Il Papa di Scalfari non sopporta di star chiuso nel recinto del clericalismo e con gesti regali cancella confini e smussa dottrine. Dovrebbe porre domande non solo ai cattolici, ma anche ai laicones
La prossima volta, sempre a un’ora scomoda, sempre passando dalla porta del Sant’Uffizio, parleranno anche del ruolo delle donne, giacché “la chiesa è femminile”. Conoscendolo, qualche scintilla o qualche brivido ne verrà. Ma sarà pur sempre un corollario, un declinare dal caso generale al particolare, ché le cose importanti le ha dette ora. Sull’attrattiva mondana s’è già amabilmente scherzato, e le seconde volte sono più serie. Che l’amore affettato di “laiconi e liberal” per Papa Francesco sia direttamente proporzionale all’allontanarsi di una avvertita minaccia, è pure stato notato. La vera domanda, dopo quattro pagine fitte di Repubblica, ieri, è come da ambo i lati, cattolici e laici, si possa ancora prendere sottogamba (un parroco bonaccione) oppure preoccuparsi solo per l’esteriorità (un pauperista di periferia), senza aver ancora messo a fuoco che il Papa gesuita e francescano cambia i perimetri e i parametri. La lotta tra la chiesa e il secolo, tra il dogma e la coscienza, che pure restano, cambiano senso e regole.
Con gesti a modo suo regali (sono i re che tracciano o cancellano i confini, gli altri fanno timide ambasciate, o sortite di contrabbando), ha detto molto di più di quel che lo stile dimesso del colloquio mostra. Cose che dovrebbero far saltare sulla sedia, di chiesa o salotto che sia: “Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo (l’uomo, ndr) a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. Pensa? Altro che valori non negoziabili, qui è come se saltasse tutto. C’è da riprendere il catechismo e controllare, dice proprio così? E sarà tutta acqua che va per l’orto del mondo, o innaffia la vigna del Signore?
Papa Francesco si fa intervistare da Eugenio Scalfari, e al netto di qualche narcisismo (le interviste a memoria riescono filtrate dal proprio io), dice cose che contano. Disegna una nuova carta geografica, la sua. “Il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso. Bisogna conoscersi, ascoltarsi e far crescere la conoscenza del mondo che ci circonda”. “Non esiste il Dio cattolico”. Il potere e il governo: “Sa come la penso su questo punto? I capi della chiesa spesso sono stati narcisi, lusingati e malamente eccitati dai loro cortigiani”. Anzi peggio: “La corte è la lebbra del papato”. Ed è malattia estesa ben al di là della sola curia, la curia è semplicemente “quella che negli eserciti si chiama l’intendenza”, e si capisce che per lui sono servi inutili. Quella di adesso, poi, “ha un difetto: è Vaticano-centrica”. Il fatto che scelga di farsi intervistare in partibus infidelium, il tono e i contenuti, sono la certificazione che Francesco preferisce parlare con tutti, piuttosto che starsene nel suo cortile con la lebbra clericale (“quando ho di fronte un clericale divento anticlericale di botto”). Anche il richiamo a san Paolo è essenzialmente in questa chiave: “Il clericalismo non dovrebbe aver niente a che vedere con il cristianesimo. San Paolo che fu il primo a parlare ai gentili, ai pagani, ai credenti in altre religioni”. Il Cortile dei gentili è un pallido ricordo, una timida prova generale del naso messo fuori da steccati e dottrine.
“E la politica?”, gli chiede Scalfari. E lui, secco: “Perché me lo chiede? Io ho già detto che la chiesa non si occuperà di politica”. Si dovrà dunque cominciare a riflettere anche della fine della teologia politica, o dell’epoca costantiniana tout-court? Sarà in ogni caso un altro gran smottamento: “La chiesa non andrà mai oltre il compito di esprimere e diffondere i suoi valori, almeno fin quando io sarò qui”. Avvertiti tutti: “Molto spesso la chiesa come istituzione è stata dominata dal temporalismo e molti membri e alti esponenti cattolici hanno ancora questo modo di sentire”.
Sarà senza dubbio un mondo molto interessante da osservare, senza Costantino e con i confini del Bene e del Male resi fluidi dalla società liquida. Ma è un ribaltamento di 180 gradi, non un buffetto, la (post)modernità gesuitica che spiana con un gesto le montagne, e scavalca la dottrina con un’interpretazione del linguaggio. Notevole il rilancio di Agostino (primo santo preferito, più di Francesco e Ignazio), ma nel senso, anche qui, di una ineffabile, non perimetrabile, libertà della coscienza rispetto alla dottrina: “Quel santo ha attraversato molte vicende nella sua vita e ha cambiato più volte la sua posizione dottrinaria”. Bergoglio ne ama la “intimità intellettuale e spirituale”, sottolinea che non è “il continuatore di Paolo”. A Francesco piace l’Agostino della grazia, “chi è non toccato dalla grazia può essere una persona senza macchia e senza paura come si dice, ma non sarà mai come una persona che la grazia ha toccato. Questa è l’intuizione di Agostino”. Lei si sente toccato dalla grazia? “Questo non può saperlo nessuno. La grazia non fa parte della coscienza, è la quantità di luce che abbiamo nell’anima, non di sapienza né di ragione”.
La teologia levigata con la pietra pomice, la secolarizzazione, la disponibilità a barattare la dottrina con la salvezza dell’anima, il peccato, che “anche per chi non ha la fede”, consiste nell’agire “contro la coscienza”. Cose che fanno correre brividi di fastidio sempre più malcelato nei tradizionalisti, ma dovrebbero far riflettere anche i laici, se abbiano davvero campo aperto e partita vinta. Che però non sia successo niente, che sia solo un Papa buono e chiacchierone, è ora di smettere di pensarlo.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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