dato quaggiù che la forma più inglobante e più
solida del collegio episcopale […] Ogni vescovo nella sua diocesi non è
il delegato del Papa, ma è lui stesso l’inviato di Gesù Cristo, come
ogni prete o diacono nella parte di missione che gli è affidata, ed è
proprio per questo che nessuna iniziativa come pure nessuna autorità
possono essere totalmente feconde se non conducono verso una unione dei
cuori più forte e più fiduciosa. I fedeli laici […] devono accettare che
il loro comportamento corrisponda alla modalità che coloro a cui
appartiene decidere lo vogliono in quel momento per la chiesa ». Si può
certamente comprendere che l'autore di questo discorso sfumato cerchi di
rimettere al loro posto certi laici che dimenticano l'esistenza della
gerarchia ecclesiale. Ciò che noi qui rileviamo, sono gli argomenti, la
cui chiave sembra trovarsi nelle ultime parole, di stampo hegeliano « in
quel determinato momento ».
Come ultima risorsa e
come rimedio alle distorsioni che sono state rilevate, tutti gli autori a
cui ci siamo riferiti sono d'accordo nell'affermare la necessità
dell'esercizio di un magistero ecclesiastico finalmente chiaro ; e
sempre nel contesto di una bella unanimità, solo la forma solenne che il
Papa gli potrebbe dare sembra loro essere all'altezza della gravità
delle difficoltà presenti e del loro carattere apparentemente insolubile
attraverso procedure ordinarie. In effetti sembra proprio che «
l’esame delle differenti posizioni adottate da più di 45 anni
nell'interpretazione teologica del Vaticano II proseguire
indefinitamente, dato che il campo d'indagine è molto vasto e non cessa
d'altra parte di ampliarsi col tempo; ma in questo caso non si farebbe
altro che ripetere un esercizio che ha senza dubbio già prodotto i
frutti che poteva dare »(20).
Certo, alcuni pensano
che cercando di ovviare con palliativi ad una carenza pedagogica nel
dibattito sul concilio tanto a livello del suo contenuto come a quello
del suo grado di autorità, e reprimendo gli abusi di un certo spirito
del concilio si arriverebbe ad una soluzione soddisfacente. Ma sembra
mancare in essa - è vero come negli altri pensieri - qualche cosa che
porta l'adesione sia perché è postulata una parte di quel che si
pretende dimostrare sia perché una estensione o un ampliamento
dell'infallibilità del magistero ingloba tutto. Richiama l'attenzione,
tra le pubblicazioni recenti, un lavoro di don Lucien: con la precisione
e la scienza che gli si riconoscono egli vuole dare un quadro
sufficiente al giudizio sui testi del concilio, quello della loro
autorità in base a criteri strettamente interni. Diciamo troppo
sommariamente senza dubbio - che si fatica a mettere totalmente tra
parentesi dichiarazioni tanto numerose del concilio di Paolo VI - per
non parlare di altri - precisamente su quei gradi di autorità ; ora il
risultato del presente lavoro non sembrano concordare con queste
dichiarazioni. Al che bisogna aggiungere che l'autore deve postulare un
grado magisteriale che al momento resta indefinito e che lui definisce
da parte sua magistero « pedagogico ». Indubbiamente ciò si può
accostare a una proposizione di cui padre Lanzetta si fa eco: quella di
vedere a volte nel Vaticano II un munus praedicandi più che docendi stricto sensu22.
Nel
frattempo, indipendentemente dalle riflessioni fatte su di esso, il
discorso del 22 dicembre 2005 conserva la sua forza liberatoria e ha già
prodotto anch'esso dei frutti. Tutti i suoi frutti? Certamente. secondo
coloro che entrano e perseverano in questa doppia via ricordata da
padre Lanzetta contemplatio e traditio.
Laurent Jestin
1. Claude Barthe, Per una ermeneutica di tradizione. A proposito de l’ecclesologia del Vaticano II,
Muller, 2011, 58 p., p. 7. Il sotto-titolo di questo « carnet » indica
che il corpo del testo propone i lineamenti di un'applicazione di questa
ermeneutica di tradizione all'ecclesiologia dell'intero concilio.
2.
Oltre alla recente riedizione delle sue opere, che ha provocato
incontri, pubblicazioni, perfino un articolo elogiativo su L'Osservatore
Romano, si pensa e ci si riferisce qui al libro di Maria Guarini : La Chiesa e la sua continuità. Ermeneutica e istanza dogmatica dopo il Vaticano II,
Diffusioni Editoriali Umbilicus Italiae, Rieti, 2012, 240 p., 21 €. Da
esso sono estratte le citazioni del presente paragrafo ; traduzione a
cura nostra, come per tutto il resto.
3. Oltre all'opera
citata nella nota precedente, si fa eco qui all'interessantissimo e
corroborativo libro del padre Serafino Maria Lanzetta : Iuxta modum. Il Vaticano II riletto alla luce della Tradizione della Chiesa, Cantagalli, Siena 2012, 184 p., 15 €. Si ritorna più lontano sull'autoritarismo magisteriale.
4.
Paolo Pasqualucci, « Herméneutique de la continuité ou continuité de la
doctrine ? Remarques de méthode », Catholica n. 100, été 2008, pp.
130-134.
5. Brunero Gherardini, La Cattolica. Lineamenti d’ecclesiologia agostiniana,
Lindau, Torino 2011, 203 p. Il prologo di quest'opera, comme le
chapitre I du suivant, sont particulièrement intéressants parce qu’ils
esplicitano la metodologia dell'autore, e attraverso questa affermano e
giustificano la necessità di una scienza teologica .
6. Id., Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia, Lindau, 2011, 208 p., 18 €.
7. Id., Il Vaticano II. Alle radici d’un equivoco,
Lindau, Torino, 2012, 412 p. ; ici p. 104. Quest'ultima opera si
colloca a seguito delle due precedenti sul concilio Vaticano II (2009 et
2011) ; ma poiché la sua supplica di uno studio approfondito del
concilio non ha ricevuto la risposta che avrebbe voluto e per difendersi
non solo dalle critiche ma dagli attacchi, egli esplicita e sviluppa
alcune delle sue analisi in questo voluminoso lavoro.
8 S. M. Lanzetta, ibid., p. 8.9. B. Gherardini, Il Vaticano II, p. 36.
10. Cf. S M. Lanzetta, op. cit., p. 23.
11.
Ce que ne sont pas, selon Mgr Gherardini, la plupart des textes
magistériels postérieurs au concile, puisqu’ils en sont issus ;
l’auto-référence n’est pas alors rompue.
12. B. Gherardini, Il Vaticano II, p. 337.
13 S. M. Lanzetta, op. cit., p. 51.
14. Walter Brandmüller, « Una nuova edizione dei decreti conciliari », in Walter Brandmüller, Agostino Marchetto, Nicola Bux, Le « chiavi » di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II,
Cantagalli, Siena, 2012, 112 p., 10 € ; pp. 31-40. Quest'opera
collettiva si pone risolutamente in una ermeneutica della continuità. La
chiavi d’interpretazione annunciate dal titolo sono la storia e la
fede. L’articolo di Mons. Bux (« La chiave della Fede per capire il Vaticano II
», pp. 91-110) è significativo di una volontà di rilettura tradizionale
dei testi conciliari : Egli mostra che in questi testi si trovano tutti
gli elementi di una teologia sistematica sulla fede, ed attraverso
questa il concilio permette di entrare pienamente nell'Anno della Fede ;
l'impresa sembrerebbe aver a che fare con una operazione artificiale,
specialmente per il fatto di mettere tra parentesi, senza alcuna forma
di spiegazione, gli elementi antropocentrici e mondani dei testi
conciliari.
15. Cf. S. M. Lanzetta, op. cit., p. 158.16 Maria Guarini, op. cit., p. 119.
17. Cf. S. M. Lanzetta, op. cit., pp. 156 ss.
18.
Sul legame tra qìueste affermazioni e la seguente, la sacramentalità
della Chiesa, il breve studio di don Barthe, già citato, offre una
visione molto pedagogica.
19. Mgr Eric de Moulins-Beaufort, « L’Eglise, signe de Dieu et annonciatrice de la paix ». La cofmerenza è riprodotta in La Documentation catholique, n. 2489, du 6 mai 2012.
20 Joseph Famerée : « Introduction. Le style comme interprétation », in Joseph Famerée (dir.), Vatican II comme style. L’herméneutique théologique du Concile, Cerf, coll. Unam Sanctam Nouvelle série, 2012, p. 9.
21. Bernard Lucien, « L’autorité magistérielle de Vatican II. Contribution à un débat actuel », Sedes sapientiae n. 119, mars 2012, pp. 9-80.
22. Cf. S. M. Lanzetta, op. cit., p. 155.Catholica n.117 — Autunno 2012 [Traduzione a cura di Chiesa e post concilio]
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