Al discorso del card. Walter Kasper sul Vaticano due
(L’Osservatore Romano, 12.04. 2013) segue il commento di Sandro
Pelegrineti de Pontes: “Kasper ha riconosciuto l’ovvio, ossia che il
Vaticano II è stato ambiguo per favorire interpretazioni spurie.
di Walter Kasper
“Era l’epoca della guerra fredda; l’anno prima dell’inizio del concilio era stato costruito il Muro di Berlino e, durante il periodo della prima sessione, il mondo, a causa della crisi di Cuba, si ritrovò sull’orlo del baratro della guerra atomica. Oggi, cinquant’anni dopo, viviamo in un mondo globalizzato, completamente diverso e in rapido cambiamento, con nuove questioni e nuove sfide. La fede ottimistica nel progresso e lo spirito dell’incamminarsi verso nuovi confini sono volati via da tempo.
Per la maggior parte dei cattolici, gli sviluppi, messi in moto dal concilio, fanno parte della vita quotidiana della Chiesa. Ma ciò che vi sperimentano non è il grande avvio e non è la primavera della Chiesa che ci aspettavamo allora, ma è, piuttosto, una Chiesa dall’aspetto invernale, che mostra segni chiari di crisi.
Per chi conosca la storia dei venti concili riconosciuti come ecumenici, questo non costituirà una sorpresa. I tempi postconciliari furono quasi sempre turbolenti. Il Vaticano II, però, rappresenta un caso particolare. Diversamente dai concili precedenti, non fu convocato per estromettere dottrine eretiche o per comporre uno scisma; non proclamò alcun dogma formale e non prese nemmeno deliberazioni disciplinari formali. Giovanni XXIII aveva una prospettiva più ampia [aperta alle logge e sinagoghe!...]. Una minoranza influente oppose resistenza pervicace a questo tentativo della maggioranza. Il successore di Giovanni XXIII, Papa Paolo VI, era fondamentalmente dalla parte della maggioranza, ma cercò di coinvolgere la minoranza e, in linea con l’antica tradizione conciliare, di raggiungere un’approvazione, per quanto possibile all’unanimità, dei documenti conciliari, che in totale furono sedici. Ci riuscì; ma si pagò un prezzo. In molti punti, si dovettero trovare formule di compromesso, in cui, spesso, le posizioni della maggioranza si trovano immediatamente accanto a quelle della minoranza, pensate per delimitarle.
Così, i testi conciliari hanno in sé un enorme potenziale conflittuale; aprono la porta a una ricezione selettiva nell’una o nell’altra direzione.
Quale direzione indica la bussola del concilio e dove conduce il cammino della Chiesa cattolica, nell’ancor giovane XXI secolo? […]
Si possono distinguere tre fasi della ricezione, fino ai giorni nostri. Anzitutto, la prima fase della ricezione entusiastica. Karl Rahner, subito dopo essere ritornato dal concilio, in una conferenza a Monaco parlò di “inizio dell’inizio”. Ma Rahner restò cautamente scettico in ciò che riguardava il futuro. Altri si spinsero oltre e vollero lasciare in disparte ciò che considerarono elementi della tradizione trascinati nel concilio come accessori, frutto di compromesso, e, come Hans Küng, effettuando un salto di quasi duemila anni di storia della Chiesa, interpretarono la dottrina della Chiesa in modo del tutto nuovo, partendo dalla Sacra Scrittura.
La reazione non si fece attendere a lungo. Venne non solo dall’arcivescovo Lefebvre e dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X, da lui fondata, ma anche da teologi che, durante il concilio, erano stati annoverati tra i progressisti (Jacques Maritain, Louis Bouyer, Henri de Lubac). Diversamente da Lefebvre, loro non criticarono il concilio in sé, ma criticarono la sua ricezione. Di fatto, nei primi due decenni dopo il concilio, si ebbe un esodo di molti sacerdoti e religiosi; in molti ambiti si ebbero uno scadimento della prassi ecclesiastica e movimenti di protesta di sacerdoti, religiosi e laici. Papa Paolo VI parlò di «fumo di Satana», entrato da qualche fessura nel tempio di Dio.
Ancora oggi, alcuni critici considerano il Vaticano II, nel contesto della storia della Chiesa, come una sciagura e come la maggiore calamità in tempi recenti. Ma rappresenta un cortocircuito ritenere che tutto quel che avvenne dopo il concilio sia accaduto anche a causa del concilio. I critici misconoscono i trend di lungo respiro che agirono già prima del concilio e che conobbero una notevole accelerazione nei rivolgimenti sociali connessi con la protesta dei giovani e degli studenti nel 1968. Dopo il 1968 le tendenze emancipatrici ebbero effetti anche in ambiti ecclesiastici. Durante il concilio, furono i progressisti a essere i veri conservatori, che volevano rinnovare la tradizione antica; dopo, presero la parola progressisti di nuovo genere, che non si orientavano tanto alla tradizione più antica, quanto invece ai “segni dei tempi” e che volevano interpretare il Vangelo in base alla mutata situazione sociale.
Il Sinodo episcopale straordinario del 1985, venti anni dopo la fine del concilio, iniziò la terza fase della recezione [ambigua]. Il Sinodo ebbe il compito di fare un bilancio. Consapevole della crisi, non volle però unirsi al diffuso coro di lamenti. Parlò di situazione ambivalente, in cui, oltre ad aspetti negativi, c’erano anche buoni frutti: il rinnovamento liturgico, che portò a una maggiore sottolineatura della Parola di Dio e a una partecipazione più forte dell’intera comunità celebrante; la partecipazione e cooperazione rafforzate dei laici alla vita della Chiesa; gli avvicinamenti ecumenici; le aperture al mondo moderno e alla sua cultura e molti altri ancora. […]
I documenti conciliari non sono rimasti lettera morta. Hanno dato l’impronta alla vita in diocesi, parrocchie e comunità religiose, mediante il rinnovamento della liturgia, una spiritualità caratterizzata da un più forte connotato biblico e la partecipazione dei laici e stimolato il dialogo ecumenico e interreligioso. Il concilio è stato accolto positivamente in particolare dai nuovi movimenti spirituali, sorti negli anni Settanta, che hanno portato alla luce, in modo nuovo, la molteplicità dei carismi e la vocazione universale alla santità [!]. Neanche la ricezione ufficiale è rimasta ferma. In parte, è passata dal concilio nelle riforme liturgiche, in cui il concilio si atteneva ancora al latino come lingua normale liturgica e non si parlava di una celebrazione orientata verso il popolo. Lo stesso vale per le indicazioni sociali ed etiche di Papa Giovanni Paolo II per l’attuazione della libertà religiosa mediante la rescissione di concordati che collidevano contro di essa e, infine, riguardo alla “politica” dei diritti umani, con cui Giovanni Paolo II ha fornito un contributo essenziale alla sconfitta delle dittature comuniste dell’Europa Orientale [mai con la ostpolitik conciliare!]. Vale anche accennare alla sua enciclica sull’ecumenismo, Ut unum sint (1995), che ha approfondito le enunciazioni ecumeniche del concilio portandole avanti con energia. Tutto questo ha trasformato positivamente [?], sotto molti aspetti, il volto della Chiesa tanto all’interno quanto all’esterno. L’ecumenismo, altro tema importante, ha dato molti buoni frutti, più di quanti ci si aspettasse al tempo del concilio.
Una Chiesa che si appoggi al mainstream sociale diventa, in ultimo, superflua. Non diventa interessante se si orna con piume non sue, ma se fa valere la propria causa in modo credibile e convincente e se compare come contrafforte all’opinione pubblica dominante. […]
Un ulteriore, importante indizio l’ha dato Papa Benedetto XVI, in un discorso ai cardinali e ai collaboratori della Curia romana, tenuto il 22 dicembre 2005, in occasione del quarantesimo anniversario della chiusura del concilio. Così ha introdotto la fase più recente del dibattito sull’interpretazione del concilio. Ha chiarito che il consenso non deve essere solo sincronico (riguardante la Chiesa attuale) ma anche diacronico (riguardante la Chiesa in ogni epoca). Ha contrapposto due ermeneutiche: quella della discontinuità e della rottura, che respinse, e quella «della riforma, del rinnovamento». Le parole del Papa sono state, spesso, interpretate in modo unilaterale, tralasciando di considerare che non ha contrapposto, come molti affermano, l’ermeneutica della discontinuità all’ermeneutica della continuità. Il Papa parlò di un’ermeneutica della riforma e del «rinnovamento nella continuità» della Chiesa.
Quello della riforma è, nel complesso della Tradizione medioevale, un termine fondamentale e una sfida che si ripropone di continuo. Riforma non significa solo necessario adattamento pratico di singoli paragrafi a circostanze nuove. Chi parla di riforma, presuppone che sussistano deficit e disfunzioni che rendono necessario rifarsi a tradizioni più antiche, dimenticate, in particolare all’inizio apostolico, rinnovandole creativamente.
Il discorso del Papa sulla riforma e il rinnovamento nella continuità, riflette una concezione viva della Tradizione, che, se alle argomentazioni fondamentali seguono conseguenze pratiche, potrebbe riaccendere nuovamente il fuoco del concilio, cioè potrebbe, nella continuità, portare di nuovo l’impulso innovatore del concilio.
Domandiamo: Come può apparire tale rinnovamento e verso dove può andare il cammino ulteriore? Come applicare la eredità dei Papi Giovanni XXIII e Paolo VI oggi? Non ho un programma complessivo. Posso, accennare solo ad alcuni, pochi, punti di vista. Innanzitutto, il concilio ha accolto, in modo critico-costruttivo, richieste importanti della modernità. Oggi, mezzo secolo dopo, dall’età moderna siamo passati a quella postmoderna. Molte vecchie questioni si pongono in modo nuovo; anche molti ideali dell’illuminismo vengono oggi messi in discussione. La fede nel progresso, che c’era allora, come pure la fiducia nella ragione, sono scosse. Ciò non significa che il concilio non sia più attuale. La Chiesa deve prendere sul serio le richiese legittime dell’età moderna. Deve difendere [discutere] la fede sia contro il pluralismo e il relativismo postmoderni sia contro le tendenze fondamentaliste che rifuggono dalla ragione.
Seconda sfida: Nell’era postmoderna, è quella che viene non solo dal nostro mondo occidentale secolarizzato e relativista ma dall’emisfero Sud, cioè la sfida della povertà della grande maggioranza degli uomini. Papa Francesco con la sua opzione per una Chiesa povera per i poveri lo ha ricordato. Lo ha fatto in continuità con il Vaticano II, che nella Lumen gentium in una sezione spesso dimenticata parla della sequela del Gesù diventato per noi povero e della povertà e semplicità apostolica della Chiesa. In questo senso Papa Francesco sin dal primo giorno del suo pontificato ha dato la sua interpretazione direi profetica del concilio e ha dato avvio a una nuova fase della sua recezione. Lui ha cambiato l’agenda: in testa adesso ci sono i problemi dell’emisfero Sud. […]
L’ultimo punto è il più importante: la questione di Dio. Già il concilio ha annoverato l’ateismo, nelle sue varie modulazioni, tra le questioni serie di quest’epoca. Tale situazione, da allora, si è acuita in modo drammatico. Il problema di oggi è, che Dio per molti non è più un problema, ovvero sembra che non sia più un problema e che la sua esistenza non interessi più. Il problema è l’indifferenza. […] Le persone lì fuori, nell’“atrio delle genti”, hanno altre domande: da dove vengo e dove vado? Perché e per quale fine esisto? Perché il male, perché la sofferenza del mondo? Perché devo soffrire? […]
Il cammino avviato dal concilio non è finito. L’eredità ricca che i due Papi Giovanni XXIII e Paolo VI ci hanno lasciata ancora non è esaurita. Dobbiamo percorrerlo, con pazienza ma anche con determinazione e coraggio e, nonostante tutto, con hilaritas, gioia interiore. Come disse il profeta: «La gioia per Dio è la nostra forza» (Neemia, 8, 10). Il concilio ha destato la gioia per Dio, per la fede, per la Chiesa [?...].” (L’Osservatore Romano 12 aprile 2013, rilievi nostri)
Vale notare che la stessa condanna di Pio VI è ripetuta da San Pio X nella «Pascendi»”. (http://cumexapostolatusofficio.blogspot.pt/2013/04/ambiguidades-condenadas-sem-nenhuma.html )
Vediamo le parole di Papa Pio VI condannando il Sinodo di Pistoia:
“I Pontefici Nostri Predecessori, i Vescovi di grande autorità, ed anche, legalmente, certi Concilii generali conoscevano benel’arte maliziosa propria degli innovatori, i quali, temendodi offenderele orecchie deicattolici, si adoperano per coprire sotto fraudolenti giri di parole i lacci delle loro astuzie, affinché l’errore, nascosto fra senso e senso (San Leone M., Lettera 129 dell’edizione Baller), s’insinui negli animi più facilmente e avvenga che – alterata la verità della sentenza per mezzo di una brevissima aggiunta o variante – la testimonianza che doveva portare la salute, a seguito di una certa sottile modifica, conduca alla morte. Se questa involuta e fallace maniera di dissertare è viziosa in qualsiasi manifestazione oratoria, in nessun modo è da praticare in un Sinodo, il cui primo merito deve consistere nell’adottare nell’insegnamento un’espressione talmente chiara e limpida che non lasci spazio al pericolo di contrasti. Però se nel parlare si sbaglia, non si può ammettere quella subdola difesa che si è soliti addurre e per la quale, allorché sia stata pronunciata qualche espressione troppo dura, si trova la medesima spiegata più chiaramente altrove, o anche corretta, quasi che questa sfrenata licenza di affermare e di negare a piacimento, che fu sempre una fraudolenta astuzia degl’innovatori a copertura dell’errore, non dovesse valere piuttosto per denunciare l’errore anziché per giustificarlo: come se alle persone particolarmente impreparate ad affrontare casualmente questa o quella parte di un Sinodo esposto a tutti in lingua volgare fossero sempre presenti gli altri passi da contrapporre, e che nel confrontarli ognuno disponesse di tale preparazione da ricondurli, da solo, a tal punto da evitare qualsiasi pericolo d’inganno che costoro spargono erroneamente. È dannosissima quest’abilità d’insinuare l’errore che il Nostro Predecessore Celestino (San Celestino, Lettera 13, n. 2, presso il Coust) scoperse nelle lettere del vescovo Nestorio di Costantinopoli e condannò con durissimo richiamo. L’impostore, scoperto, richiamato e raggiunto per tali lettere, con il suo incoerente multiloquio avvolgeva d’oscuro il vero e, di nuovo confondendo l’una e l’altra cosa, confessava quello che aveva negato o si sforzava di negare quello che aveva confessato.
“Contro tali insidie, purtroppo rinnovatesi in ogni età, non fu messo in opera modo migliore che quello di esporre le sentenze le quali, sotto il velo dell’ambiguità, avviluppano una pericolosa discrepanza di sensi, segnalando il perverso significato sotto il quale si trova l’errore che la Dottrina Cattolica condanna.” Pio VI, Bolla AuctoremFidei, del 29 agosto 1794.
Questa condanna di Pio VI riguarda in pieno il Vaticano 2, che
oltre la sua ambiguità è stato propriamente eretizante e anche eretico;
sistematicamente ambiguo per inoculare errori e eresie! Il Magistero
condanna i modernisti, la cui elaborata ambiguità è intrinsecamente
perversa perché mira a un piano di mutazione radicale della Chiesa.
Eppure, la stragrande maggioranza dei cattolici ancora dorme dopo
l’invito di guardare alla luna di Giovanni 23; è continuata assopita
dopo con i baci dei suoi successori ai nemici del Papato e della Chiesa,
e ora con i baci e abbracci di Bergoglio ai disarmati della chiesa
smobilitante.
Tutto ciò riguarda l’apparato ecumenista conciliare, ispirato nella sindrome delle nuove «ermeneutiche» del bacio di Giuda!
L’EDITORIALE DEL VENERDI
di Arai Daniele
http://www.agerecontra.it/public/pres30/?p=10810
di Walter Kasper
“Era l’epoca della guerra fredda; l’anno prima dell’inizio del concilio era stato costruito il Muro di Berlino e, durante il periodo della prima sessione, il mondo, a causa della crisi di Cuba, si ritrovò sull’orlo del baratro della guerra atomica. Oggi, cinquant’anni dopo, viviamo in un mondo globalizzato, completamente diverso e in rapido cambiamento, con nuove questioni e nuove sfide. La fede ottimistica nel progresso e lo spirito dell’incamminarsi verso nuovi confini sono volati via da tempo.
Per la maggior parte dei cattolici, gli sviluppi, messi in moto dal concilio, fanno parte della vita quotidiana della Chiesa. Ma ciò che vi sperimentano non è il grande avvio e non è la primavera della Chiesa che ci aspettavamo allora, ma è, piuttosto, una Chiesa dall’aspetto invernale, che mostra segni chiari di crisi.
Per chi conosca la storia dei venti concili riconosciuti come ecumenici, questo non costituirà una sorpresa. I tempi postconciliari furono quasi sempre turbolenti. Il Vaticano II, però, rappresenta un caso particolare. Diversamente dai concili precedenti, non fu convocato per estromettere dottrine eretiche o per comporre uno scisma; non proclamò alcun dogma formale e non prese nemmeno deliberazioni disciplinari formali. Giovanni XXIII aveva una prospettiva più ampia [aperta alle logge e sinagoghe!...]. Una minoranza influente oppose resistenza pervicace a questo tentativo della maggioranza. Il successore di Giovanni XXIII, Papa Paolo VI, era fondamentalmente dalla parte della maggioranza, ma cercò di coinvolgere la minoranza e, in linea con l’antica tradizione conciliare, di raggiungere un’approvazione, per quanto possibile all’unanimità, dei documenti conciliari, che in totale furono sedici. Ci riuscì; ma si pagò un prezzo. In molti punti, si dovettero trovare formule di compromesso, in cui, spesso, le posizioni della maggioranza si trovano immediatamente accanto a quelle della minoranza, pensate per delimitarle.
Così, i testi conciliari hanno in sé un enorme potenziale conflittuale; aprono la porta a una ricezione selettiva nell’una o nell’altra direzione.
Quale direzione indica la bussola del concilio e dove conduce il cammino della Chiesa cattolica, nell’ancor giovane XXI secolo? […]
Si possono distinguere tre fasi della ricezione, fino ai giorni nostri. Anzitutto, la prima fase della ricezione entusiastica. Karl Rahner, subito dopo essere ritornato dal concilio, in una conferenza a Monaco parlò di “inizio dell’inizio”. Ma Rahner restò cautamente scettico in ciò che riguardava il futuro. Altri si spinsero oltre e vollero lasciare in disparte ciò che considerarono elementi della tradizione trascinati nel concilio come accessori, frutto di compromesso, e, come Hans Küng, effettuando un salto di quasi duemila anni di storia della Chiesa, interpretarono la dottrina della Chiesa in modo del tutto nuovo, partendo dalla Sacra Scrittura.
La reazione non si fece attendere a lungo. Venne non solo dall’arcivescovo Lefebvre e dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X, da lui fondata, ma anche da teologi che, durante il concilio, erano stati annoverati tra i progressisti (Jacques Maritain, Louis Bouyer, Henri de Lubac). Diversamente da Lefebvre, loro non criticarono il concilio in sé, ma criticarono la sua ricezione. Di fatto, nei primi due decenni dopo il concilio, si ebbe un esodo di molti sacerdoti e religiosi; in molti ambiti si ebbero uno scadimento della prassi ecclesiastica e movimenti di protesta di sacerdoti, religiosi e laici. Papa Paolo VI parlò di «fumo di Satana», entrato da qualche fessura nel tempio di Dio.
Ancora oggi, alcuni critici considerano il Vaticano II, nel contesto della storia della Chiesa, come una sciagura e come la maggiore calamità in tempi recenti. Ma rappresenta un cortocircuito ritenere che tutto quel che avvenne dopo il concilio sia accaduto anche a causa del concilio. I critici misconoscono i trend di lungo respiro che agirono già prima del concilio e che conobbero una notevole accelerazione nei rivolgimenti sociali connessi con la protesta dei giovani e degli studenti nel 1968. Dopo il 1968 le tendenze emancipatrici ebbero effetti anche in ambiti ecclesiastici. Durante il concilio, furono i progressisti a essere i veri conservatori, che volevano rinnovare la tradizione antica; dopo, presero la parola progressisti di nuovo genere, che non si orientavano tanto alla tradizione più antica, quanto invece ai “segni dei tempi” e che volevano interpretare il Vangelo in base alla mutata situazione sociale.
Il Sinodo episcopale straordinario del 1985, venti anni dopo la fine del concilio, iniziò la terza fase della recezione [ambigua]. Il Sinodo ebbe il compito di fare un bilancio. Consapevole della crisi, non volle però unirsi al diffuso coro di lamenti. Parlò di situazione ambivalente, in cui, oltre ad aspetti negativi, c’erano anche buoni frutti: il rinnovamento liturgico, che portò a una maggiore sottolineatura della Parola di Dio e a una partecipazione più forte dell’intera comunità celebrante; la partecipazione e cooperazione rafforzate dei laici alla vita della Chiesa; gli avvicinamenti ecumenici; le aperture al mondo moderno e alla sua cultura e molti altri ancora. […]
I documenti conciliari non sono rimasti lettera morta. Hanno dato l’impronta alla vita in diocesi, parrocchie e comunità religiose, mediante il rinnovamento della liturgia, una spiritualità caratterizzata da un più forte connotato biblico e la partecipazione dei laici e stimolato il dialogo ecumenico e interreligioso. Il concilio è stato accolto positivamente in particolare dai nuovi movimenti spirituali, sorti negli anni Settanta, che hanno portato alla luce, in modo nuovo, la molteplicità dei carismi e la vocazione universale alla santità [!]. Neanche la ricezione ufficiale è rimasta ferma. In parte, è passata dal concilio nelle riforme liturgiche, in cui il concilio si atteneva ancora al latino come lingua normale liturgica e non si parlava di una celebrazione orientata verso il popolo. Lo stesso vale per le indicazioni sociali ed etiche di Papa Giovanni Paolo II per l’attuazione della libertà religiosa mediante la rescissione di concordati che collidevano contro di essa e, infine, riguardo alla “politica” dei diritti umani, con cui Giovanni Paolo II ha fornito un contributo essenziale alla sconfitta delle dittature comuniste dell’Europa Orientale [mai con la ostpolitik conciliare!]. Vale anche accennare alla sua enciclica sull’ecumenismo, Ut unum sint (1995), che ha approfondito le enunciazioni ecumeniche del concilio portandole avanti con energia. Tutto questo ha trasformato positivamente [?], sotto molti aspetti, il volto della Chiesa tanto all’interno quanto all’esterno. L’ecumenismo, altro tema importante, ha dato molti buoni frutti, più di quanti ci si aspettasse al tempo del concilio.
Una Chiesa che si appoggi al mainstream sociale diventa, in ultimo, superflua. Non diventa interessante se si orna con piume non sue, ma se fa valere la propria causa in modo credibile e convincente e se compare come contrafforte all’opinione pubblica dominante. […]
Un ulteriore, importante indizio l’ha dato Papa Benedetto XVI, in un discorso ai cardinali e ai collaboratori della Curia romana, tenuto il 22 dicembre 2005, in occasione del quarantesimo anniversario della chiusura del concilio. Così ha introdotto la fase più recente del dibattito sull’interpretazione del concilio. Ha chiarito che il consenso non deve essere solo sincronico (riguardante la Chiesa attuale) ma anche diacronico (riguardante la Chiesa in ogni epoca). Ha contrapposto due ermeneutiche: quella della discontinuità e della rottura, che respinse, e quella «della riforma, del rinnovamento». Le parole del Papa sono state, spesso, interpretate in modo unilaterale, tralasciando di considerare che non ha contrapposto, come molti affermano, l’ermeneutica della discontinuità all’ermeneutica della continuità. Il Papa parlò di un’ermeneutica della riforma e del «rinnovamento nella continuità» della Chiesa.
Quello della riforma è, nel complesso della Tradizione medioevale, un termine fondamentale e una sfida che si ripropone di continuo. Riforma non significa solo necessario adattamento pratico di singoli paragrafi a circostanze nuove. Chi parla di riforma, presuppone che sussistano deficit e disfunzioni che rendono necessario rifarsi a tradizioni più antiche, dimenticate, in particolare all’inizio apostolico, rinnovandole creativamente.
Il discorso del Papa sulla riforma e il rinnovamento nella continuità, riflette una concezione viva della Tradizione, che, se alle argomentazioni fondamentali seguono conseguenze pratiche, potrebbe riaccendere nuovamente il fuoco del concilio, cioè potrebbe, nella continuità, portare di nuovo l’impulso innovatore del concilio.
Domandiamo: Come può apparire tale rinnovamento e verso dove può andare il cammino ulteriore? Come applicare la eredità dei Papi Giovanni XXIII e Paolo VI oggi? Non ho un programma complessivo. Posso, accennare solo ad alcuni, pochi, punti di vista. Innanzitutto, il concilio ha accolto, in modo critico-costruttivo, richieste importanti della modernità. Oggi, mezzo secolo dopo, dall’età moderna siamo passati a quella postmoderna. Molte vecchie questioni si pongono in modo nuovo; anche molti ideali dell’illuminismo vengono oggi messi in discussione. La fede nel progresso, che c’era allora, come pure la fiducia nella ragione, sono scosse. Ciò non significa che il concilio non sia più attuale. La Chiesa deve prendere sul serio le richiese legittime dell’età moderna. Deve difendere [discutere] la fede sia contro il pluralismo e il relativismo postmoderni sia contro le tendenze fondamentaliste che rifuggono dalla ragione.
Seconda sfida: Nell’era postmoderna, è quella che viene non solo dal nostro mondo occidentale secolarizzato e relativista ma dall’emisfero Sud, cioè la sfida della povertà della grande maggioranza degli uomini. Papa Francesco con la sua opzione per una Chiesa povera per i poveri lo ha ricordato. Lo ha fatto in continuità con il Vaticano II, che nella Lumen gentium in una sezione spesso dimenticata parla della sequela del Gesù diventato per noi povero e della povertà e semplicità apostolica della Chiesa. In questo senso Papa Francesco sin dal primo giorno del suo pontificato ha dato la sua interpretazione direi profetica del concilio e ha dato avvio a una nuova fase della sua recezione. Lui ha cambiato l’agenda: in testa adesso ci sono i problemi dell’emisfero Sud. […]
L’ultimo punto è il più importante: la questione di Dio. Già il concilio ha annoverato l’ateismo, nelle sue varie modulazioni, tra le questioni serie di quest’epoca. Tale situazione, da allora, si è acuita in modo drammatico. Il problema di oggi è, che Dio per molti non è più un problema, ovvero sembra che non sia più un problema e che la sua esistenza non interessi più. Il problema è l’indifferenza. […] Le persone lì fuori, nell’“atrio delle genti”, hanno altre domande: da dove vengo e dove vado? Perché e per quale fine esisto? Perché il male, perché la sofferenza del mondo? Perché devo soffrire? […]
Il cammino avviato dal concilio non è finito. L’eredità ricca che i due Papi Giovanni XXIII e Paolo VI ci hanno lasciata ancora non è esaurita. Dobbiamo percorrerlo, con pazienza ma anche con determinazione e coraggio e, nonostante tutto, con hilaritas, gioia interiore. Come disse il profeta: «La gioia per Dio è la nostra forza» (Neemia, 8, 10). Il concilio ha destato la gioia per Dio, per la fede, per la Chiesa [?...].” (L’Osservatore Romano 12 aprile 2013, rilievi nostri)
* * *
“Senza allungarci, ricordiamo qui l’insegnamento della Chiesa, che
condanna le ambiguità proprio perché permettono varie interpretazioni,
divenendo un mezzo comune utilizzato da eretici che cercano di
introdurre errori nella veste di verità.Vale notare che la stessa condanna di Pio VI è ripetuta da San Pio X nella «Pascendi»”. (http://cumexapostolatusofficio.blogspot.pt/2013/04/ambiguidades-condenadas-sem-nenhuma.html )
Vediamo le parole di Papa Pio VI condannando il Sinodo di Pistoia:
“I Pontefici Nostri Predecessori, i Vescovi di grande autorità, ed anche, legalmente, certi Concilii generali conoscevano benel’arte maliziosa propria degli innovatori, i quali, temendodi offenderele orecchie deicattolici, si adoperano per coprire sotto fraudolenti giri di parole i lacci delle loro astuzie, affinché l’errore, nascosto fra senso e senso (San Leone M., Lettera 129 dell’edizione Baller), s’insinui negli animi più facilmente e avvenga che – alterata la verità della sentenza per mezzo di una brevissima aggiunta o variante – la testimonianza che doveva portare la salute, a seguito di una certa sottile modifica, conduca alla morte. Se questa involuta e fallace maniera di dissertare è viziosa in qualsiasi manifestazione oratoria, in nessun modo è da praticare in un Sinodo, il cui primo merito deve consistere nell’adottare nell’insegnamento un’espressione talmente chiara e limpida che non lasci spazio al pericolo di contrasti. Però se nel parlare si sbaglia, non si può ammettere quella subdola difesa che si è soliti addurre e per la quale, allorché sia stata pronunciata qualche espressione troppo dura, si trova la medesima spiegata più chiaramente altrove, o anche corretta, quasi che questa sfrenata licenza di affermare e di negare a piacimento, che fu sempre una fraudolenta astuzia degl’innovatori a copertura dell’errore, non dovesse valere piuttosto per denunciare l’errore anziché per giustificarlo: come se alle persone particolarmente impreparate ad affrontare casualmente questa o quella parte di un Sinodo esposto a tutti in lingua volgare fossero sempre presenti gli altri passi da contrapporre, e che nel confrontarli ognuno disponesse di tale preparazione da ricondurli, da solo, a tal punto da evitare qualsiasi pericolo d’inganno che costoro spargono erroneamente. È dannosissima quest’abilità d’insinuare l’errore che il Nostro Predecessore Celestino (San Celestino, Lettera 13, n. 2, presso il Coust) scoperse nelle lettere del vescovo Nestorio di Costantinopoli e condannò con durissimo richiamo. L’impostore, scoperto, richiamato e raggiunto per tali lettere, con il suo incoerente multiloquio avvolgeva d’oscuro il vero e, di nuovo confondendo l’una e l’altra cosa, confessava quello che aveva negato o si sforzava di negare quello che aveva confessato.
“Contro tali insidie, purtroppo rinnovatesi in ogni età, non fu messo in opera modo migliore che quello di esporre le sentenze le quali, sotto il velo dell’ambiguità, avviluppano una pericolosa discrepanza di sensi, segnalando il perverso significato sotto il quale si trova l’errore che la Dottrina Cattolica condanna.” Pio VI, Bolla AuctoremFidei, del 29 agosto 1794.
Tutto ciò riguarda l’apparato ecumenista conciliare, ispirato nella sindrome delle nuove «ermeneutiche» del bacio di Giuda!
L’EDITORIALE DEL VENERDI
di Arai Daniele
http://www.agerecontra.it/public/pres30/?p=10810
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