ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 6 settembre 2015

Lontano dalla retorica

Il patriarca siriano: "Bisogna fermare il conflitto alle radici, non fare discorsi sull'accoglienza"


Il patriarca della chiesa cattolica greco-melkita, Gregorio III Laham
Nella ridda di dichiarazioni, commenti, analisi sulla emergenza migratoria (analisi che spesso hanno il difetto non secondario di non distinguere tra migrante e profugo, concetto invece ben chiaro alla cancellieri tedesca Angela Merkel), fanno rumore le parole di un presule siriano, il patriarca cattolico greco-melkita, Gregorio III Laham.
Lontano dalla retorica, il patriarca ha consegnato al portale AsiaNews (del Pontificio Istituto Missioni Estere) una analisi lucida della reale portata del problema, prospettando anche quale sia – a suo giudizio – l’unico modo per evitare che tragedie come quella del “bambino curdo siriano morto sulle spiagge della città turca di Bodrum” si ripetano in futuro. L’obiettivo, dice, deve essere quello di “fare la pace, garantire la salvezza e il futuro del medio oriente”, così da poter dire “mai più la guerra”. Il problema è che la guerra c’è già, nel vicino e medio oriente dilaniato da lotte intestine con interessi stranieri nient’affatto irrilevanti. “Ai governi occidentali dico che il punto centrale non è accogliere e ospitare i profughi, ma fermare il conflitto alle radici. Tutti devono essere coinvolti, dall’occidente alle nazioni arabe, dalla Russia agli Stati Uniti. Questo è ciò che aspettiamo, la pace. Non parole sui migranti e discorsi sull’accoglienza”.

Il patriarca Gregorio III Laham ha scritto una lettera ai giovani cristiani siriani, iracheni e libanesi chiedendo loro di “fermare lo tsunami” migratorio, che comporterà lo svuotamento progressivo ma ineluttabile del paese della presenza cristiana. Riporta AsiaNews che dal 2011 a oggi almeno 450.000 cristiani siriani se ne sono andati. 450.000 su 1,7 milioni. In Iraq i cristiani sono meno di 300.000, dal milione che erano un decennio fa. Fermare l’esodo è impossibile, anche perché “i terroristi” puntano a distruggere la società civile dal basso: “Solo qui in Siria sono state distrutte almeno 20.000 scuole. E senza istruzione, questi bambini la cui infanzia è stata negata saranno i futuri terroristi, i nuovi membri del Daesh”. Quel che bisogna fare è “continuare a essere presenti nella regione, anche se il cristianesimo è un bersaglio, per proseguire l’opera di dialogo con i musulmani. Senza i cristiani ci sarebbe un vero e proprio shock di civiltà”.
di Matteo Matzuzzi | 06 Settembre 2015 


SIRIA 
Gregorio III Laham: Ai giovani del Medio oriente serve pace, chiave per il futuro 
Il patriarca melchita ricorda che per evitare tragedie come quella del piccolo Aylan è necessario fermare le guerre nella regione. Non servono politiche di accoglienza, ma pace e convivenza. Ai giovani cristiani conferma la vicinanza della Chiesa in patria e all’estero. Piccoli progetti di microcredito per aiutare le famiglie a ricostruire una vita. 
Damasco (AsiaNews) - “Tutto il mondo ha visto la foto del bambino curdo siriano” morto sulle spiagge della città turca di Bodrum, e “a questo proposito voglio lanciare un appello: per evitare simili tragedie il punto è fare la pace, garantire la salvezza e il futuro del Medio oriente”. È un appello accorato e lucido quello che il Patriarca melchita Gregorio III Laham consegna ad AsiaNews, mentre il mondo guarda ancora con dolore e commozione alla foto del piccolo Aylan, simbolo di questo terribile conflitto che da quattro anni insanguina il Paese. Ai governi occidentali e all’Europa, prosegue, “dico che il punto centrale non è accogliere e ospitare i profughi, ma è fermare il conflitto alle radici. Tutti devono essere coinvolti, dall’Occidente alle nazioni arabe, dalla Russia agli Stati Uniti. Questo è ciò che aspettiamo, la pace… Non parole sui migranti e discorsi sull’accoglienza. Mai più la guerra”.
In questi giorni il patriarca melchita di origini siriane ha inviato una lettera ai giovani cristiani, chiedendo loro di fermare lo “tsunami” dell’emigrazione, che rischia di svuotare il Paese della presenza cristiana. Una ondata migratoria che investe la Siria, come il Libano e l’Iraq e che la guerra e le violenze dei movimenti jihadisti - fra cui lo Stato islamico - hanno contribuito ad accelerare. 
Secondo le ultime informazioni, dal 2011 almeno 450mila degli 1,7 milioni di cristiani siriani hanno abbandonato le loro zone di origine. Ora vivono all’estero o sono considerati rifugiati interni al loro stesso Paese. Nel vicino Iraq la popolazione è scesa da un milione a meno di 300mila nell’ultimo decennio, e continua a scendere. 
Ad AsiaNews il patriarca melchita racconta di aver scritto la lettera per dire ai giovani siriani “che siamo interessati a loro, siamo interessati alla loro fede, alla loro vita, alla loro educazione, alle loro tradizioni e al loro futuro”. “Noi vogliamo che rimangano - aggiunge - e prenderci cura di loro, ma al tempo stesso vogliamo star loro vicino anche se decidono di andarsene. E fondare nuove parrocchie nei luoghi della diaspora, dove questi giovani trovano rifugio”. 
Gregorio III Laham parla di “pena spirituale e affetto” verso le nuove generazioni, il futuro della Chiesa perché “una Chiesa senza gioventù non è viva”. Egli chiarisce che “non vogliamo proibire loro di andare via, ma diciamo anche di avere pazienza e fiducia, e se partite noi vi siamo vicini”. 
I terroristi distruggono ogni germoglio della società civile, partendo dalle scuole e dagli istituti educativi. “Solo qui, in Siria - conferma il patriarca - sono state distrutte almeno 20mila scuole. E senza istruzione, questi bambini la cui infanzia è stata negata saranno i futuri terroristi, i nuovi membri di Daesh [acronimo arabo per lo Stato islamico]… Questo è il dramma più grande”. Per questo la sfida di noi cristiani, avverte, è quella di “continuare a essere presenti nella regione, anche se il cristianesimo è un bersaglio, per proseguire l’opera di dialogo con i musulmani. Senza i cristiani ci sarebbe un vero e proprio shock di civiltà”. 
Per garantire la vita e il futuro della comunità, la Chiesa siriana si è attivata per sostenere piccole iniziative con la modalità del microcredito. Vi sono a disposizione circa 50mila dollari, che vengono suddivisi in piccole somme a sostegno di progetti mirati. “Realizzare candele, preparare il cibo in casa, costruire un forno per la produzione di pane - conclude il patriarca melchita - sono alcune fra le varie proposte. E poi vogliamo aiutare le famiglie che tornano nei villaggi un tempo distrutti e ora in pace, dando loro almeno una stanza in cui ricominciare a vivere, riprendere a poco a poco il percorso dove era stato interrotto”. 
Dal marzo 2011, data di inizio degli scontri fra il governo Assad e una multiforme coalizione di oppositori, sono decedute 240.381 persone. Il 9 giugno scorso la conta era arrivata a 230.618. I bambini che hanno perso la vita sono stati 11.964, mentre i civili arrivano a 71.781. Un terzo del totale delle vittime erano soldati dell’esercito che combatte per Assad, ovvero 88.616 unità: di questi, 50.570 erano soldati regolari e il resto combattenti alleati. Gli sfollati, secondo i dati delle Nazioni Unite, sono circa 10 milioni. Almeno 4 milioni hanno scelto le nazioni confinanti – Turchia, Libano, Giordania e Iraq – mentre altri 150mila hanno chiesto asilo all’Unione Europea. Gli altri 6,5 milioni sono invece sfollati interni, persone che hanno dovuto abbandonare tutto ma hanno scelto di rimanere nel Paese.(DS) 

Se proteggi milioni di vittime devi avere poi il coraggio di combattere il loro nemico

Le frontiere o sono chiuse o sono aperte. O fai del tuo paese una fortezza, oppure apri le frontiere e governi l’emergenza. Se accogli, ti metti in gioco. Se proteggi milioni di vittime di un nemico dell’umanità, devi pur sempre amandolo combattere il tuo e il loro nemico
di Giuliano Ferrara | 06 Settembre 2015 
La Cancelliera Angela Merkel a colloquio con Papa Francesco nel febbraio di quest'anno (LaPresse)
Le frontiere o sono chiuse o sono aperte. O fai del tuo paese una fortezza, oppure apri le frontiere e governi l’emergenza. Se accogli, ti metti in gioco. Se proteggi milioni di vittime di un nemico dell’umanità, devi pur sempre amandolo combattere il tuo e il loro nemico - di Giuliano Ferrara

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I profughi dimenticati

Sono i profughi dell'Ucraina dell'Est. Il conflitto in atto ha costretto 2 milioni e mezzo di persone a spostarsi


Di profughi e di rifugiati sentiamo parlare tutti i giorni ormai. Affollano le nostre frontiere (di Europa), le nostre stazioni, i nostri giornali, le nostre televisioni, i nostri smartphone.
Conosciamo le loro rotte, le loro disperazioni, a volte un po' meno i loro drammi. Eppure alcuni di loro li abbiamo completamente dimenticati, o forse più semplicemente ignorati e relegati al silenzio. Sono i profughi dell'Ucraina orientale, in cui il conflitto in atto dall'aprile dello scorso anno ha costretto 2 milioni e mezzo di persone a spostarsi. L'ultimo report di Unhcr (14 agosto) riporta cifre da brivido: quasi un milione e mezzo di sfollati interni e 924mila persone che chiedono asilo o che cercano di formalizzare in altro modo il loro ingresso in altri Paesi. Per quanto questi numeri possano sembrare esorbitanti, si tratta comunque di statistiche al ribasso perché prendono in considerazione solo quelli che hanno seguito le procedure di registrazione del Ministero per le Politiche Sociali ucraino. Rimangono fuori in molti: quelli che hanno paura di registrarsi perché pensano di poter essere ricattati o perché hanno lasciato qualche parente nelle città occupate, quelli che si vergognano, o quelli che non ne hanno bisogno perché abbastanza benestanti o sufficientemente aiutati. La maggior parte degli sfollati che bussa alle porte di un Paese straniero lo fa in Russia (911mila) e Bielorussia (127mila), ma non per questioni ideologiche, quanto per necessità. Quando si viene sorpresi dai colpi di artiglieria pesante, non si sceglie da che parte scappare, si cerca di raggiungere la zona più sicura e più vicina, con tutte le tensioni che ne conseguono: filorussi che si ritrovano in territorio ucraino costretti ad accettare aiuto da personale che ritengono ostile, proucraini che trovano accoglienza nei campi profughi degli invasori e che spesso sono costretti a cambiare passaporto e nazionalità.
Quando invece la scelta di andarsene è “più meditata” perchè non ci si ritrova sotto attacco di fuochi incrociati, chi sceglie di rifugiarsi in territorio ucraino si rivolge ai volontari e agli operatori umanitari che si occupano di indicare loro il corridoio per l'evacuazione dei civili. La prima tappa dell'accoglienza profughi in Ucraina è la riconquistata Slaviansk, la cui stazione ferroviaria è stata trasformata in un centro di smistamento per gli sfollati. Ci sono tende per il primo soccorso, per la distribuzione di acqua e pasti e per la registrazione nell'elenco governativo dei “dislocati”. La biglietteria lavora a tutte le ore, anche di notte e anche se le luci sono poche perchè lo Stato deve economizzare sulla corrente elettrica: si stampano biglietti gratuiti di sola andata per quelli che hanno lasciato le proprie case nella zona dell'operazione antiterrorismo. “Dove volete andare?” chiede l'addetta alla stampa del biglietto. Quasi mai è facile rispondere. A questa domanda e all'ospitalità di una notte su un vagone di un treno fermo in stazione, si ferma l'assistenza che lo Stato ucraino può permettersi di offrire ai suoi profughi. A occuparsi di loro, da questo momento in avanti, saranno parenti e amici, per chi ne ha, e le numerose associazioni di civili volontari che sono nate per fronteggiare la crisi nel paese. Chi non ha idea di dove andare, in genere, sceglie la capitale che pullula di organizzazioni che si occupano di rifugiati. Alcune, come il Centro dei volontari di Froliska, nel cuore della città, si occupano della primissima assistenza: 45 giorni di sostegno in cui gli sfollati vengono nutriti, vestiti, curati e aiutati a ricominciare, in particolare a trovare un nuovo lavoro, perché nessuno può farsi carico di loro per lungo tempo. L'unico servizio che qui non viene fornito è quello la ricerca di un alloggio.
Per questo ci sono altre organizzazioni, come Vostok SOS, nata dall'iniziativa di sfollati dalla regione di Luhansk che oggi lavora in stretta collaborazione con Unhcr. L'emergenza umanitaria in atto è gestita perlopiù dal buon cuore e dalla capacità di rimboccarsi le maniche della popolazione. “In Ucraina- scrive Amnesty International- la maggior parte dei rifugiati riceve un limitatissimo supporto statale e può contare solo sulle proprie forze, sui legami familiari e sull'assistenza delle associazioni di volontari”. La legislazione adottata per gestire l'emergenza sfollati appare inadeguata sia ad Amnesty International che a Unhcr: le limitazioni alla libertà di movimento imposte nella zona di guerra rendono difficile la fuga delle persone e l'ingresso di aiuti umanitari. Anche il conflitto in Ucraina sta dunque causando un imponente esodo e, data l'incapacità delle istituzioni ucraine di gestire la situazione, presto ne subiremo le conseguenze. Anzi già abbiamo cominciato a subirle perchè, secondo i dati Unhcr aggiornati a luglio 2015, gli ucraini che hanno chiesto asilo in Europa sono già quasi 16mila, senza contare quelli che fanno richiesta di altre forme di accoglienza. Per ricevere asilo politico quasi 5mila hanno bussato alle porte della Germania, 3700 a quelle della Polonia, quasi 3mila alle nostre, in Italia, e poi ancora in 1763 in Francia, 60 in Ungheria e 20 in Slovacchia. Ma noi di questi profughi ce ne siamo dimenticati. A rinfrescarci la memoria è la premier polacca Ewa Kopacz, che tra le motivazioni del rifiuto delle quote obbligatorie dell'accoglienza di cui si sta discutendo in sede europea, spiega che le richieste di asilo degli ucraini in Polonia si sono triplicate negli ultimi mesi e che un'ulteriore escalation del conflitto, o il suo semplice prolungarsi, metterà in crisi le loro frontiere. Ma l'Europa si è dimenticata dei profughi ucraini, o forse proprio non vuole ascoltare.
http://www.ilgiornale.it/news/mondo/i-profughi-dimenticati-1167424.html

Il dibattito nella Chiesa sull’accoglienza dei profughi in Europa

06 - 09 - 2015Matteo Matzuzzi
Il dibattito nella Chiesa sull'accoglienza dei profughi in Europa
La Chiesa cattolica è in prima linea sulla questione migranti e profughi. Il Papa stesso, lo scorso 30 agosto, ne ha parlato all’Angelus: “Purtroppo anche nei giorni scorsi numerosi migranti hanno perso la vita nei loro terribili viaggi. Per tutti questi fratelli e sorelle, prego e invito a pregare. In particolare, mi unisco al Cardinale Schönborn – che oggi è qui presente – e a tutta la Chiesa in Austria nella preghiera per le settantuno vittime, tra cui quattro bambini, trovate in un camion sull’autostrada Budapest-Vienna. Affidiamo ciascuna di esse alla misericordia di Dio; e a Lui chiediamo di aiutarci a cooperare con efficacia per impedire questi crimini, che offendono l’intera famiglia umana. Preghiamo in silenzio per tutti i migranti che soffrono e per quelli che hanno perso la vita”.
“SCANDALOSO NON APRIRE LE PORTE”
Su come risolvere l’emergenza, però, le opinioni divergenti. Il Pontefice parlava del cardinale viennese Christoph Schönborn, che sabato si è recato al confine tra Austria e Ungheria per accogliere le migliaia di profughi che passavano il valico di frontiera di Nicklesdorf Burgenland. “Si può vedere in faccia alla gente il sollievo per essere arrivati qui”, ha detto il porporato austriaco che nei giorni scorsi aveva tuonato contro le misure adottate da diversi governi mitteleuropei, contrari ad aprire le frontiere: “E’ scandaloso che alcuni paesi confinanti con l’Austria che hanno un millesimo del numero dei profughi che ci sono in Austria non li accettano”. Parlava di paura e di “voci xenofobe”, anche se “la mia impressione è che nel popolo ci sia molta solidarietà, compassione e disponibilità ad aiutare questi poveri che arrivano con niente”, ha osservato in un’intervista al Tg2000, il telegiornale di Tv2000.
“IL MURO IN UNGHERIA? SOLUZIONE FORTE MA EFFICACE”
Ma è proprio da quei paesi “confinanti con l’Austria” che si sono levati i distinguo, anche tra le gerarchie episcopali.  Naturalmente la premessa è la stessa: “Se non riusciamo ad aiutare i profughi allora abbiamo già perso le nostre radici cristiane”, ha detto il vescovo ausiliare di Budapest, mons. Janos Szekely. Eppure, sul tanto contestato muro eretto dal governo di Viktor Orban, il presule non se la sente di pronunciare condanne dal pulpito: “Dove una frontiera è costruita con una difesa fisica tutto il processo d’immigrazione illegale si ferma. E’ una soluzione forte ma efficace”, anche se – prosegue Szekely – “questo non vuol dire che l’Ungheria vuole chiudere le porte”. E ancora, “in Turchia si sentono voci fra comunità musulmane che vogliono conquistare l’Europa. A volte un motivo religioso è presente nel cuore di questi migranti. Certamente l’Europa dovrebbe mantenere le sue radici cristiane per esempio aiutando questa gente”.
“NON SI POSSONO COSTRUIRE MURI”, DICE IL CARD. VEGLIO’
Parole ben lontane da quelle pronunciate a fine agosto dal cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio consiglio della Pastorale dei migranti e gli itineranti. Intervistato daRadio Vaticana, Vegliò diceva: “Non si possono costruire muri, non è questo quello che la Chiesa vuole, quello che ognuno di noi vorrebbe. Le conseguenze estreme non vanno mai bene”. Il “il grande problema è che poi per difendersi uno passi anche agli estremi opposti, tipo bloccare tutti, mandare via tutti, rompere trattati internazionali, per difendere la propria identità nazionale, non è ragionevole”.
“RISOLVERE IL PROBLEMA ALLA RADICE, NON STERILI DISCORSI”
Dalla Siria, però, con una lunga lettera inviata ad AsiaNews, il patriarca della Chiesa cattolica greco-melkita, Gregorio III Laham, vira l’obiettivo dagli spostamenti di profughi nel cuore dell’Europa al medio oriente: “Tutto il mondo ha visto la foto del bambino curdo siriano” morto sulle spiagge della città turca di Bodrum, e “a questo proposito voglio lanciare un appello: per evitare simili tragedie il punto è fare la pace, garantire la salvezza e il futuro del Medio oriente.  Ai governi occidentali e all’Europa, prosegue, “dico che il punto centrale non è accogliere e ospitare i profughi, ma è fermare il conflitto alle radici. Tutti devono essere coinvolti, dall’Occidente alle nazioni arabe, dalla Russia agli Stati Uniti. Questo è ciò che aspettiamo, la pace… Non parole sui migranti e discorsi sull’accoglienza. Mai più la guerra”.

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