Giovanni Papini e Domenico Giuliotti. Storia di un’amicizia e di una conversione, quando gli uomini erano Uomini e la chiesa era Chiesa
… trovò suggello in Cristo un’amicizia cresciuta sotto il segno di quanto Giuliotti enunciava sul primo numero della “Torre”: “Perciò la nostra fede è un inginocchiatoio e un coltello. La tolleranza è indifferenza: chi crede vuole che gli altri credano. Noi siamo intolleranti”. E solo le bell’anime della misericordia mondana che non hanno letto un rigo di Jacopone da Todi o Bernardo di Chiaravalle, tra gli autori più amati dalla dolce belva grevigiana, se ne possono adontare.
di Alessandro Gnocchi
.
Fosse nato un secolo più tardi, oggi Giovanni Papini sarebbe uno splendido trentenne allo zenit del suo fulgore anticristiano e anticlericale. Un po’ filosofo come Scalfari ma con più genio, un po’ affabulatore come Dario Fo ma con più charme, un po’ matematico come Odifreddi ma con più rigore, un po’ sacrilego come Oliviero Toscani ma con più invenzione, un po’ tignoso come Augias ma con più tenacia, un po’ materialista come Veronesi ma con più metodo… Un congegno anticristico di gran classe come ora non ce ne sono più e che la Chiesa delle nozze con i fichi secchi del mondo non saprebbe neppure maneggiare, popolata com’è di intellettuali abituati a cantare qualche ottava sotto.
Un Sacripante fuori proporzione per cattolici d’apparato con meno genio, meno charme, meno rigore, meno invenzione, meno tenacia, meno metodo di qualsiasi fedele medio di cent’anni fa.
Uno come lui, che cento anni fa si era accapigliato con intelletti capaci di rendergli una pariglia al vetriolo, oggi dietro l’angolo troverebbe appostato qualche ambasciatore della Chiesa della misericordia pronto a offrirgli uno scranno alla Cattedra dei non credenti o a consegnargli l’invito per qualche buffet in piedi al Cortile dei gentili. Uno che aveva dato alle stampe un’invettiva contro Benedetto XV da mandare a memoria per chiunque voglia imparare come l’intelligenza possa divenire abrasiva e urticante senza cadere in un rigo di turpiloquio, oggi rischierebbe di accomodarsi a Santa Marta per un’intervista da adagiare sulla prima pagina di Repubblica.
Ma, per il bene dell’anima sua e per il nutrimento di quella altrui, Giovanni Papini è nato nel 1881 anziché nel 1981. E ha avuto da misurarsi con vescovi che proibivano senza rimorsi mondani la lettura di certi suoi libelli e di certe sue riviste, come quando, nel 1913 si esibì su “Lacerba” in uno scandaloso pezzo intitolato “Gesù peccatore”. E poi con cattolici che adirono ad ardimentose vie intellettuali, quando, nel 1911, con “Le memorie d’Iddio” metteva sulla bocca del Padre Eterno proclami come questo: “Uomini: diventate atei tutti, fatevi atei subito! Dio stesso, il vostro Dio, Iddio vostro figlio, ve ne prega con tutta l’anima sua!”.
Un secolo fa, dietro l’angolo questo toscano trovò una Chiesa pronta a mostrargli di quale pasta ruvida sia fatta la vera misericordia, quella che porta in ginocchio davanti alla croce invece che ad amoreggiare con il mondo. La incontrò nella figura di un altro toscano, più vecchio di quattro anni, malsortito suo pari e forse più, che stava rincantucciato a Greve in Chianti e di nome faceva Domenico Giuliotti. Papini, nel ribaldo marzo fiorentino del 1913, sentenziava su “Lacerba” che “Tutto è nulla, nel mondo, tranne il genio. Le nazioni vadano in sfacelo ma crepino di dolore i popoli se ciò è necessario perché un uomo creatore viva e vinca. Le religioni, le morali, le leggi hanno la sola scusa nella fiacchezza e canaglieria degli uomini e nel loro desiderio di star più tranquilli e di conservare alla meglio i loro aggruppamenti. Ma c’è un piano superiore – dell’uomo solo, intelligente e spregiudicato − in cui tutto è permesso e tutto è legittimo. Che lo spirito almeno sia libero!”. E Giuliotti, lo stesso anno, nell’imbrunire del novembre grevigiano, su “La Torre” l’organo della reazione spirituale italiana fondato con Federigo Tozzi, gli mandava a dire che “La Religione è l’unico cemento che non screpola, collega fra loro tutte le pietre dell’edificio sociale: togliete la religione e procederete ciechi a quattro zampe, tra le macerie e gli sterpi. La Religione è il Cattolicesimo. A tutte le religioni e a tutte le filosofie, prima e dopo Cristo, parzialmente vere, dette di frego il Vangelo. Il Vangelo è il Tempio della assoluta Verità vivente. La Chiesa cattolica n’è la porta; l’insegnamento tradizionale cattolico il vestibolo. Questo Credo che bastò a Dante, anche a noi basta”. Uno inoculava nella cultura italica Nietzsche, Stirner, Darwin e madame Blavatsky, l’altro vi faceva circolare come antidoto Balzac, De Maistre, De Bonald e Barbey d’Aurvilly.
Continuarono così, a darsi la caccia come i duellanti di Ridley Scott e di Joseph Conrad, col tacito accordo di arrivare fino a quando uno avrebbe risparmiato l’ultimo colpo all’avversario sconfitto per abbracciarlo. Dopo i grilli giovanili, Giuliotti aveva trovato il suo posto nella Chiesa di Roma e da lì fulminava senza pietà tutto ciò che nel mondo moderno sapesse di anticristico: quasi tutto. Papini, passato lungo un periplo che lo portò ai lidi del darwinismo, del superomismo, del paganesimo, del futurismo, nel 1912 confessò in una celebre opera di sentirsi “Un uomo finito”. Ma la via per Damasco era ancora lunga e doveva giungere fino alla “Storia di Cristo”, scritta dopo la prima guerra mondiale e pubblicata nel 1921 da Vallecchi. Anni in cui lui e l’uomo salvatico di Greve in Chianti si annusavano, si rincorrevano, si azzannavano, fino a che, sul campo, cadde la canaglia che per decenni si era sentita viva solo sbeffeggiando Dio.
Dalla sua parte, Giuliotti aveva un di più fatto d’amore per il prossimo che prova solo chi abbracci Cristo prima di ogni altra cosa. Non erano le pose e l’argomentare blasfemi di Paini ad attrarlo, poiché non apparteneva alla schiatta dei pusillanimi che temono di chiamare la bestemmia con il suo nome e la trafugano come “nostalgia di Dio”. L’impronta divina che aveva riconosciuta nel giovane fiorentino era l’intelligenza, un marchio di fabbrica su cui chi se ne intende difficilmente può equivocare. Per questo si mise sulle sue tracce, lo braccò come fa il cacciatore con l’animale ferito, ma si guardò bene dal finirlo perché l’altro sapesse che, prima o poi, lo sarebbe venuto a prendere per portare la sua anima adorante davanti al Crocifisso. Così, su “La Torre”, nel 1913, parlando dei figlioletti di Nietzsche e Stirner scriveva: “Giovanni Papini, un bastardo di questa razza, ha scritto un libro che ha per titolo: L’altra metà, e per sottotitolo: Saggio mefistofelico. Lo avrebbe potuto intitolare Echi. Ad ogni modo è uno dei tanti libri che sono stupidi e pestiferi. Stupidi per coloro che hanno domandato e ricevuto dalla fede una risposta eterna; pestiferi per coloro che, morsicati dal dubbio, vacillano”.
Su “Lacerba”, Papini rispose in rima catalogando Giuliotti tra i cattolici belve: “Sono intransigenti – a discorsi – e aggressivi più che non comporti la loro fede. In generale sono antichi miscredenti che hanno inciampato in qualche sasso sulla via di Damasco e, come tutti i neofiti, si son buttati subito alle peggiori estremità. (…) Fanno i reazionari servendosi della libertà. Combattono l’oscenità col turpiloquio. Predicano l’amore con la bava dell’odio. Si riscaldano per Cristo chiedendo un po’ di sangue. Compensano la purezza della loro fede con l’impurità della loro vita. (…) Codesta genia vien dalla Francia. Ecco la dinastia: De Maistre, Hello, Barbey d’Aurevilly, Léon Bloy. Alcuni di codesti tipi hanno fegato e scrivono magnificamente. Ma vi sono in Italia, oggi, alcuni loro scimmiottini i quali scrivono male e se la pigliano coi francesi da cui discendono. Attualmente ne vivono due o tre esemplari nelle province toscane, a Siena, a Greve, all’Impruneta”.
Ma la certezza iconoclasta di Papini era ormai una corazza che cominciava a creparsi. Fuori, luccicava di articoli che si intitolavano “Morte ai morti”, “Gesù peccatore”, “Odiatevi gli uni con gli altri”. Dentro, nascondeva i tormenti dell’“uomo finito”, sfogo di una creatura stanca di aver collezionato solo amarezze. Se alzava lo sguardo verso il duellante di Greve, capiva che, quanto lui aveva assorbito drammaticamente dei veleni del secolo, l’altro aveva invece saputo vagliare e depurare.
In questa temperie, gli attacchi amorevoli di Giuliotti a mezzo stampa furono rafforzati da quelli epistolari. La prima lettera significativa porta la data del 3 maggio 1916. Papini aveva scritto un articolo su Léon Bloy per “Il Resto del Carlino” e la belva grevigiana lo aveva visto: “Caro Papini, (…) dimentico, per un momento, quel fetido, ignobilissimo e stupidissimo porcume de ‘Lacerba’ e il falso Papini. Ma Léon Bloy lo conosco anch’io; tanto lo conosco e lo amo, che vorrei fare dei suoi scritti una scelta per il Carabba. (…) Venga a trovarmi. Credo che meriti il conto d’essere sballottati per venti chilometri, quando, all’arrivo, sia ad aspettarci un UOMO”.
La risposta si fece attendere solo quattro giorni e recava un post scriptum da far intendere la resa sotto le spoglie dell’ennesima dichiarazione di guerra: “In quale visibile maniera, uomo cristiano, si manifesta la sua Fede? Bloy lavora, lavora e lavora – anche vecchio. E lei legge, rugge e sta zitto. Ha convertito qualcuno? Ha ricondotto un’anima a Dio. Ha fatto sentire, collo strumento dell’Arte, la verità terribile del Cattolicesimo e della Santità?”.
Nell’anima e nel cervello di Papini si agitava il bisogno di capire dove fosse il limite e se l’amico che si stava profilando fosse forte abbastanza da costringerlo a inginocchiarsi. Perciò, alle provocazioni diaboliche dell’intellettuale, cominciò a sostituire quelle sante del bambino. Si fece piccolo per accostarsi a Dio e saggiò la saldezza della stretta di mano di chi ce lo stava portando. Riconoscendo l’amore fraterno nell’assiduità tirannica con cui Giuliotti lo tallonava, in una lettera del 10 giugno 1919, gli scriveva: “Io non sono, come lei sa, un uomo di complimenti e mi crederà se io le dico, sinceramente e umilmente, che spesso le sue parole mi hanno fatto bene. Io sono – l’avrà indovinato – un religioso senza religione, un mistico senza Dio, cioè un disperato, un con-dannato. Un uomo di fede, di vera fede – che non sia uno sciocco né un mediocre – mi attira potentemente anche se non posso ripetere colla stessa fermezza le sue parole. Ma forse potremo, in seguito, morire colla identica speranza”.
Poco dopo, cominciò a scrivere la “Storia di Cristo” e alimentava le sue veglie con i “Fioretti” di San Francesco e “L’imitazione di Cristo”. Quando, il 10 ottobre dell’anno successivo lo avrà terminato, si affretterà a scrivere all’amico: “Ho grande speranza che ti piacerà – alcune parti, s’intende, più delle altre ma non c’è niente che possa offenderti. (…). E se in passato ho fatto del male a qualcuno spero di rimediare con questo e con altri libri che farò”.
Ma Giuliotti lo sapeva già. Qualche mese prima, al momento di licenziare “L’ora di Barabba”, aveva inserito una postilla alla “Lettera a Papini” che terminava così: “Oggi mi scrive da Venezia: ‘Vo tutte le mattine in San Marco. Stanotte la campana della basilica mi ha svegliato e m’è venuta sulle labbra, non so perché, improvvisamente, l’Ave Maria, che da tanti anni non dicevo più e che mi pareva di non poter ricordare fino in fondo’. È il primo atto della Grazia, è il richiamo irresistibilmente materno della Mater Salvatoris, della Virgo Potens. Domani Giovanni Papini dirà: Credo”.
Così, trovò suggello in Cristo un’amicizia cresciuta sotto il segno di quanto Giuliotti enunciava sul primo numero della “Torre”: “Perciò la nostra fede è un inginocchiatoio e un coltello. La tolleranza è indifferenza: chi crede vuole che gli altri credano. Noi siamo intolleranti”. E solo le bell’anime della misericordia mondana che non hanno letto un rigo di Jacopone da Todi o Bernardo di Chiaravalle, tra gli autori più amati dalla dolce belva grevigiana, se ne possono adontare. Non certo un uomo di intelletto e di fede gagliardi come Papini, che si provò a pescare fin sul fondo della bontà d’animo dell’amico senza mai arrivarci. “Ma quando riesco a recarmi nella sua casa di Greve” scrisse in un suo ritratto “dov’egli vive in onorata povertà e in mesta solitudine, e seggo presso di lui, nel suo studio ingombro di libri e di carte, vegliato dal ritratto della venerata sua madre e da quelli degli amici più amati, in quello studio un po’ angusto e un po’ buio, che dà sopra il povero orto provinciale, io sento, con tenerezza mista d’orgoglio, d’essere vicino a una delle più care anime ch’io abbia mai conosciuto, so d’essere accanto a uno dei più alti e forti scrittori del nostro tempo”.
Stavano ore a parlare, si rincorrevano per lettera e fu da quei lacci d’amicizia che nacquero il “Dizionario dell’omo salvatico” e poi “Umilissime scuse”, con cui misero a rumore i salotti buoni della laicità e del cattolicesimo ammodernante. Ma Papini trasse spunto anche per opere come la “Vita di Michelangelo” e il “Giudizio Universale”, nelle quali Giuliotti trovò eco delle sue visioni da poeta. Ciò che non evitò certe inquietudini nel grevigiano allorché l’amico mostrava di aggirare e soggettivare i principi del cattolicesimo e la tradizione dogmatica della Chiesa. Quando, nel 1953, Papini dette alle stampe “Il Diavolo”, Giuliotti lo lesse tutto d’un fiato rinchiuso nel suo studiolo, segnò quasi tutte le pagine di rosso e di blu, lo rinchiuse in una busta e lo rimandò all’autore. “Non ci vado io” disse “questa volta mi ci arrabbierei troppo”.
Nel 1950, per la serie degli “Incontri” che scriveva per il “Corriere della Sera”, Indro Montanelli dedicò un pezzo a Giuliotti. Ne fece, come spesso capita a chi non garba il genio altrui, un ritratto di foggia caricaturale per il quale lo scrittore di Greve fu tentato di querelarlo e Papini si fermò solo un attimo prima di farlo. Ma va riconosciuto che Montanelli intuì qualcosa di solido scrivendo che “nessuno conosce Giuliotti meglio di Papini, e nessuno – credo – lo invidia di più, ma Giuliotti non lo sa: crede anzi di essere lui a invidiare Papini. Forse il segreto della loro amicizia a rovescio è tutto lì”. Intuì qualcosa di solido, ma lo intuì al contrario, come fanno spesso coloro che si compiacciono di non credere in nulla quando parlano di chi ha fede. Ma lo schema aveva del buono e, a usarlo sul suo dritto, ne sarebbe uscito qualcosa che avrebbe suonato così: “Nessuno vuol bene a Giuliotti più di Papini, Giuliotti lo sa e vorrebbe essere lui a voler bene a Papini come nessun altro gliene vuole”. Ma, appunto, per farlo sarebbe servita una buona prontezza d’anima, oltre a che a una indiscutibile prontezza di spirito.
Una prontezza d’anima che avrebbe saputo cogliere il fiore più bello nato su un’amicizia durata dal principio degli Anni Venti fino al 1956, quando, a distanza di pochi mesi, prima Giuliotti e poi Papini resero l’anima al loro Creatore. Un fiore splendidamente cristiano nella sua natura paradossale, poiché parla di uno scrittore che vorrebbe più di ogni altra cosa togliere un suo libro dall’onor del mondo. Lo ha ricordato tempo fa la figlia di Papini per mostrare quanto fosse grande il pentimento per aver offeso il Creatore. “Viola” le disse “mi fido soltanto di te. Mi son fatto rendere da Vallecchi tutti i volumi delle ‘Memorie d’Iddio’: bruciali tutti, che non ne resti nemmeno una copia”.
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Fosse nato un secolo più tardi, oggi Giovanni Papini sarebbe uno splendido trentenne allo zenit del suo fulgore anticristiano e anticlericale. Un po’ filosofo come Scalfari ma con più genio, un po’ affabulatore come Dario Fo ma con più charme, un po’ matematico come Odifreddi ma con più rigore, un po’ sacrilego come Oliviero Toscani ma con più invenzione, un po’ tignoso come Augias ma con più tenacia, un po’ materialista come Veronesi ma con più metodo… Un congegno anticristico di gran classe come ora non ce ne sono più e che la Chiesa delle nozze con i fichi secchi del mondo non saprebbe neppure maneggiare, popolata com’è di intellettuali abituati a cantare qualche ottava sotto.
Un Sacripante fuori proporzione per cattolici d’apparato con meno genio, meno charme, meno rigore, meno invenzione, meno tenacia, meno metodo di qualsiasi fedele medio di cent’anni fa.
Uno come lui, che cento anni fa si era accapigliato con intelletti capaci di rendergli una pariglia al vetriolo, oggi dietro l’angolo troverebbe appostato qualche ambasciatore della Chiesa della misericordia pronto a offrirgli uno scranno alla Cattedra dei non credenti o a consegnargli l’invito per qualche buffet in piedi al Cortile dei gentili. Uno che aveva dato alle stampe un’invettiva contro Benedetto XV da mandare a memoria per chiunque voglia imparare come l’intelligenza possa divenire abrasiva e urticante senza cadere in un rigo di turpiloquio, oggi rischierebbe di accomodarsi a Santa Marta per un’intervista da adagiare sulla prima pagina di Repubblica.
Ma, per il bene dell’anima sua e per il nutrimento di quella altrui, Giovanni Papini è nato nel 1881 anziché nel 1981. E ha avuto da misurarsi con vescovi che proibivano senza rimorsi mondani la lettura di certi suoi libelli e di certe sue riviste, come quando, nel 1913 si esibì su “Lacerba” in uno scandaloso pezzo intitolato “Gesù peccatore”. E poi con cattolici che adirono ad ardimentose vie intellettuali, quando, nel 1911, con “Le memorie d’Iddio” metteva sulla bocca del Padre Eterno proclami come questo: “Uomini: diventate atei tutti, fatevi atei subito! Dio stesso, il vostro Dio, Iddio vostro figlio, ve ne prega con tutta l’anima sua!”.
Un secolo fa, dietro l’angolo questo toscano trovò una Chiesa pronta a mostrargli di quale pasta ruvida sia fatta la vera misericordia, quella che porta in ginocchio davanti alla croce invece che ad amoreggiare con il mondo. La incontrò nella figura di un altro toscano, più vecchio di quattro anni, malsortito suo pari e forse più, che stava rincantucciato a Greve in Chianti e di nome faceva Domenico Giuliotti. Papini, nel ribaldo marzo fiorentino del 1913, sentenziava su “Lacerba” che “Tutto è nulla, nel mondo, tranne il genio. Le nazioni vadano in sfacelo ma crepino di dolore i popoli se ciò è necessario perché un uomo creatore viva e vinca. Le religioni, le morali, le leggi hanno la sola scusa nella fiacchezza e canaglieria degli uomini e nel loro desiderio di star più tranquilli e di conservare alla meglio i loro aggruppamenti. Ma c’è un piano superiore – dell’uomo solo, intelligente e spregiudicato − in cui tutto è permesso e tutto è legittimo. Che lo spirito almeno sia libero!”. E Giuliotti, lo stesso anno, nell’imbrunire del novembre grevigiano, su “La Torre” l’organo della reazione spirituale italiana fondato con Federigo Tozzi, gli mandava a dire che “La Religione è l’unico cemento che non screpola, collega fra loro tutte le pietre dell’edificio sociale: togliete la religione e procederete ciechi a quattro zampe, tra le macerie e gli sterpi. La Religione è il Cattolicesimo. A tutte le religioni e a tutte le filosofie, prima e dopo Cristo, parzialmente vere, dette di frego il Vangelo. Il Vangelo è il Tempio della assoluta Verità vivente. La Chiesa cattolica n’è la porta; l’insegnamento tradizionale cattolico il vestibolo. Questo Credo che bastò a Dante, anche a noi basta”. Uno inoculava nella cultura italica Nietzsche, Stirner, Darwin e madame Blavatsky, l’altro vi faceva circolare come antidoto Balzac, De Maistre, De Bonald e Barbey d’Aurvilly.
Continuarono così, a darsi la caccia come i duellanti di Ridley Scott e di Joseph Conrad, col tacito accordo di arrivare fino a quando uno avrebbe risparmiato l’ultimo colpo all’avversario sconfitto per abbracciarlo. Dopo i grilli giovanili, Giuliotti aveva trovato il suo posto nella Chiesa di Roma e da lì fulminava senza pietà tutto ciò che nel mondo moderno sapesse di anticristico: quasi tutto. Papini, passato lungo un periplo che lo portò ai lidi del darwinismo, del superomismo, del paganesimo, del futurismo, nel 1912 confessò in una celebre opera di sentirsi “Un uomo finito”. Ma la via per Damasco era ancora lunga e doveva giungere fino alla “Storia di Cristo”, scritta dopo la prima guerra mondiale e pubblicata nel 1921 da Vallecchi. Anni in cui lui e l’uomo salvatico di Greve in Chianti si annusavano, si rincorrevano, si azzannavano, fino a che, sul campo, cadde la canaglia che per decenni si era sentita viva solo sbeffeggiando Dio.
Dalla sua parte, Giuliotti aveva un di più fatto d’amore per il prossimo che prova solo chi abbracci Cristo prima di ogni altra cosa. Non erano le pose e l’argomentare blasfemi di Paini ad attrarlo, poiché non apparteneva alla schiatta dei pusillanimi che temono di chiamare la bestemmia con il suo nome e la trafugano come “nostalgia di Dio”. L’impronta divina che aveva riconosciuta nel giovane fiorentino era l’intelligenza, un marchio di fabbrica su cui chi se ne intende difficilmente può equivocare. Per questo si mise sulle sue tracce, lo braccò come fa il cacciatore con l’animale ferito, ma si guardò bene dal finirlo perché l’altro sapesse che, prima o poi, lo sarebbe venuto a prendere per portare la sua anima adorante davanti al Crocifisso. Così, su “La Torre”, nel 1913, parlando dei figlioletti di Nietzsche e Stirner scriveva: “Giovanni Papini, un bastardo di questa razza, ha scritto un libro che ha per titolo: L’altra metà, e per sottotitolo: Saggio mefistofelico. Lo avrebbe potuto intitolare Echi. Ad ogni modo è uno dei tanti libri che sono stupidi e pestiferi. Stupidi per coloro che hanno domandato e ricevuto dalla fede una risposta eterna; pestiferi per coloro che, morsicati dal dubbio, vacillano”.
Su “Lacerba”, Papini rispose in rima catalogando Giuliotti tra i cattolici belve: “Sono intransigenti – a discorsi – e aggressivi più che non comporti la loro fede. In generale sono antichi miscredenti che hanno inciampato in qualche sasso sulla via di Damasco e, come tutti i neofiti, si son buttati subito alle peggiori estremità. (…) Fanno i reazionari servendosi della libertà. Combattono l’oscenità col turpiloquio. Predicano l’amore con la bava dell’odio. Si riscaldano per Cristo chiedendo un po’ di sangue. Compensano la purezza della loro fede con l’impurità della loro vita. (…) Codesta genia vien dalla Francia. Ecco la dinastia: De Maistre, Hello, Barbey d’Aurevilly, Léon Bloy. Alcuni di codesti tipi hanno fegato e scrivono magnificamente. Ma vi sono in Italia, oggi, alcuni loro scimmiottini i quali scrivono male e se la pigliano coi francesi da cui discendono. Attualmente ne vivono due o tre esemplari nelle province toscane, a Siena, a Greve, all’Impruneta”.
Ma la certezza iconoclasta di Papini era ormai una corazza che cominciava a creparsi. Fuori, luccicava di articoli che si intitolavano “Morte ai morti”, “Gesù peccatore”, “Odiatevi gli uni con gli altri”. Dentro, nascondeva i tormenti dell’“uomo finito”, sfogo di una creatura stanca di aver collezionato solo amarezze. Se alzava lo sguardo verso il duellante di Greve, capiva che, quanto lui aveva assorbito drammaticamente dei veleni del secolo, l’altro aveva invece saputo vagliare e depurare.
In questa temperie, gli attacchi amorevoli di Giuliotti a mezzo stampa furono rafforzati da quelli epistolari. La prima lettera significativa porta la data del 3 maggio 1916. Papini aveva scritto un articolo su Léon Bloy per “Il Resto del Carlino” e la belva grevigiana lo aveva visto: “Caro Papini, (…) dimentico, per un momento, quel fetido, ignobilissimo e stupidissimo porcume de ‘Lacerba’ e il falso Papini. Ma Léon Bloy lo conosco anch’io; tanto lo conosco e lo amo, che vorrei fare dei suoi scritti una scelta per il Carabba. (…) Venga a trovarmi. Credo che meriti il conto d’essere sballottati per venti chilometri, quando, all’arrivo, sia ad aspettarci un UOMO”.
La risposta si fece attendere solo quattro giorni e recava un post scriptum da far intendere la resa sotto le spoglie dell’ennesima dichiarazione di guerra: “In quale visibile maniera, uomo cristiano, si manifesta la sua Fede? Bloy lavora, lavora e lavora – anche vecchio. E lei legge, rugge e sta zitto. Ha convertito qualcuno? Ha ricondotto un’anima a Dio. Ha fatto sentire, collo strumento dell’Arte, la verità terribile del Cattolicesimo e della Santità?”.
Nell’anima e nel cervello di Papini si agitava il bisogno di capire dove fosse il limite e se l’amico che si stava profilando fosse forte abbastanza da costringerlo a inginocchiarsi. Perciò, alle provocazioni diaboliche dell’intellettuale, cominciò a sostituire quelle sante del bambino. Si fece piccolo per accostarsi a Dio e saggiò la saldezza della stretta di mano di chi ce lo stava portando. Riconoscendo l’amore fraterno nell’assiduità tirannica con cui Giuliotti lo tallonava, in una lettera del 10 giugno 1919, gli scriveva: “Io non sono, come lei sa, un uomo di complimenti e mi crederà se io le dico, sinceramente e umilmente, che spesso le sue parole mi hanno fatto bene. Io sono – l’avrà indovinato – un religioso senza religione, un mistico senza Dio, cioè un disperato, un con-dannato. Un uomo di fede, di vera fede – che non sia uno sciocco né un mediocre – mi attira potentemente anche se non posso ripetere colla stessa fermezza le sue parole. Ma forse potremo, in seguito, morire colla identica speranza”.
Poco dopo, cominciò a scrivere la “Storia di Cristo” e alimentava le sue veglie con i “Fioretti” di San Francesco e “L’imitazione di Cristo”. Quando, il 10 ottobre dell’anno successivo lo avrà terminato, si affretterà a scrivere all’amico: “Ho grande speranza che ti piacerà – alcune parti, s’intende, più delle altre ma non c’è niente che possa offenderti. (…). E se in passato ho fatto del male a qualcuno spero di rimediare con questo e con altri libri che farò”.
Ma Giuliotti lo sapeva già. Qualche mese prima, al momento di licenziare “L’ora di Barabba”, aveva inserito una postilla alla “Lettera a Papini” che terminava così: “Oggi mi scrive da Venezia: ‘Vo tutte le mattine in San Marco. Stanotte la campana della basilica mi ha svegliato e m’è venuta sulle labbra, non so perché, improvvisamente, l’Ave Maria, che da tanti anni non dicevo più e che mi pareva di non poter ricordare fino in fondo’. È il primo atto della Grazia, è il richiamo irresistibilmente materno della Mater Salvatoris, della Virgo Potens. Domani Giovanni Papini dirà: Credo”.
Così, trovò suggello in Cristo un’amicizia cresciuta sotto il segno di quanto Giuliotti enunciava sul primo numero della “Torre”: “Perciò la nostra fede è un inginocchiatoio e un coltello. La tolleranza è indifferenza: chi crede vuole che gli altri credano. Noi siamo intolleranti”. E solo le bell’anime della misericordia mondana che non hanno letto un rigo di Jacopone da Todi o Bernardo di Chiaravalle, tra gli autori più amati dalla dolce belva grevigiana, se ne possono adontare. Non certo un uomo di intelletto e di fede gagliardi come Papini, che si provò a pescare fin sul fondo della bontà d’animo dell’amico senza mai arrivarci. “Ma quando riesco a recarmi nella sua casa di Greve” scrisse in un suo ritratto “dov’egli vive in onorata povertà e in mesta solitudine, e seggo presso di lui, nel suo studio ingombro di libri e di carte, vegliato dal ritratto della venerata sua madre e da quelli degli amici più amati, in quello studio un po’ angusto e un po’ buio, che dà sopra il povero orto provinciale, io sento, con tenerezza mista d’orgoglio, d’essere vicino a una delle più care anime ch’io abbia mai conosciuto, so d’essere accanto a uno dei più alti e forti scrittori del nostro tempo”.
Stavano ore a parlare, si rincorrevano per lettera e fu da quei lacci d’amicizia che nacquero il “Dizionario dell’omo salvatico” e poi “Umilissime scuse”, con cui misero a rumore i salotti buoni della laicità e del cattolicesimo ammodernante. Ma Papini trasse spunto anche per opere come la “Vita di Michelangelo” e il “Giudizio Universale”, nelle quali Giuliotti trovò eco delle sue visioni da poeta. Ciò che non evitò certe inquietudini nel grevigiano allorché l’amico mostrava di aggirare e soggettivare i principi del cattolicesimo e la tradizione dogmatica della Chiesa. Quando, nel 1953, Papini dette alle stampe “Il Diavolo”, Giuliotti lo lesse tutto d’un fiato rinchiuso nel suo studiolo, segnò quasi tutte le pagine di rosso e di blu, lo rinchiuse in una busta e lo rimandò all’autore. “Non ci vado io” disse “questa volta mi ci arrabbierei troppo”.
Nel 1950, per la serie degli “Incontri” che scriveva per il “Corriere della Sera”, Indro Montanelli dedicò un pezzo a Giuliotti. Ne fece, come spesso capita a chi non garba il genio altrui, un ritratto di foggia caricaturale per il quale lo scrittore di Greve fu tentato di querelarlo e Papini si fermò solo un attimo prima di farlo. Ma va riconosciuto che Montanelli intuì qualcosa di solido scrivendo che “nessuno conosce Giuliotti meglio di Papini, e nessuno – credo – lo invidia di più, ma Giuliotti non lo sa: crede anzi di essere lui a invidiare Papini. Forse il segreto della loro amicizia a rovescio è tutto lì”. Intuì qualcosa di solido, ma lo intuì al contrario, come fanno spesso coloro che si compiacciono di non credere in nulla quando parlano di chi ha fede. Ma lo schema aveva del buono e, a usarlo sul suo dritto, ne sarebbe uscito qualcosa che avrebbe suonato così: “Nessuno vuol bene a Giuliotti più di Papini, Giuliotti lo sa e vorrebbe essere lui a voler bene a Papini come nessun altro gliene vuole”. Ma, appunto, per farlo sarebbe servita una buona prontezza d’anima, oltre a che a una indiscutibile prontezza di spirito.
Una prontezza d’anima che avrebbe saputo cogliere il fiore più bello nato su un’amicizia durata dal principio degli Anni Venti fino al 1956, quando, a distanza di pochi mesi, prima Giuliotti e poi Papini resero l’anima al loro Creatore. Un fiore splendidamente cristiano nella sua natura paradossale, poiché parla di uno scrittore che vorrebbe più di ogni altra cosa togliere un suo libro dall’onor del mondo. Lo ha ricordato tempo fa la figlia di Papini per mostrare quanto fosse grande il pentimento per aver offeso il Creatore. “Viola” le disse “mi fido soltanto di te. Mi son fatto rendere da Vallecchi tutti i volumi delle ‘Memorie d’Iddio’: bruciali tutti, che non ne resti nemmeno una copia”.
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