Riaprite i pulpiti
Sono stati chiusi dopo il Concilio. E’ meglio una scintillante predica che una noiosissima omelia. Lo dice pure Francesco
“L’ufficio de’ Pastori è il predicare, essi che in oggi furono eletti da Dio a’ suoi testimonj, né mai dover i medesimi starsene muti, giacché i testimonj parlano” (San Carlo Borromeo)
Era come se fosse l’araldo di Dio, quasi come i venti dell’Apocalisse trattenuti dagli angeli – quel prete, quel monaco, quel frate: arrancava su per gli scalini del pulpito, la gente giù in chiesa sembrava trattenere il respiro e chinava la testa, giunto lassù levava in alto le mani, la veste come una vela nell’aria. Ad abbracciare; ad ammonire, il più delle volte. Tonante/mormorante/orante – tonante, quasi sempre. Severo. Accigliato. Da segnarsi con la croce al solo sentirlo: a onorare Dio, certo; a mitigare il predicatore, pure. Il castigo annunciava, prima di proclamare la salvezza. Di Dio l’uno, come di Dio l’altra. Cosa temeraria il predicare, temibile il predicatore. “
Tutta la persona era una pergamena, la faccia ossuta e lignea, un parlare solenne, senza una vibrazione, che sembrava emanasse dalla fronte. Era tutto e sempre immobile e fisso. E parlava (ma il verbo è troppo umano) sempre all’impersonale: ‘ciò che si conosce’, ‘ciò che si attinge’. Dio? Un sillogismo. Il bene? Il male? La verità? ‘Deus est veritas’. Tutto era definito, per sempre” – così Fra’ David Maria Turoldo, poeta e frate inquieto dei Servi di Maria, predicatore nel duomo di Milano negli anni Cinquanta, ritraeva i suoi colleghi predicatori di allora: chiese ancora piene, pulpiti ancora in funzione. Poi, con il Concilio, sparirono le prediche, sparirono pure i pulpiti, arrivarono le omelie. E si tuonò meno, molto meno – nelle omelie “ci si relaziona con gli uditori, scorrendo con il pensiero sui testi per interiorizzarne il senso: è un camminare insieme nella verità di Dio con la Sacra Scrittura”, ha spiegato il teologo Severino Dianich sulla rivista Jesus. E sia (e giustamente è): ma meno tuonando, e sempre più relazionandosi, alla fine la buona volontà ha ceduto il passo alla noia, la comprensione al banale, l’afflato allo scialbo. E la mirabile “conversazione familiare di un pastore d’anime con il suo popolo” (Jean Leclercq), spesso risulta un soliloquio circondato da sonno e tedio. E un pastore d’anime, per quanto volenteroso, che non cattura né cuore né testa né attenzione, con comprensibile difficoltà potrà mai soltanto arrivare a sfiorare l’anima. Il diffondersi, come dice Papa Bergoglio, invece che della parola di Dio di un “dio diffuso, un dio-spray, che è un po’ dappertutto ma che non si sa cosa sia” – poco più di un sintomo allergico. Il rischio di non avere, infine, né “la tenerezza di Dio”, cara a Francesco; né il timor di Dio che dal pulpito si invocava e dal pulpito calava: quasi il borgesiano, suicida, nei versi e nella realtà, “lascio il nulla a nessuno”.Era come se fosse l’araldo di Dio, quasi come i venti dell’Apocalisse trattenuti dagli angeli – quel prete, quel monaco, quel frate: arrancava su per gli scalini del pulpito, la gente giù in chiesa sembrava trattenere il respiro e chinava la testa, giunto lassù levava in alto le mani, la veste come una vela nell’aria. Ad abbracciare; ad ammonire, il più delle volte. Tonante/mormorante/orante – tonante, quasi sempre. Severo. Accigliato. Da segnarsi con la croce al solo sentirlo: a onorare Dio, certo; a mitigare il predicatore, pure. Il castigo annunciava, prima di proclamare la salvezza. Di Dio l’uno, come di Dio l’altra. Cosa temeraria il predicare, temibile il predicatore. “
Papa Francesco lo sa – perché è Papa, va da sé; perché è gesuita, ed è una differenza non da poco. E infatti ai preti e ai vescovi lo ha spiegato con parole chiare: “Diventare tutti più ascoltatori della Parola di Dio, per essere meno ricchi di nostre parole e più ricchi delle sue Parole. Penso al sacerdote, che ha il compito di predicare. Come può predicare se prima non ha aperto il suo cuore, non ha ascoltato, nel silenzio, la Parola di Dio? Via queste omelie interminabili, noiose, delle quali non si capisce niente”. Noiose. Interminabili. Incomprensibili. Se è così per il Papa, immaginarsi per i fedeli. La predica mutata in omelia e man mano ridotta a computo ragionieristico, a frasi fatte da piccola sociologia, a groviglio di taglia-e-cuci, a vediamo-se-sta-su, un’infarinata di catechismo e un’imbracatura di Wikipedia. Predica, da ciò che era, è diventata parola evirata – fare la predica, cioè il nulla e il nessuno: ramanzina, lavata di capo, redarguire, il predicare bene (manco quello) e il male razzolare, robetta da alzata di spalle. Non era un rimprovero, la predica: un’allerta, piuttosto, un avvertimento, una profezia persino – così i grandi predicatori la pensavano e si pensavano. Certo né ai tempestosi Savonarola o Bernardino da Siena, e neppure ai raffinatissimi Bossuet o Paolo Segneri, pensa o vuole o può tornare Francesco: i secoli (e il secolo, più di ogni cosa) hanno lasciato il segno, il materiale umano sottomano è quello che è. Ma rifare un po’ di percorso inverso, ritrovare un senso alla tediosa e ordinaria pratica domenicale, questo sì. L’essere gesuita di Francesco è essenziale nel suo svelare la mestizia che promana dai suoi pastori, sfiancati dalla consuetudine e dal vizio quieto del clericalismo. “Non lasciatevi bloccare da pregiudizi, da abitudini, da rigidità mentali e pastorali, dal famoso ‘si è sempre fatto così’…”. Così si faceva, e così i gesuiti decisero di non fare più – fin dall’approvazione della “Formula instituti” da parte di Paolo III, nel 1539, con il supporto peraltro di Dio Padre e Cristo con la Croce opportunamente apparsi in visione ad Ignazio in località La Storta, alle porte di Roma. E il predicare dei gesuiti, al Papa e al mondo, e il loro predicare fino e ben oltre il mondo conosciuto, ne fecero la forza e ne elevarono la qualità: parlare e capire, interrogare le coscienze, capire persino prima di parlare, così da finire additati da Pascal come troppo aderenti ai vizi del secolo – ma loro si fecero intendere in Cina, col genio di Matteo Ricci, e nelle colonie del Sudamerica, con le reducciones capaci di sollevare il conflitto con il potere. “Difesa e propagazione della fede” – così cominciò.
Francesco è un Papa molto diverso dai suoi predecessori. Non tanto perché viene dalla fine del mondo, ma forse perché ha intravisto meglio (magari con angoscia meno sottile e meno intimorita del suo coltissimo predecessore Benedetto) il rischio della fine del mondo cattolico. Papa Paolo era colto ma come pietrificato nel ruolo e nel vortice del dopo Concilio – alzò la barricata dell’Humanae vitae, e quella barricata gli crollò addosso. Papa mormorante, infine Papa quasi disperato e rassegnato, davanti al cadavere di un amico assassinato: “Tu non hai esaudito la nostra supplica…”. Giovanni Paolo II fu Papa politico per eccellenza, il Muro e il comunismo, il mondo che si rovesciava – il cuore seguirà. Ratzinger fu il grande teologo, ragione e fede – ma non fu compreso, anzi il mondo sembrava ritrarsi. Bergoglio ha rovesciato il paradigma: tutto torna al cuore di Cristo, Dio innanzi tutto ed essenzialmente come tenerezza: “Il Signore sa quella bella scienza delle carezze”. E la Parola – la parola domenicale dei predicatori suoi essiccata dall’arsura e dall’abitudine – l’ha ripresa in mano, quotidianamente. Ogni giorno, ogni mattina. Né pomposi proclami né encicliche contorte né sontuosi documenti – è Santa Marta la sua cattedra. E che quelle “conversazioni familiari” siano centrali nella strategia di Francesco, è ora testimoniato dalla pubblicazione delle “Omelie del mattino. Nella cappella della Domus Sanctae Marthae” (Libreria Editrice Vaticana), che tutte le raccoglie. Sull’Osservatore Romano, presentando il libro – ed evocando modelli illustri come Basilio, Giovanni Crisostomo, Agostino – Inos Biffi così ha definito il linguaggio di Bergoglio, “facile e insieme vivace, ricco di metafore, immagini plastiche, capacità di coinvolgere quanti ascoltano, di interloquire con loro, di riportarli alle vicissitudini concrete e abituali della loro vita”. Carezza del Papa – quasi il terreno concretizzarsi della sempre evocata “carezza di Dio”. La “carezza del Papa” – come più di cinquant’anni fa evocò il suo predecessore Giovanni: quello che a lui, piace già credere alla fantasia e all’intuito popolare, più somiglia. Riprendersi la voce – così che almeno scuota, che almeno giunga all’orecchio, la Parola.
Ritrovarsi il Vicario di Cristo più temerario (“Chi sono io per giudicare?”) di quasi tutto il suo folto e smarrito esercito di pastori, impigrito e abitudinario e inzeppato di banalità, non è cosa abituale per la chiesa. E che sia omelia o che sia predica, la necessità di ridare forza e forma a ciò che si dice (oltre, si capisce, a ciò che si fa) ha ormai il carattere dell’urgenza. Da Santa Marta. Dall’altare. Dal pulpito. E pur di carattere ben più mite, l’esigenza di Bergoglio pare fare eco a quella con cui, più di cinquecento anni fa, scuoteva la chiesa il predicatore forse più noto e tempestoso: Savonarola – quello della “terrifica praedicatio”. E dunque: “O sacerdoti, udite le mie parole; o preti, o prelati della Chiesa di Cristo, lasciate i benefici, i quali non potete tenere; lasciate le vostre pompe e i vostri conviti e desinare, i quali fate tanto splendidamente…”. Antenna per sentire la Parola, antenna per trasmettere la Parola avete da essere, spiega Bergoglio al clero suo, quando “penso al sacerdote che ha il compito di predicare”. Sono sintonizzato su Dio, perciò, “o su me stesso?”. E si può sorridere, a proposito, ripensando alla conversazione che si trova nella commedia di Alfredo Testoni “Il cardinale Lambertini” (il futuro Benedetto XIV). Scena: cardinale e il vanesio abate Cavalcanti – detto, dal prelato, “l’elegante damerino”. Abate (estasiato): “La raccolta della mia predica a San Petronio per le anime del Purgatorio fu di centocinquanta scudi, mentre il predicatore di San Pietro non ne mise insieme che cento appena”. Cardinale: “Mo bravo lò!… Il far accorrere il popolo alla predica in chiesa collo stesso sentimento con cui si va a sentire il dottor Balanzone, è cosa contraria alla volontà di Dio! Non ha bisogno di rettorica il vangelo!”. Abate: “Eminenza! La mia eloquenza tuona contro gli eretici!”. Cardinale: “Parole da energumeno e non da apostolo!… E’ troppo semplice e chiaro il vangelo perché abbia bisogno di apostrofi, di fronzoli e di leccature, come ad un ministro di Dio non convengono i giustacuori di velluto e le bene calze attillate di seta!”. E magari si accorresse in chiesa, adesso, come a sentir Balanzone – nemmeno teatro, solo stanca ritualità: homiliae o sermones o prediche che fossero.
Pur sospesa tra l’eternità come prospettiva e i millenni come pratica, questi ultimi decenni di decadimento della predica pesano nella chiesa. E da molti anni la questione è dibattuta/analizzata/deplorata. Già nei giorni del Concilio ironizzava il teologo Yves Congar: “Nonostante 30 mila prediche ogni domenica, in Francia c’è ancora la fede”. In Italia, pochi anni fa si contavano ancora 100 mila prediche ogni domenica, sette milioni di orecchie di fedeli in ascolto. Ascolto distratto, però: distratto l’udito, mentre l’occhio corre impaziente all’orologio. Nel 2006 il gesuita Robert White, docente di Omiletica alla Gregoriana, fece un esperimento: inviò i suoi allievi ad assistere, in incognito, alle prediche dei parroci romani, per poi discuterne. Il risultato fu disastroso. Confessò padre White a Panorama: “Il quadro è desolante. Le prediche sono troppo generiche, non affrontano i problemi concreti, raramente ricorrono all’uso delle immagini e della metafora per spiegare i concetti, spesso non tengono neanche conto del Vangelo letto pochi minuti prima”. Chiacchiere a vuoto, allora, e pure noiose. L’Istituto di sociologia religiosa di Trento, scrissero i giornali, analizzò per anni cento prediche in occasione delle messe per i defunti: non andò meglio, persino peggio. Ammise il cardinale Silvano Piovanelli, arcivescovo emerito di Firenze: “Diamo l’impressione di recitare una lezione imparata a memoria. Le parole passano sopra le teste senza entrare nella vita, percuotono le orecchie senza toccare il cuore. Siamo maestri, e neppure bravi, ma non siamo testimoni”. E persino il “Dizionario di omiletica” del 1998 (cioè già quindici anni fa) lasciava poche speranze sulla predica, “è ancora molto danneggiata dall’incapacità di molti pastori a scendere dalla loro astrattezza e genericità”. Di “poltiglia insulsa” parlò addirittura il segretario della Cei, Mariano Crociata. E Papa Benedetto, che alla scrittura delle sue omelie dedicava molte delle sue ore, spiegò con apposita esortazione apostolica, Sacramentum caritatis, che “si pone la necessità di migliorare la qualità dell’omelia”. Niente da fare: voci sempre più spente, fioche, ripetitive. Sciroccoso, si era fatto il vento dell’Apocalisse. Condizione quasi senza riparo, irrisolvibile. Finché il Papa gesuita prese microfono in mano e alloggio in albergo – ché la chiesa stessa, forse, “aveva a esser flagellata, rinnovata e presto” (Savonarola).
Cerca la via del cuore, Bergoglio – “discrezione degli spiriti”. Arduo è sembrato, molto arduo, arrampicarsi su quella della ragione cara a Ratzinger. Scuotere l’indifferenza, la fiacca abitudine – qualcosa che riguardi il fedele oltre la smorta consuetudine. Da san Paolo in poi, la storia della chiesa è storia di predicazione – fino ai domenicani, “laudare, benedicere, praedicare” e ai francescani, prima ancora dei gesuiti. In un altro universo, era centrale il predicatore – altro il mondo, altre le persone. Bernardino da Siena (da Massa Marittima, però), che parlava alle folle e orientava la voce secondo il muoversi nel vento (rieccolo) di certe strategiche bandierine – “in questa settima predica si tratta anco della mala lingua, e de’ remedi contra e’ detrattori, con belle ragioni”, “in questa seguente predica diremo di coloro che cominciano a far bene, e poi tornano indietro, e come Idio gli ha in odio”: patrono dei pubblicitari, ma si capisce che non c’è spot che possa bastare. Savonarola apocalittico, che proclama le acque del diluvio, e che rovescia l’ira celeste sul mondo che vedeva perso, “aspettiamo presto un flagello, o Anticristo o peste o fame. Se tu mi domandi, con Amos, se io sono profeta, con lui ti rispondo: non sum propheta”. Ma avevano qualcosa dei profeti, quei predicatori: nell’ira, nello sguardo, nell’urlo, così da rifiutare persino il cappello cardinalizio proposto dal Papa con il loro stesso vociare esasperato: “Un cappello rosso, ma di sangue, voglio!”. Ma oggi anch’essi sarebbero forse solo share televisivo, trash nazionalpopolare – uno spettatore in più, difficilmente un fedele in più. Predicare era essenziale. Quasi tutto. Se ne rendeva conto ai superiori – e non tanto per la raccolta dell’obolo, come il verboso abate Cavalcanti. Emerio de Bonis da Guastalla, gesuita, relazionava nel 1551 al preposito generale dopo una sua predicazione quaresimale sulla costiera amalfitana: “Venne finalmente il primo giorno di quaresima et concorse gran popolo per sentire la predica, chi per un fine, chi per un altro. Volse il Signore (che si sa servire de balbutienti quando li piace) fare che non solo restassero satisfatti, ma admirati fuori di modo… Vennero il giorno seguente in maggior numero per la fama precedente: nella qual predica, non solo si confirmò la concetta opinione, ma si aumentò molto” – e chissà, pure, quanto di vero e quanto di umana vanità. E si possono ricostruire le prediche famosissime di san Carlo Borromeo seguendo i suoi “arbores” (lo schema, il discorso che si dipana come i rami di un albero) conservati all’Ambrosiana, e così decifrati dal suo successore, Carlo Maria Martini: “Il tema viene diviso e suddiviso secondo quella ‘scaletta’ estremamente complessa per cui a ogni argomento se ne aggancia un altro. L’oratore procede con una ‘inventio locorum’ successiva, e può parlare anche un’ora, un’ora e mezzo sullo stesso argomento”.
Grandissimi predicatori del Settecento – e pure qui con abbondanza di gesuiti, costruttori di una vera e propria retorica della sacra eloquenza, da Paolo Segneri a Louis Bourdaloue, “re dei predicatori, predicatori dei re”, tanto di sapienza quanto di lunghezza delle sue prediche, così che il suo nome, inopinatamente, fu dato a una sorta di piccolo orinale che le nobildonne che assistevano si sistemavano sotto le ampie gonne – così da poter, con comodo, sopperire con l’attrezzo all’impossibilità di abbandonare la sala per più terrene esigenze. E soprattutto il più famoso tra i predicatori di quel secolo dove il barocco e la fede si mischiavano con scintillante ingegno – Parola di Dio e teatro insieme, retorica e poesia, erudizione e vera intelligenza: Jacques-Bénigne Bossuet. Ideale fu anche il palcoscenico, più che il pulpito, per le loro prediche: la Francia del Re Sole. Un nido – un mondo, di nobili: sovrani, delfini, principesse, regine – amanti, molte. Bossuet fu splendido, barocco, rigoroso. Le sue “orazioni funebri” autentici capolavori. E seppure la nobiltà più vanitosa d’Europa, certo compiaciuta tra pizzi e smeraldi e cicisbei, gli sedeva di fronte, Bossuet era capace di durissimi ammonimenti, tra salmi ed evocazioni di profeti. “La gloria! Che cosa c’è per il cristiano di più pernicioso e di più mortale? Quale lusinga più pericolosa? Quale inebriamento capace di far girare la testa ai migliori tra gli uomini?”. Preveggente, ammonì nell’orazione funebre per Anna d’Austria: “La vostra ricchezza, signori, non è costituita dai castelli e dagli ori che possedete, ma dalla pazienza dei poveri” – così da ritrovarsi, una simile citazione, persino in un corsivo dell’Unità degli anni Settanta. E da fare eco, la stessa, all’umile predica di un curato di un minuscolo paesino abruzzese, negli anni Cinquanta dell’occupazione delle terre e degli scontri con la polizia: “Io non voglio che voi siate comunisti… Non voglio bandiere comuniste: ma andate, andate pure a lavorare, andateci tutti, ci vadano anche le donne; lavorare non è peccato, la vostra miseria, piuttosto, è peccato”. Si sente, qui, un po’ di vento. Facile per la gente ascoltare – e magari, lo stesso, farsi comunista.
Nel lungo perenne chiacchiericcio clerical/mondano – preti in televisione, preti alle feste, preti ai dibattiti: preti dappertutto, preti poco in chiesa – la predica, come la messa di Moretti, era (è) finita. Né bella esteticamente, né particolarmente interessante nei contenuti. Né profeti, né padri; né convinti, né convincenti: quasi piuttosto petulanti vicini, zie noiose, omaggio non alla Parola ma alle proprie consuetudini (speriamo non ci faccia fare tardi per il pranzo). Fedeli sempre meno fedeli – stremati dalla metallica precettistica morale: insensata a volte, che arriva spesso alle orecchie con suono vuoto, falso, “bronzo che risuona e cimbalo che tinnisce” (san Paolo) – i preti, soprattutto, sempre più incerti e sempre meno persuasi. Impronte di servi di Dio – dove Dio si fa ombra dentro l’uggia. Ora Francesco ha preso il microfono, lasciato il Palazzo, la tonaca e nessun altro orpello. Fiuta il vento, come san Bernardino con le bandierine – prova a far volare nell’aria la sua voce. Sperando che il vento sappia in che direzione soffiare. Stanislaw J. Lec, col solito geniale aforisma, prevedeva, sul rischio di banalità e irrilevanza proprio quando più grande è ciò che è in gioco: “In principio era il Verbo – e alla fine le chiacchiere”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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