ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 11 maggio 2015

Indifferente acquiescenza

Quale accoglienza?

Non è per portare altra acqua al fiume di retorica sterile che, in un senso o nell’altro, sommerge le testate giornalistiche e televisive. È semplicemente per fare uso – se ancora ci è permesso – del prezioso dono del raziocinio, che distingue la nostra specie da qualsiasi altra. È un tentativo mosso dalla speranza che, ridestandoci dal torpore morale e intellettuale dell’homo technologicus, possiamo ricuperare la capacità di guardare in faccia la realtà e, di fronte a quanto sta accadendo, trovare con l’aiuto di Dio un modo realistico per reagire.
Un’indifferente acquiescenza, per quanto sembri conveniente ai pigri, prima o poi presenta il conto: sa di inverosimile, ma hanno scoperto con ben cinque anni di ritardo che una cellula di terroristi islamici aveva progettato un attentato al Papa. Ma quanti imam, sempre sul nostro suolo natìo, incitano alla conquista delle terre infedeli tessendo fitte reti di contatti fra loro e con gli eserciti dei tagliagole?
Non è certamente non dico cristiano, ma nemmeno umano ignorare le migliaia e migliaia di morti annegati nel Mediterraneo… ma siamo sicuri che, all’origine di questa invasione indifferenziata che sta conoscendo un’accelerazione impressionante, ci sia soltanto il bisogno o la fuga da zone di guerra? Come mai, con i mezzi di cui disponiamo, nessuno interviene per stroncare il traffico di esseri umani e impedire le partenze? Ancora più a monte, chi è che continua ad alimentare conflitti spaventosi e a creare miseria in Paesi ricchissimi di risorse, la cui popolazione se le vede portare via sotto il naso senza alcun beneficio per sé, a parte classi dirigenti scandalosamente avide e corrotte? In questi giorni, un personaggio dell’autorevolezza del cardinale Njue, Arcivescovo di Nairobi, ha opportunamente osservato che bisognerebbe adoperarsi per creare lavoro in Africa – sempre che i giovani africani non si lasciassero incantare dalle sirene occidentali…
Se è vero che l’economia europea non può assorbire masse sterminate di immigrati, è altrettanto vero, d’altro canto, che l’emigrazione è un male per gli stessi Paesi di origine. Per fare giusto un esempio, in Etiopia sono rimasti quasi soltanto anziani, donne e bambini, visto che gli uomini stanno tutti scappando: è forse la premessa di un prospero futuro? Se poi – come è ormai d’obbligo in questo argomento – ci si appella all’emigrazione italiana per giustificare le migrazioni di massa, è arduo comprendere come se ne possa andar fieri, visto che le successive ondate migratorie sono risultate da eventi esiziali come le invasioni napoleoniche, l’unificazione forzata con la conseguente imposizione di tasse inique per evitare l’imminente bancarotta, due guerre mondiali e, attualmente, un regime politico che vive di sperperi e corruzione scandalosi, spingendo i migliori cervelli a tentare la fortuna altrove. Si potrà mai calcolare quanto si è impoverito il nostro Paese?
C’è pure, com’è noto, chi esalta per principio la fusione di popoli e civiltà diversi: interculturamulticulturalità,multietnicitàmeticciato culturale… tutti questi curiosi neologismi sono diventati parole d’ordine in certi ambienti politici (e – ahimé – anche ecclesiali). Non è questione di avere un pensiero di destra o di sinistra: è questione di avereun pensiero. Un essere umano che sia ragionevole non solo per natura, ma anche per effettivo esercizio delle proprie facoltà, non può sognare la fine della propria identità culturale in un indistinto melting pot: la comunicazione fra culture differenti – che ben condotta può rivelarsi un bene – suppone necessariamente, come qualsiasi relazione, un incontro tra soggetti distinti e definiti. In ogni caso, è impossibile annullare la propria storia e le proprie radici; non se ne vede d’altronde né il motivo né il vantaggio, né per chi viene né per chi riceve.
Per quanto possa essere faticoso, comunque, un immigrato finisce di solito con l’assimilarsi alla cultura del Paese che lo accoglie, conservando magari alcuni tratti caratteristici e opportuni spazi di ritrovo e di studio onde mantenere una certa coesione sociale e un legame con le proprie origini. Se trasferirsi in Francia comporta un’assimilazione immediata, per cui già dalla prima generazione nata in loco un italiano non si riconosce più se non dal cognome, in altri Paesi (come Belgio, Germania, Australia, Canada, Argentina, Stati Uniti…) gli Italiani hanno generalmente mantenuto un senso di identità più forte – per quanto siano bersaglio, talvolta, di caricatura e di disprezzo. Molti soffrono tuttavia di un complesso d’inferiorità, se non di una certa scissione interiore: con connazionali e familiari rimangono italiani; con amici, colleghi e istituzioni appaiono integrati… In certi casi, l’uso della lingua-madre va completamente perduto, al punto che nipoti e pronipoti, venendo in vacanza in Italia, non sanno spiccicare se non pizza e maccheroni
L’esperienza dei nostri emigranti, dunque, anziché servire da specioso pretesto ideologico per zittire gli obiettori, dovrebbe aiutare a comprendere i risvolti dolorosi delle storie di abbandono forzoso della propria terra e spingere a studiare soluzioni diverse. Se è vero che la Provvidenza guida la storia, anche la situazione attuale può nascondere una ragione positiva; ma era pur sempre la medesima Provvidenza che, nei secoli passati, aveva disposto che i Paesi europei dominassero (tolte le Americhe, poi “liberatesi” con rivoluzioni massoniche tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo) gli altri quattro continenti, che grazie al colonialismo avevano fruito di una fioritura senza precedenti dell’evangelizzazione e di rapidissimi progressi in campo sociale, culturale e tecnologico (compresi Cina e Giappone, i quali, pur formalmente indipendenti e culle di antiche civiltà raffinatissime, erano usciti da un immobilismo feudale solo con l’imporsi dell’egemonia commerciale dell’Occidente). Non c’è paragone tra lo sfruttamento dell’epoca coloniale e le atrocità senza nome che si commettono oggi nei Paesi “in via di sviluppo”, per mano di bande e milizie sanguinarie, per il controllo delle loro immense risorse naturali.
Un’apologia dell’ordine mondiale dissoltosi ormai sessant’anni fa? A sostegno di questo tipo di rilettura, ci soccorre la visione di un uomo di Dio vissuto nelle colonie francesi nel più puro spirito evangelico, il beato Charles de Foucauld: «Senza dubbio, chiunque abbia letto il catechismo e sappia che si deve amare il prossimo come sé stessi, sa quali sono i doveri di un popolo verso le sue colonie […]. Da una parte, gli infedeli sono quasi tutti sottomessi ai cristiani; dall’altra, la rapidità delle comunicazioni e l’esplorazione del mondo intero permettono di accedere a tutti con relativa facilità. Da questi due fatti deriva un dovere che obbliga strettamente, soprattutto per i popoli che hanno colonie: quello di cristianizzare […]. Se noi siamo ciò che dobbiamo essere, se civilizziamo invece di sfruttare, l’Algeria, la Tunisia, il Marocco saranno, tra cinquant’anni, un prolungamento della Francia. Se noi non compiamo il nostro dovere, se sfruttiamo anziché civilizzare, perderemo tutto, e l’unione di questo popolo, da noi realizzata, si ritorcerà contro di noi» (Epistolario, 22 novembre 1907; 1° giugno 1908; 1° febbraio 1912).
Queste parole non soltanto si rivelano tragicamente profetiche, ma possono pure fornirci, con un’opportuna trasposizione, una chiave per intuire il piano divino per la nostra epoca: visto che il senso di marcia si è invertito e i colonizzati di un tempo vengono da noi – mentre i missionariad gentes si guardano bene dal fare proselitismo nelle loro terre di origine – tanto più abbiamo l’obbligo di evangelizzarli. Inoltre, visto che è il nostro stesso sistema economico che li spinge a emigrare, dobbiamo di nuovo cristianizzare la nostra società. Se questi due compiti sembrassero impossibili a qualcuno, ascoltiamo ancora quanto il Beato scriveva un secolo fa, ma potrebbe benissimo scrivere oggi: «Quali che siano gli infedeli, non sono più difficili da convertire dei Romani e dei barbari dei primi secoli del cristianesimo; per quanto contrario alla Chiesa possa essere il governo del loro Paese, non lo è più di Nerone» (Diario, 1908). Sguardo e audacia dei Santi…
Don Giorgio Ghio
Sacerdote, nato a Roma il 12 luglio 1964, attivo in Sabina.

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