LA LEZIONE DI EDITH STEIN
La lezione di Edith Stein è che la Grazia non la scienza getta un ponte tra l’essere finito e Dio. Solo grazie ad essa l’anima è in grado di mettere in campo le necessarie insospettabili risorse d’intelligenza, energia, volontà e amore di F.Lamendola
La grande lezione di Edith Stein, sulle orme di San Tommaso d’Aquino, è che non la scienza, ma la fede illumina la ricerca umana nel suo struggente bisogno di contemplare Dio; e che solo grazie ad essa l’anima è in grado di mettere in campo le necessarie, insospettabili risorse d’intelligenza, di energia, di volontà e amore.
Perché l’essere umano non può vivere senza Dio, senza ascoltare il richiamo dell’Essere nel quale soltanto sente di poter trovare pace e riposo e nel quale soltanto la sua esistenza terrena, con le sue speranze e le sue delusioni, con le sue fragilità e il suo anelito verso l’Assoluto, finalmente acquista un senso, una direzione, uno scopo.
Questa scoperta gioiosa e folgorante, suscettibile di trasfigurare letteralmente la vita umana e di illuminarne pienamente la vera finalità, è stata sintetizzata in maniera efficace da una studiosa di Edith Stein, la monaca carmelitana Maria Cecilia del Volto Santo, dalla cui monografia, dedicata alla pensatrice ebrea-tedesca, riportiamo un passaggio-chiave («Edith Stein», Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1996, pp. 100-103):
«L’irrompere della trascendenza di Dio nel suo intimo l’aiuta a scoprire le impensate possibilità di cui l’essere finito è capace quando si apre alla grazia, quando, cioè, natura e spirito si incontrano e sintonizzano. Penetrando dentro di sé, nell’essenza intima – in modo non più esclusivamente filosofico (ambito pur sempre restrittivo), ma teologico-filosofico -, Edith si rende atta a ricevere da Dio la rivelazione di realtà sconfinate immerse da lui nel suo cuore e nella sua mente; realtà stupende che riescono ad appagare finalmente le profonde esigenze di interiorità e di totalità, che prima, ancora sconosciute, la facevano soffrire fino a provocare crisi di identità. È a questi livelli profondi che avviene la vera conoscenza della fede e l’incontro unitivo dell’essere umano con il suo Dio.
Lo studio del Dottore Angelico confermò Edith nella realtà della fede. Il santo le offrì un nuovo vasto orizzonte di ricerca e la portò pure alla constatazione dell’esistenza di due campi del sapere: uno che ha la sua forza nella ragione, l’altro la sua fonte nella Rivelazione. I due campi hanno punti di convergenza: la Rivelazione illumina ed amplia l’intelletto.
La fede è certa, non evidente come conclusione di un ragionamento. A suo tempo Edith era passata dall’università di Breslavia a quella di Gottinga perché, a suo parere, trovava nella filosofia husserliana delle “certezze verificate”. Ora scopre che la certezza definitiva deriva dalla fede; la dà Dio solo. Bisogna affidarsi alla Certezza; d’altro canto, però, è irragionevole respingere la serietà dell’informazione scientifica, dotata di probabilità, sebbene non si debba mai assolutizzare la scienza che è sempre in via e può errare: “Possiamo costatare ogni giorno quante cose erano sbagliate di ciò che abbiamo imparato. Ed è utile fare una simile costatazione, perché ci si rende conto che non possiamo fidarci di noi stessi e che saremmo perduti se un Altro, che vede meglio e più lontano, non si curasse di noi”.
L’approfondimento di san Tommaso condusse Edith ad una indagine personale che le chiarì la possibilità di un certo collegamento tra la filosofia medioevale e quella contemporanea. Il collegamento era posto dalla fenomenologia, vista da lei come via di comunicazione per passare dalla prima alla seconda.[…]
Edith dichiara che non la scienza ma la fede è la strada certa che conduce a Dio: “La via della fede ci dà più della via della conoscenza filosofica; il Dio vicino come persona, che ama ed è misericordioso, ci dà una certezza che non è propria di alcuna conoscenza naturale”.
Si sente l’eco dell’Aquinate: “[…] la certezza data dalla luce divina è più grande di quella offerta dalla luce della ragione naturale”. Rileviamo, però, che il travaglio fenomenologico, in cui Edith è cresciuta, è già via largamente aperta alla trascendenza. Cioè, quel volgersi dal relativismo soggettivistico all’oggettività era un andare alla ricerca originaria della stessa verità. Ovviamente, se la filosofia, fenomenologica o no, non si avvia al trascendente, restringe la visuale gnoseologica. Se si apre ad esso, la sua sincera ricerca, prima o poi, rinvia all’Assoluto, poiché fa emergere l’anelito religioso insito in ogni persona. Si può arrivare così alla fede, a Dio: verità assoluta che fonda ogni altra verità. Questo anelito dimostra che l’uomo è, per sua natura, un essere religioso; se non si incontra con Dio, sradica da sé le migliori possibilità del suo essere, che vivrà “adagiato” nella superficialità senza poter giungere alla completezza e unificazione della sua personalità e alla scoperta delle sue migliori e innate capacità.»
Il percorso intellettuale e umano di Edith Stein, pertanto, è estremamente significativo per chiunque, animato da sincero desiderio di verità, non si accontenti delle verità relative che offre la scienza, le quali, pur rispettabili e utili nel loro ambito, non esauriscono affatto la domanda di senso, anzi, non la interpellano nemmeno, dal momento che la scienza opera sul come e non sul fine, e dirige il suo sguardo esclusivamente al mondo della natura.
L’uomo moderno sente con più drammatica urgenza la tensione verso l’Assoluto, proprio perché la clamorosa affermazione della conoscenza scientifica gli ha fatto intravedere, a un certo momento, la possibilità di giungere, con le sue sole forze, alle soglie del grande Mistero, la domanda sul senso del tutto; ma è stato, appunto, un momento: mano a mano che la scienza confermava di essere soltanto un sia pur utile strumento d’indagine nell’ambito del finito, l’uomo moderno si è sentito doppiamente solo e abbandonato, deluso nelle sue aspettative, amareggiato nelle sue speranze, in balia di un destino incomprensibile e quasi beffardo.
In un certo senso, è vero che l’uomo moderno, se non riesce a scorgere la necessità di affidarsi alla garanzia di un Altro, che faccia da fondamento al suo cercare e al suo protendersi verso la verità, finisce per precipitare negli abissi dello sdoppiamento, della disintegrazione spirituale, della follia: come si vede, per esempio, nei personaggi di Pirandello, tutti dominati da una stessa nevrosi e da una stessa angoscia, tutti ugualmente delusi e amareggiati, tutti interiormente scissi e brancolanti sull’orlo della follia, che taluni di essi finiscono per accogliere come una forma, e sia pure paradossale, di liberazione. Cosa può esservi, infatti, di più straziante, di più contraddittorio e di più beffardo, di un sapere che distrugge proprio ciò a cui il sapere, per definizione, tende: la via verso la verità, o, quanto meno, la speranza di poter scorgere, un giorno, quella via?
Eppure, tale è la condizione dell’uomo moderno: dopo aver demolito, pezzo a pezzo, il sapere tradizionale; dopo essersi sbarazzato della metafisica e della teologia; dopo aver proclamato che le uniche cose importanti sono i fatti, e la spiegazione dei fatti, egli si è ritrovato fra le mani uno strumento completamente spuntato, un’arma perfettamente inutile. Si è accorto che la scienza gli poneva tutta una serie di domande alle quali essa non è, né potrà mai esser, in grado di rispondere: perché la scienza non ha nulla da dire riguardo al senso, ma solo e unicamente al modo in cui le cose avvengono. Qual meraviglia se l’uomo moderno, dopo aver creduto di sfiorare il Cielo con la sua torre di Babele, è piombato nello scoramento più profondo, nel relativismo e nel cinismo, nel nichilismo e nel pessimismo più cupo e rassegnato?
Evidentemente, pur con tutta la sua raffinata intelligenza, la sua acribia ermeneutica, la sua profonda sensibilità critica, egli ha smarrito, lungo la strada della ricerca, la cosa più importante: l’umiltà, fatta di consapevolezza del proprio limite e di disponibilità ad aprirsi alla Verità che da lui non dipende, ma dalla quale è lui a dipendere: la Verità assoluta, che gli domanda un salto di qualità nel proprio livello di coscienza, un abbandono delle sue presuntuose certezze e delle sue ambiziose semi-verità, per lasciarsi penetrare dalla luce ineffabile del Vero, che è la luce dell’Essere.
All’orgoglio prometeico dell’uomo moderno, un tale riconoscimento è sembrato un cedimento vergognoso, una vile abdicazione della sua ragione, di cui va tanto superbo: dimenticandosi che la ragione non è la sola forma del conoscere e che, nel palazzo della ragione stessa, vi sono tante stanze che egli non conosce bene, o che non conosce affatto, perché non vi è soltanto la ragione logico-matematica, galileiana, meccanicista, quantitativa, quale unica manifestazione del Logos; non vi è soltanto la ragione utilitarista, strumentale e calcolante. Vi sono anche altre vie per le quali la ragione può manifestarsi, con la partecipazione di altre facoltà dell’anima, prima fra tutte la ragione intuitiva, che afferra le cose prima che l’intelletto le abbia pienamente illuminate, e molto prima che abbia tentato di chiarirle in maniera puntuale e dimostrativa.
In ultima analisi, se la conoscenza è un atto di amore, così come lo è la Creazione, allora i due percorsi, quello dell’uomo verso la Verità e quello dell’Essere verso l’uomo, sono destinati a incontrarsi: ed è dal loro incontro che la condizione umana riceve quella infusione di senso e di valore, quella trasformazione spirituale, quella illuminazione intellettuale e quella intima rivelazione dell’anima a se stessa, in cui consiste, propriamente, il fine della vita umana: il completamento e l’integrazione della differenza ontologica fra la creatura e il Creatore, fra l’io e il Tu, fra il relativo e l’Assoluto. Solo allorché l’anima riesce a compiere questo passaggio evolutivo, solo quando riesce ad aprirsi a questa forza benefica, si realizza la sua seconda nascita, la nascita alla vita soprannaturale, che è la Grazia.
La vita umana, dunque, è una ricerca di verità, ossia una ricerca di senso; e non si acquieta, non si placa, non si rasserena, finché l’anima non comincia a intravedere, pur in mezzo alle nebbie incerte e ai dubbiosi passaggi della condizione propria del finito, la luce sfolgorante dell’Infinito, la luce dell’Essere, dalla quale ogni cosa ha ricevuto il proprio inizio e verso la quale ogni cosa tende naturalmente, anche se non lo sa. Intravedere quella luce non è come esserne pienamente investiti e rigenerati; e tuttavia, è una esperienza fondamentale, e può essere il principio di una vita completamente rinnovata: una vita giovane in luogo della stanchezza, una vita gioiosa in luogo dell’amarezza, una vita realizzata in luogo d’una vita inutile. E, come direbbe il padre Dante: «Oh, felice colui cu’ ivi elegge!» («Inferno», 129).
Felice, infatti, è colui che giunge in vista della meta; che riesce a intravedere il fine di tutti i suoi sforzi, e sente che la sua fatica sarà ricompensata; anzi: che è già ricompensata, perché l’aver trovato il senso, del quale andava in cerca, è già premio a se stesso: qualunque cosa accada e indipendentemente dal fatto di realizzare materialmente il proprio sogno. Ecco, l’inganno della cultura moderna è tutto qui: nella pretesa che ogni sogno si realizzi nella sfera del finito; che ogni slancio dell’anima trovi il premio non in se stesso, ma in qualche cosa d’altro: in un oggetto, in una remunerazione, in un qualcosa di utile, che sia fruibile sul piano pratico, che contribuisca alla gratificazione dell’io. Ma l’io di colui che giunge alle soglie dell’Infinito è già scomparso: non c’è più, non fa più i capricci, non brama, né teme, né spera più nulla. Ha finito di tiranneggiare, ricattare e tormentare l’anima con le sue bizze e con le sue assurde, incontentabili pretese.
Edith Stein lo aveva capito. La parte più preziosa del suo insegnamento, che si rivolge all’uomo moderno, così esigente in fatto di razionalità – mentre l’uomo pre-moderno era più pronto e disponibile all’immediatezza della fede – è la constatazione che nulla, nella ricerca intellettuale, contrasta con il raggiungimento della Verità soprannaturale, anzi, che tutto vi concorre; che, razionalmente parlando, non vi è alcun sacrificio da fare, alcuna mortificazione da subire: ma che si tratta, semplicemente, a un certo punto, di trasbordare su di un altro veicolo, perché la ragione umana non è fatta per le altezze stratosferiche della Verità, ma solo per le più modeste altitudini delle verità parziali, materiali e terrene.
In altre parole: nessuno chiede all’uomo moderno di rinunciare alla sua ragione, alla sua scienza e nemmeno alla sua tecnica: quel che egli deve chiedere a se stesso è se queste cose debbano essere adorate, quasi fossero dei fini in se stesse, o riguardate come semplici strumenti; e se siano davvero gli strumenti adatti per poter levare gli occhi fino alle sublimi altezze del Vero. Quel che egli deve chiedere a se stesso è se si sente abbastanza onesto, intellettualmente e spiritualmente, da riconoscere il proprio limite ontologico, e da chiedere aiuto a quella Forza che, sola, può darglielo...
La lezione di Edith Stein è che la Grazia, non la scienza, getta un ponte tra l’essere finito e Dio
di Francesco Lamendola
La lezione di Edith Stein è che la Grazia, non la scienza, getta un ponte tra l’essere finito e Dio
di Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
CLUNY E RINASCITA EUROPEA
Il movimento cluniacense donò alla Chiesa e all’Europa una seconda giovinezza
di
Francesco Lamendola
La riforma cluniacense e il movimento che ne scaturì, fra X e XI secolo, ossia nel momento della massima frammentazione politica dell’Europa, seguita alla disgregazione dell’Impero carolingio, diede alla Chiesa e alla società europea gli strumenti spirituali per rigenerarsi e per vivere una seconda giovinezza: tale fu il suo significato più profondo.
Il vasto moto religioso che si irradiò dall’abbazia di Cluny, in Borgogna, a partire dalla seconda metà del 900, e si diffuse a macchia d’olio in tutto il continente, suscitando o ridestando immense forze morali, ebbe un significato assai più grande che un “semplice” ritorno alla Regola benedettina o una “semplice” riforma moralizzatrice in seno alla Chiesa, divenuta sempre più corrotta, mondana e simoniaca: fu una vera e propria rifondazione delle radici stesse della spiritualità benedettina, anzi, di più, quasi un ritorno alla spiritualità dei Padri del deserto, degli anacoreti; di certo, un recupero della netta separazione fra Chiesa e mondo, ed una opzione radicale per la prima, vista come il tramite indispensabile alla salvezza dell’anima.
A Cluny, insomma, si gettarono i dadi per i successivi quattro o cinque secoli: in un certo senso, la Chiesa visse delle energie spirituali accumulate dalla riforma cluniacense, le spese, le dissipò, e, al principio del XVI secolo, si trovò di fronte, per la seconda volta, al proprio logoramento interno, alla perdita della spinta morale che l’aveva sostenuta; e allora, tardando troppo ad auto-riformarsi (nonostante le numerose, ma inascoltate, grida d’allarme), Lutero prima, Zwingli e Clavino poi, si inserirono nella breccia e scardinarono dall’interno la sua unità. Eppure la Chiesa cattolica sarebbe riuscita a superare anche quella terribile prova, e, di nuovo, grazie al tempestivo affermarsi di una nuova fonte di energia spirituale: quella sprigionata dal nuovo ordine fondato da Ignazio di Loyola, i Gesuiti. Senza di loro, forse la Chiesa non avrebbe superato la prova e si sarebbe sfasciata, oppure avrebbe trascinato una lenta agonia, spegnendosi a poco a poco: grazie ai Gesuiti, fu addirittura in grado, dopo aver serrato le file e medicato le ferite più gravi, di riprendere l’iniziativa.
Oltre a tutto questo, Cluny ebbe anche un altro significato: lo svincolarsi delle abbazie dall’autorità dei vescovi, troppo spesso mondanizzati e compromessi col potere politico. Senza il movimento della riforma cluniacense, ben difficilmente Gregorio VII avrebbe potuto lanciare all’imperatore Enrico IV il guanto della sfida sulla questione delle investiture, e, attraverso la nomina dei vescovi-conti, la Chiesa sarebbe ritornata – o, per meglio dire, sarebbe rimasta – sottomessa all’autorità del potere temporale, e avrebbe definitivamente smarrito la propria missione. I monaci di Cluny svolsero, dunque, l’immensa opera di riportare la Chiesa a se stessa, alla propria ragion d’essere e alla propria vocazione originaria: che non era di compromissione con il mondo, ma di alternativa al mondo. Ponendo, di fatto, l’autorità e il prestigio delle abbazie al di fuori, e, non di rado, al di sopra di quelle delle diocesi, i monaci cluniacensi riportarono la cristianità nel clima, fervente e carico di tensione verso il soprannaturale, che aveva caratterizzato l’espansione missionaria verso la Germania, verso i Paesi slavi e verso le Isole britanniche, nei secoli oscuri che vanno dalla caduta dell’Impero Romano di Occidente alla fondazione dell’Impero carolingio. Furono loro a indicare nuovamente agli uomini la via del Cielo, della vita perfetta, del pellegrinaggio verso la realtà eterna, con lo stesso fervore e con la stessa che aveva spinto i monaci irlandesi ad alzare le vele persino verso le terre brumose e semi-leggendarie dei mari artici, per evangelizzarle, avendo ormai raggiunto gli estremi confini del continente nella diffusione della Buona novella di Cristo.
Ha scritto il grande storico Henry Pirenne nella «Storia d'Europa dalle invasioni barbariche al XVI secolo» (titolo originale: «Histoire de l'Europe des invasions au XVIe siècle»; traduzione dal francese di Cristiana Maria Carbone, Roma, Newton & Compton Editori, 1991, pp. 133-137):
«Il feudalesimo, diffondendosi e distruggendo lo stato, ebbe ripercussioni anche sulla Chiesa. In Francia, in Lotaringia,in Italia, la situazione dei vescovi è pressappoco la stessa di quella del papa a Roma. Devono difendersi contro i feudatari dei dintorni, oppure vengono imposti al clero da quegli stessi feudatari, cacciati se non piacciono al partito più forte, assassinato, talvolta, se lo sfidano troppo apertamente. Il papa non può niente per loro [...].
A differenza di ciò che accadde per lo Stato, il male della Chiesa non è che in superficie. Essa accusa il contraccolpo del'espansione feudale, ma poiché la sua organizzazione è al di fuori della società politica, non può esserne intaccata. [...]
L'influenza delle abbazie aumenta perché molte chiese sono di loro proprietà o dipendono da esse e hanno monaci per cappellani. L'ideale che si coltiva della santità, è 'ideale monastico: la rinuncia al secolo per salvare l'anima, a esclusione di qualsiasi attività sociale, e di qualsiasi altra virtù che non siano la rinuncia, l'umiltà e la castità. Da qui sarebbe venuto il rinnovamento della Chiesa, non dai vescovi, fossero essi semi-feudatari come in Francia, o fedeli alla tradizione carolingia come in Germania.Il loro sapere non ha alcun effetto su questo pubblico incolto, che ha bisogno di santi e di taumaturghi. In questo senso il feudalesimo, al pari del popolo, pensa che i vescovi siano suoi avversari. Saccheggia i monasteri, ma li rispetta, e, sul letto di more, i principi che li hanno maggiormente depredati, fanno cospicue donazioni. Tutti venerano la santità e deplorano il disordine in cui sono caduti i monasteri, pur essendone loro la causa. [...]
Credo si possa dire che con Cluny, il monachesimo lascia per secoli la sua impronta sul cristianesimo occidentale. Senza dubbio, già prima di allora i monaci hanno avuto un ruolo notevole, soprattutto con la conversione dell'Inghilterra. Ma il clero secolare è più importante. : è attraverso di esso che si realizza l'alleanza tra la Chiesa e lo Stato. All'epoca carolingia, i vescovi sono per metà funzionari regi; in Germani,a diventano principi. Ora, è proprio questo che condannano i Cluniacensi. Per loro, il secolo è l'anticamera dell'eternità. Tutto deve essere sacrificato ai fini ultraterreni. La salvezza dell'anima è tutto, e non può realizzarsi che attraverso la Chiesa, la quale per adempiere alla propria missione, non deve assolutamente venire contaminata dall'ingerenza temporale. Qui non si tratta più dell'alleanza tra Chiesa e Stato, ma della subordinazione totale dell'uomo e della società alla Chiesa, intermediaria tra lo Stato e Dio, nell'ambito spirituale. Occorre dunque considerare colpevole di simonia chiunque assecondi l'ingerenza del potere laico nelle questioni religiose. Il prete appartiene soltanto alla Chiesa. Non deve più avere un signore, non deve più avere una famiglia. Il matrimonio dei preti, tollerato di fato, è un abominio che deve scomparire. Spiritualizzazione completa della Chiesa, osservazione assoluta del diritto canonico,, ecco, se non il programma vero e proprio, almeno la tendenza di Cluny. Nell'ambito della devozione, l'ascetismo; nell'ambito politico, la piena libertà della Chiesa, la rottura dei vincoli che la tengono legata ala società civile. In questo senso, Cluny si può dire anti-carolingio. Ma è papista, perché è evidente che la Chiesa, per essere indipendente, deve unirsi sotto il suo capo, che è a Roma.
Queste conseguenze politiche, implicite nella riforma, non si sono manifestate immediatamente. Fin dal principio, i è visto in Cluny solo un rinnovamento della vita ascetica e da ogni parte, principi e vescovi gli hanno chiesto monaci per rinnovare le abazie delle loro terre. [...] E dovunque si introduce, la devozione aumenta, una devozione esteriore, che consiste prima di tutto nel piegarsi al culto, nel rispettarne le feste, nel rimettersi in tutto e per tutto alla Chiesa, sposa di Cristo, sua rappresentante in terra, sorgente mistica di grazia e di salvezza. Aumenta il numero di cavalieri che entrano in religione, dei principi che muoiono indossando l'abito da monaco; le fondazioni di monasteri nuovi si moltiplicano. Dal X all'XI secolo ne sorgono in quantità. La Chiesa si presenta decisamente come un'istituzione sovrumana. Si vive nel sublime. I miracoli sono all'ordine del giorno. [...] La pace di Dio, che interrompe le guerre private in occasione delle grandi festività annuali, è una delle conseguenze di questa azione straordinaria della Chiesa. [...]
Tutto questo movimento si è sviluppato al di fuori di Roma e del papato. Ma doveva necessariamente arrivare fino a loro e restituire d'un tratto al successore di Pietro degradato in mezzo agli intrighi feudali e ai conflitti dipartito, protetto dall'imperatore e impotente nelle sue mani il governo di questa forza immensa che lavorava per lui e aspettava il momento di agire sotto il suo comando.»
Il movimento cluniacense, dunque, non è stato solamente un movimento monastico; è stato molto di più: un movimento di riforma complessiva della vita religiosa, spirituale, intellettuale, morale, della Chiesa e dell’intera cristianità, i cui effetti si prolungarono lungo un arco di tempo di almeno tre secoli, se non di più. Non si possono capire l’immenso moltiplicarsi delle vocazioni monastiche, maschili e femminili, né la prodigiosa fioritura delle cattedrali, romaniche dapprima, gotiche poi; e neppure la spinta evangelizzatrice che permise alla Chiesa di convertire, e trasformare in nuovi bastioni della difesa europea, i popoli e i regni del Settentrione e dell’Oriente: Danesi, Norvegesi, Svedesi, da un lato, Polacchi, Russi, Bulgari, e infine gli stessi, temutissimi Ungari, dall’altro; non si possono capire né i successivi ordini mendicanti, francescani e domenicani, né il sorgere e il diffondersi della poesia religiosa, e nemmeno la «Divina Commedia» o la pittura di Cimabue, Giotto e Duccio di Buoninsegna, o la scultura di Arnolfo di Cambio, di Nicola e Giovanni Pisano, se non si tiene a mente quanto profonda e incisiva fu la riforma cluniacense e quanto essa fu suscitatrice di rinnovate energie morali e spirituali.
Non solo: essa rivendicò il primato della Chiesa spirituale sulla Chiesa mondana, delle abbazie sui vescovadi, dei monaci sui preti diocesani. Nel momento storico in cui si era verificata la massima confusione tra le due sfere, quella religiosa e quella politica, confusione tipica della crisi del sistema feudale, la riforma cluniacense ristabilì fermamente il prestigio e il primato dello spirituale, e, con ciò, l’idea che la cosa più importante, per il cristiano, e anche per la società cristiana nel suo insieme, è la salvezza dell’anima: dunque, l’affidarsi completamene alla Chiesa, il frequentare la messa, il pregare, il fare penitenza. Insomma la vita monastica divenne non solo una parte rispettata e ammirata della società, ma ne divenne il modello supremo: tutti, anche i signori più potenti, anche i borghesi più ricchi, si sentivano piccoli di fronte alla maestà della vita conventuale, e tutti deponevano l’abituale orgoglio, se non in vita, al momento della morte, lasciando per testamento delle immense eredità proprio ai conventi cluniacensi. I quali resistettero alla terribile tentazione rappresentata da quella massiccia e inusuale disponibilità di ricchezze, non si lasciarono tentare e rivolsero ogni sforzo per rimettere la vita della Chiesa sulla carreggiata della più austera e rigorosa spiritualità.
Non si può non fare qualche seria riflessione in chiave di attualità davanti ad un fenomeno storico di tale ampiezza. Anche se sarebbe improprio spingere troppo in là il paragone con la società europea odierna, la quale si è quasi completamente laicizzata e, da tre secoli, si trova sotto l’influsso di una cultura dominante implicitamente o esplicitamente irreligiosa e anticristiana, resta il fatto che la Chiesa odierna ha scelto, per affrontare la crisi radicale che la investe, la via opposta a quella della riforma cluniacense: vale a dire una più intensa partecipazione ai problemi del mondo, della vita sociale, della sfera “politica”, quasi per mostrarsi più zelante delle pubbliche autorità e per rimarcare il proprio impegno, la propria vocazione ai grandi temi della giustizia, della pace, dell’ambiente e perfino dei diritti della persona, veri o presunti. Ha scelto di radicarsi sempre più nel territorio, ma in forme sempre più secolarizzate: con un clero diocesano che, a partire dai vescovi, sembra prendere più a cuore le questioni relative alla dimensione terrena, che il senso della relazione con Dio. I teologi progressisti hanno chiamato tutto ciò “svolta antropologica”: di fatto, hanno quasi smesso di parlare del peccato (compreso il Peccato originale), del bene e del male, dell’anima, della vita ultraterrena, e di tutte le virtù che favoriscono la vita buona e l’incontro con Dio: la sobrietà, l’umiltà, l’obbedienza, la mansuetudine, il fiducioso abbandono al Padre. La messa tende a trasformarsi in un rito civile, laico, quasi profano, con chitarre e burattini: ma Dio, dov’è?
Francesco Lamendola
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