ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 28 maggio 2015

Combattere il maligno

Il simbolico e il diabolico: il cammino della libertà nel tempo di Sauron

Roma, 27 mag – Se dicessi che il nostro compito epocale è quello di combattere il maligno perché ci troviamo immersi in una operazione diabolica contro l’uomo e la natura, credo che dopo poco avrei sulla porta di casa o un paio di infermieri per un ricovero coatto o un emissario di padre Amorth per un mirato esorcismo.
Eppure, se ci spostiamo dalla concretezza linguistica ed entriamo in una dimensione simbolica, quello che sembra un discorso deviato assume un significato e delle connotazioni molto più comprensibili e condivisibili. Il simbolo è quell’elemento linguistico la cui origine etimologica è “mettere insieme”, “aggregare”, “unire”.
Come dispositivo elementare esprime in sé un contenuto della coscienza che diventa universale. Da ciò deriva il concetto di simbolico, di qualcosa che promuove la convergenza degli opposti o, quanto meno, di altri elementi di per sé diversi.
Se il simbolico è ciò che unisce, l’etimologia di diabolico è “ciò che divide”, che “separa”, che “mette in contrasto”, che “predispone al conflitto”. A questo punto, carichiamo di valenza simbolica il concetto di legame, e scopriamo come l’epoca in cui viviamo è il tempo della liquidazione, dell’indifferenziazione, della demitizzazione e della scomunica di qualsivoglia rito, sacro o profano che sia.
Per i credenti il legame tra il popolo e Dio era dato dal sacerdote che creava un ponte dal basso verso l’alto. Con la riforma della logistica della chiesa, il prete volge le spalle a Dio e lo trascina verso il piano dei fedeli oltre l’altare. Per i genitori, la madre era la funzione del mondo amniotico, materiale, di vita accudita, mentre il padre era il simbolo della Legge, della prescrizione e dell’attrito che porta all’autonomia. Il legame tra i due portava il figlio a diventare uomo. Ora, i genitori A e B rappresentano degli enti con funzioni distorte e annacquate, membri di un gruppo contrattuale di concepimento anche incerto e gestione aziendale.
La coppia veniva determinata da un legame sacralizzato – e non in senso esclusivamente confessionale – con la complice condivisione di un destino e di un retaggio. Attualmente essa si costituisce attraverso un progetto modificabile in corso d’opera con la possibilità di rescissione del contratto in caso di non soddisfazione reciproca degli utili.
Sul lavoro esisteva un sistema gerarchico che, nel bene e nel male, veniva a costituire una squadra o – in termini di esterofilia linguistica – un’equipe che si consolidava nel tempo dal punto di vista professionale e amicale, un legame in un processo condiviso. Le riforme hanno orizzontalizzato ogni ruolo, hanno conflittualizzato ogni rapporto ed hanno reso flessibile e precaria ogni relazione.
Il medico di famiglia era il fiduciario dei segreti sanitari e affettivi, con una conoscenza transgenerazionale dei singoli membri, in una attività tra il confidente e il confessore che andava dalla vita alla morte. Adesso è stato derubricato a contratto tra prestatore d’opera e usufruitore di servizi.
Esempi se ne potrebbero trovare a bizzeffe, con una linea comune di disintegrazione: la scomunica di tutto ciò che è simbolo di trascendenza e l’esaltazione di tutto ciò che è diabolico materialismo egoistico.
L’apoteosi di questa deriva è l’annullamento delle differenze di genere. A prescindere dall’assurdità di trovare distingui sessuali oltre ai due previsti dalla natura, la cosa che sfugge ai derelitti dell’antiglobalismo di facciata è che questa operazione è la tattica più insidiosa e devastante del capitalismo cosmopolita.
Il becerume progressista non ha capito – zucche vuote ed eterodirette – che lo sradicamento delle stesse leggi di natura è all’interno di un preciso progetto mercantile. Come il nomadismo è la rappresentazione del mercante senza radici, se non fugaci domicili nei luoghi di interesse, così l’indifferenziazione è la pratica dell’egoismo fluttuante e della sottomissione cosmopolita.
Se non ho una precisa identità di chi sono, sono tutto, quindi niente. Mentre James Hillmanrivendicava la “ciascunità” di ogni psiche, il discorso del capitalista punta a quella che Alain de Benoist definisce “medesimità” di ogni anima. È la palude, che tutto fa rassomigliare e tutto ingloba. È il tempo di Sauron, che tutto inquina. Della notte di Hegel, in cui tutte le vacche sono nere.
Da ciò la necessità di essere rivoluzione: padroni di sé e del proprio destino, decisori e non oggetti di decisione. Liberi, sapendo che – come avvertiva il grande Jünger – la libertà è un rischio, e chi spera di averla gratis dimostra di non meritarla.
Adriano Segatori
http://www.ilprimatonazionale.it/cultura/simbolico-e-diabolico-liberta-sauron-24197/
Dove vogliono arrivare i cattolici come don Iginio Rogger?


Il mondo cattolico, che, visto e giudicato dall’esterno, può apparire, al profano, come una specie di bastione monolitico e anacronistico, forse, ma dotato dell’ormai raro vantaggio della saldezza e della coesione interna, è ed è sempre stato, in realtà, attraversato da profonde divisioni, dovute non solo e non tanto alla diversità dei temperamenti e delle sensibilità, quanto alla diversità nel modo di intendere il significato complessivo del cristianesimo stesso e perfino dell’esperienza religiosa in quanto tale.

Quello che ha reso sempre più ampio il divario fra tali modi è stato l’impatto della modernità, la quale, così come ha operato drammatiche lacerazioni in tutti i campi della vita civile e della cultura, così ha portato in luce un contrasto, potenzialmente insanabile, fra quanti ritengono che il cristianesimo debba “aprirsi” al mondo moderno, facendo proprie le sue categorie, e quanti ritengono che esso debba, sì, dialogare con il mondo, ma senza mai identificarsi con esso, senza mai perdere di vista la propria dimensione spirituale, che è eterna, perché soprannaturale.
I primi, eredi della svolta illuminista, puntano sul “progresso” e criticano sistematicamente la tradizione, vedendo in essa un fattore di ritardo, di arretratezza, di chiusura; i secondi ritengono che il progresso non sia una categoria assoluta, metafisica, ma storica, e che, come ha avuto un inizio, avrà anche una fine, a somiglianza di tante altre mode, correnti e tendenze della cultura occidentale: pertanto non concordano sull’abbandono sdegnoso della tradizione e sull’accoglienza entusiasta e incondizionata al nuovo, intenso come sinonimo di “giusto” e “buono”.
Le tendenze cattoliche “progressiste” hanno acquistato forza tra gli ultimi anni del XIX e i primi anni del XX secolo, coagulandosi nel modernismo, che, condannato da Pio X, è risorto, per mille rivolti, a volte sotterranei, a volte palesi, nel corso dei decenni successivi, e che si è preso una sorta di rivincita “ufficiale” dopo il Concilio Vaticano II: non, si badi, “con” il Concilio, ma “dopo” il Concilio, forzandone alcune risoluzioni e avvantaggiandosi del supporto, sia interno che esterno al mondo cattolico, dei mezzi d’informazione di massa, interessati ad accreditare tali forzature come la sola e legittima interpretazione delle deliberazioni conciliari.
In linea teorica, le differenze non dovrebbero mai essere tali da compromettere l’unità, perché il cristianesimo non si pone come una ideologia fra le tante, ad esempio come il liberalismo o il socialismo, nelle quali è fisiologico che si formino delle differenze interpretative, destinate ad accentuarsi sempre di più; il cristianesimo si pone come la prosecuzione della Buona Novella annunciata da Gesù e tramandata dagli autori del Nuovo Testamento, il cui nucleo essenziale, per dirla con San Paolo, è la carità: e, dove esiste la carità, l’orgoglio individuale viene messo a tacere per poter ascoltare l’unica voce legittima, quella del Vangelo medesimo.
In pratica, succede che un certo numero di fedeli, di sacerdoti, di vescovi, di teologi e altri studiosi, accecati appunto dall’orgoglio individuale, invece di fare silenzio in se stessi e di raccogliersi in ascolto della Parola divina, si pongono come i “legittimi” interpreti della Verità, anatemizzando o, semplicemente, criticando e deridendo i loro compagni di fede che la pensano diversamente da loro, e cercano in ogni modo di spingere la Chiesa lungo i sentieri che essi ritengono giusti, incuranti dell’altrui sensibilità ferita e smaniosi di apparire, all’esterno come all’interno, “aggiornati”, “moderni”, “al passo coi tempi”.
Fra questi personaggi, che non cessano di seminare turbamento e confusione col mostrarsi sprezzanti verso la tradizione, un posto importante spetta sicuramente a don Iginio Rogger, sacerdote e storico della Chiesa, personaggio influente nella diocesi di Trento e capofila degli “innovatori” all’epoca del Concilio Vaticano II. Era un progressista entusiasta e un implacabile avversario del “vecchio”. Fu lui, a quanto si dice, a condurre la campagna “iconoclasta” che, dopo il Vaticano II, portò alla rimozione di innumerevoli altari antichi con le relative balaustre, in ossequio alle nuove norme liturgiche stabilenti che la messa doveva essere celebrata dal sacerdote rivolto verso i fedeli. Sul suo peso specifico all’interno della diocesi trentina non ci sono dubbi. Allorché sul giornale «Op» di Mino Pecorelli, nel 1978, vennero pubblicati i nomi di 121 prelati appartenenti alla Massoneria, quello di padre Rogger era fra essi; e, poco dopo, il suo più stretto collaboratore ammise pubblicamente di essere stato massone (notizia riportata dal quotidiano online «Libertà e persona»).
Fra le altre cose, Rogger ha smantellato, con i suoi studi, la tradizione relativa a San Simonino, il bambino che nel 1475 sarebbe stato rapito e ucciso dagli Ebrei di Trento, per celebrare la Pasqua ebraica con un sacrificio umano – il suo sangue doveva essere impastato nel pane azzimo -, di modo che, nel 1965, l’arcivescovo Alessandro Maria Gottardi ha deciso di abolire il culto del piccolo martire e di sopprimere la tradizionale processione rituale per le vie della città.
Tale decisione è stata salutata come un importante passo avanti nel processo di riconciliazione fra cattolicesimo ed ebraismo, tanto è vero che allora, e solo allora, gli Ebrei hanno ritirato il “cherem”, o interdetto-maledizione, lanciato contro la città di Trento quasi cinque secoli prima, in seguito al processo conclusosi con la condanna a morte e l’esecuzione di quindici ebrei come responsabili dell’uccisione del piccolo Simone. E questo in un momento in cui non poco peso hanno avuto anche le complesse e delicate vicende dei rapporti fra comunità italiane e tedesche in Trentino-Alto Adige, visto che nel 1964, con la bolla di Paolo VI «Quo aptius christiani», l’arcivescovo di Trento “cedeva” al vescovo di Bolzano-Bressanone alcuni territori del Sud Tirolo (fra cui la stessa Bolzano) facenti storicamente parte, da sempre, della sua diocesi.
In realtà, che il processo del 1475 sia stato un grave errore giudiziario e che, di conseguenza, il piccolo Simone sia stato a torto inserito, come santo, nel Martirologio romano (nel 1588, sotto il pontificato di Gregorio XIII), è questione che la cultura oggi dominante considera definitivamente chiusa e risolta, ma che, negli studiosi onesti e imparziali, lascia ancora qualche margine di dubbio, se è vero, come vero, che perfino uno storico ebreo, Ariel Toaff, figlio del rabbino capo della comunità di Roma, pur affermando che non esistono prove della colpevolezza degli Ebrei di Trento circa la morte di Simonino, non esclude che qualche singolo individuo o gruppo delle comunità giudaiche medievali, possa effettivamente aver commesso degli omicidi rituali a danno di cristiani, nel corso di riti pasquali segreti.
Nel suo libro «Pasque di sangue», del 2008 (la prima edizione, del 2007, è stata ritirata pochi giorni dopo l’uscita, a richiesta dell’autore stesso, per l’enorme scandalo provocato), Ariel Toaff sostiene, in particolare, che è errato squalificare “in toto” la validità dei documenti processuali del 1475, mostrando anzi, con argomenti di carattere filologico, come gli imputati, messi sotto tortura, si siano lasciati sfuggire formule di maledizione anticristiana che erano note, appunto, negli ambienti giudici più fanatici ed estremisti, fortemente intolleranti (gli stessi ambienti, ad esempio, che scaglieranno la maledizione rituale contro il filosofo Baruch Spinoza).
Sta di fatto che i fedeli di Trento erano molto affezionati al culto di San Simonino e alla relativa processione rituale (celebrata il 24 marzo), tanto che, nel 2007, si è formato un Comitato San Simonino, avente lo scopo di ripristinare il  culto del santo e di restituire le reliquie, occultate nel 1965. Così come erano molto devoti al culto di San Vigilio, il vescovo-martire della loro città che, verso il 406, fu martirizzato dai pagani per aver cercato di convertire i pagani della Val Rendena, gettando nelle acque del fiume Sarca una statua di Saturno (il corpo del santo fu poi portato a Trento e tumulato nel duomo cittadino). Ma anche in questo caso il buon Iginio Rogger si è dato da fare per sfatare le “leggende” e ha sostenuto che il martirio di San Vigilio non era storicamente documentato, dunque non poteva essere affermato con certezza.
Oltre a questa attività di storico “progressista”, tutto inteso a demolire tradizioni da lui ritenute obsolete o inaccettabili, Rogger ha anche preso posizione contro la messa in latino, nel 2012, usando parole sprezzanti verso il sacerdote che la celebra e verso i fedeli che vi partecipano: l’ha definita una cosa che gli fa «orrore», nonché «un hobby per quindici settari»; il che la dice lunga sul suo grado di tolleranza e di carità verso il prossimo e sul suo spessore umano e spirituale. Eppure, non solo di questo si tratta: la messa in latino non è una espressione liturgica deviante, essa è perfettamente lecita e ortodossa, riconosciuta come tale da papa Benedetto XVI con la lettera apostolica «Summorum Pontificum» del 7 luglio 2007; dunque, chi la critica e la disprezza è, semplicemente, fuori dell’ortodossia cattolica. E allora, dove vogliono arrivare i “cattolici” come don Rogger? L’onestà intellettuale vorrebbe che si facesse una scelta di campo coerente con l’istituzione che si serve e con la fede che si professa, per cui ci domandiamo: è intellettualmente onesto sparare a zero contro la tradizione di cui si fa parte, accogliendo compiaciuti gli applausi del mondo “moderno” e, beninteso, “progressista”?
Alcuni pensano che l’acredine di cui Rogger fa mostra, quando parla dei cattolici “tradizionalisti” – in una pubblica intervista, ad esempio, ha affermato di “non capire” papa Benedetto XVI – derivi da motivi personali, non avendo ottenuto la desiderata nomina a vescovo; sia come sia, resta la domanda: fino a che punto è lecito scagliarsi contro la propria parte, fino a che punto la critica è leale e costruttiva, e quando, invece, si configura come una subdola forma di sovvertimento strisciante, come un modo per scalzare lentamente, ma implacabilmente, dall’interno, le basi dell’edificio cui si appartiene? Fino a che punto è accettabile che qualcuno si arroghi il diritto di seminare confusione e dare scandalo a quei “piccoli” e a quegli “umili di cuore” di cui parlava sempre Gesù nel corso della sua vita pubblica, contrapponendoli ai “sapienti” e agli “intelligenti”, gonfi di superbia intellettuale e, perciò, inariditi e chiusi all’accoglienza della parola evangelica (Matteo, 11, 25)?
La cosa, per la religione cristiana, è molto più delicata che per una qualsiasi ideologia profana. Essa fonda le sue basi sulla roccia della Rivelazione: così ritengono i credenti, così insegnano loro i due pilastri della Scrittura e della Tradizione (con la “t” maiuscola, perché, appunto, anch’’essa, come l’altra, di origine soprannaturale). Non dà o non dovrebbe dare “scandalo”, nel senso proprio del termine, la differenza e perfino la divisione, nell’ambito di una ideologia profana; ma dà scandalo, e scandalo grave, la differenza spinta fino al disprezzo e all’aggressività intellettuale, da parte di persone che, per l’ufficio che ricoprono e per l’autorità o il prestigio di cui godono, dovrebbero costituire dei punti di riferimento per tutti i fedeli, e non solo per una parte di essi, e mostrare sempre equilibrio, prudenza, moderazione, umiltà.
Ascoltando le prediche di certi preti, osservando il loro modo di fare, leggendo certi articoli di certe riviste che si definiscono cattoliche, si rimane sconcertati nel vedere fino a che punto essi generino divisione, sconcerto, contrapposizione. I cattolici che si autodefiniscono progressisti e che si sono attribuiti il compito di traghettare (o trascinare) la Chiesa verso le “magnifiche sorti e progressive” della modernità, non di rado parlando e agendo come esponenti politici più che come membri di una comunità spirituale, o per dire meglio di un corpo mistico, di fatto, al di là delle loro intenzioni, agiscono come agirebbe un nemico e non un amico: invece di unire, dividono; invece di comprendere, giudicano; invece di perdonare, condannano; invece di ascoltare, trinciano sentenze; invece di accogliere devotamente e rispettosamente le indicazioni del Pastore, fanno di tutto per strumentalizzarle nel senso da essi desiderato.
Inoltre essi mostrano comprensione, tolleranza, simpatia, nei confronti di tutti, ma proprio di tutti, anche verso i nemici del cristianesimo; verso una sola categoria di esseri umani non mostrano alcuna comprensione, alcuna simpatia, alcuna disponibilità alla collaborazione ed, eventualmente, alla correzione fraterna: quella dei loro correligionari che essi giudicano sorpassati, conservatori, o, peggio che peggio, addirittura “reazionari”. Per quelli non mostrano alcuna tolleranza; per quelli, e solamente per quelli, usano le espressioni più sprezzanti, le più velenose, le più totalmente prive di carità.

Resta perciò – inquietante - la domanda: dove vogliono arrivare i cattolici come don Iginio Rogger?

di Francesco Lamendola - 27/05/2015

Fonte: Arianna editrice 

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