DON VERZE'E DELIRIO PROGRESSISTA Don Verzé, Zizola e il delirio auto-teistico dei cattolici progressisti. Come i loro cugini marxisti e come i Borboni non dimenticano nulla e non imparano mai nulla: nessun errore autocritica li smuovono dalle loro certezze di Francesco Lamendola
Come i loro cugini marxisti e come i Borboni di Napoli, non dimenticano nulla e non imparano mai nulla: nessun errore, nessuna autocritica li smuovono dalle loro rocciose certezze; loro hanno sempre ragione e sempre l’hanno avuta, anche quando la cronaca o la storia li hanno sbugiardati completamente. Stiamo parlando dei cosiddetti cattolici progressisti, i quali, da sempre, si ritengono la parte migliore, per non dire l’unica autorizzata, a parlare a nome di Dio, della Chiesa e della teologia cristiana.
La volta in cui li vedremo riconoscere uno sbaglio, in cui li vedremo ammettere di aver preso una grossa cantonata, bisognerà aspettarsi qualche prodigio spettacolare, qualche aurora polare nel deserto, qualche nevicata a ferragosto: di fatto, nessuno ha mai assistito a qualcosa di simile, perché non rientra nella loro forma mentis. Loro hanno sempre ragione; Dio è dalla loro parte; loro sono Chiesa (come recita un loro slogan tanto arrogante, quanto grossolano; come se gli altri non lo fossero, e come se la Chiesa fosse una entità che si può plasmare e indirizzare a colpi di maggioranza: un uomo un voto, come nelle democrazie).
La trista vicenda di don Luigi Maria Verzé, fondatore dell’ospedale San Raffaele di Milano e presidente della Fondazione San Raffaele del Monte Tabor, nonché fondatore e rettore dell’Università Vita-Salute San Raffaele, sacerdote sospeso a divinis fin dal 1964 e morto nel 2011 con una raffica di inchieste, processi e condanne a suo carico, crediamo sia talmente nota, da rendere inutile, qui, ricordarla nei dettagli. Basterà solo dire che don Verzé è stato condannato per tentata corruzione e per abuso edilizio; incriminato per truffa aggravata; indagato per ricettazione; e che dalle inchieste è uscito un quadro complessivo della gestione del San Raffaele a dir poco disinvolto, nonché discutibili rapporti con il modo della politica e relazioni confidenziali con personale dei servizi segreti al fine di accedere a informazioni riservate che lo favorissero nelle sue attività di tipo imprenditoriale. Insomma è emersa la figura di un supermanager onnipotente e senza scrupoli, avvezzo a farsi strada con sistemi quasi banditeschi, fornito di entrature e canali riservati nel sottobosco della politica e della finanza speculativa.
Tutto questo è storia, e storia recente: ai posteri l’ardua sentenza. Quel che ci sembra meritevole di una speciale riflessione è il retroterra culturale, spirituale, morale, che ha reso possibile una simile degenerazione da parte di un sacerdote verso il mondo degli affari, della speculazione e della bassa politica: di un sacerdote che, pur essendo sospeso dalle sue funzioni, continuava a presentarsi come un uomo di Chiesa e, anzi, sfoggiava il piglio di un prete riformatore, nemico dei conservatorismi, aperto al nuovo, alla modernità, alla scienza, e persino favorevole, in certi casi, all’eutanasia: insomma, un prete che si proponeva come uomo d’avanguardia nel processo di rinnovamento della Chiesa e che, come tale, raccoglieva i consensi e i favori di non pochi intellettuali.
Il giornalista Giancarlo Zizola (1936-2011), noto vaticanista, del quale abbiamo già avuto occasione di occuparci, confutando la sua tesi secondo cui le ragioni che spinsero papa Pio X a combattere energicamente il modernismo sarebbero state essenzialmente, o prioritariamente, di natura politica (cfr. il nostro articolo: «Per i cattolici progressisti, Pio X colpì il modernismo per un meschino calcolo politico», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 08/11/2015), fu uno dei suoi ammiratori e sostenitori, e questo ben dopo il 1964, allorché ebbe luogo la sua sospensione a divinis: provvedimento che, se non andiamo errati, dovrebbe rendere del tutto fuor di luogo qualunque apologia nei confronti di chi ne sia colpito.
Scriveva, dunque, Giancarlo Zizola nella introduzione al libro "Un'ala per guarire", contenente una serie di interviste - che lui chiama "colloqui" da lui fatte a Don Luigi Verzé, e alcuni testo dello stesso Verzé (che risulta come l'autore del libro: "Un'ala per guarire", Cinisello Balsamo, Milano, Edizioni San Paolo, 1994, pp. 6-8):
«Questo dialogo può essere considerato unitariamente una ricerca complessiva sul senso che una guarigione umana può assumere in quest'epoca. è un dialogo con un sacerdote-medico, uno di quei cristiani che, sempre meno di rado, sulla scia del sacerdote-scienziato Teilhard de Chardin, cercano di mostrare coi fatti le risorse del dialogo tra fede e scienza. Nei molteplici colloqui scambiati con lui su questi temi, don Verzé ha accettato di misurarsi, nei limiti di un dialogo giornalistico, e in tutta la franchezza del suo linguaggio e la severità dei giudizi, con i problemi di frontiera posti dalla scienza e dai progressi della medicina: se la prima parte del libro è piuttosto il "romanzo" della sua vita, la seconda viaggia nei percorsi più impervi e magnifici delle questioni bio-etiche più delicate, dalla fecondazione artificiale all'eutanasia, dalle manipolazioni genetiche ai trapianti d'organo, portando la visione spesso originale, talora sorprendente, d'un credente per il quale la fede è sinonimo di coraggio.
Possiamo riconoscere comunque in don Luigi Verzé e nella sua organizzazione, non meno che in altri sacerdoti, siore, religiosi e laici, dediti alla missione del "guarire" in molte parti del mondo, questa forma moderna che riveste la millenaria attenzione della Chiesa alla sofferenza. Nel corso della storia la Chiesa ha spontaneamente assunto il servizio dei malati. Curare, consolare, guarire è stato per essa il segno più umano di salvezza realizzato dal Cristo. è abituale ricordare che la medicina moderna ha trasformato la cura, suscitando immense speranze, prolungato la possibilità e l'opportunità della vita, ma ha rivelato anche i propri limiti. Forse l'investimento nelle tecniche della guarigione ha rischiato di far passare in secondo piano l'importanza della consolazione e della cura, così legate alla dimensione relazionale, aprendo nuovi spazi all'intervento integrativo del volontariato sociale o degli operatori religiosi, alle frontiere più critiche della società e dei suoi malesseri.
Tuttavia, l’atteggiamento che si può cogliere in don Verzé attira una peculiare attenzione per il carattere esplicito del suo tentativo di revisione di alcuni stereotipi tradizionali della cultura cattolica che, validi in passato, lo sono meno oggi a causa del peso di certe abitudini antimodernistiche o doloristiche ancora annidate residuamente in qualche sacca del sistema religioso. Egli non è solo in questo sforzo, che si inserisce ormai a pieno titolo in una corrente culturale ben presente nella storia moderna del cristianesimo.
Tuttavia, l’atteggiamento che si può cogliere in don Verzé attira una peculiare attenzione per il carattere esplicito del suo tentativo di revisione di alcuni stereotipi tradizionali della cultura cattolica che, validi in passato, lo sono meno oggi a causa del peso di certe abitudini antimodernistiche o doloristiche ancora annidate residuamente in qualche sacca del sistema religioso. Egli non è solo in questo sforzo, che si inserisce ormai a pieno titolo in una corrente culturale ben presente nella storia moderna del cristianesimo.
Sembra che egli faccia proprio, di fronte alla generale secolarizzazione della società e della stessa medicina, un audace punto di vista laicale, che è segnale inequivoco della sua dimestichezza con le correnti profetiche della Bibbia, e che lo spinge a preoccuparsi anzitutto di fare l'uomo, di servirlo, di adibire all'espansione dell'umano fino alla "guarigione perfetta" ogni spazio e strumento creato dall'intelligenza: egli porta in questo servizio la totalità di una vocazione medico-sacerdotale. Se questo approccio lo spinge talora ad assumere posizioni di apertura e di sollecitazione riformistica, sia pure umile, nei confronti della Chiesa, la storia personale raccontata nel libro sembra voler dimostrare che egli ne ha saputo affrontare i rischi, inclusa la difficile comprensione delle sue sfide, fino alla più dolorosa solitudine, pur di salvare la natura originale dell'impresa ospedaliera da lui allestita. Basandosi sul proprio diario, egli ricorda che ritenne di non dover rinunciare all'idea in cui credeva, nemmeno di fronte alla ingiunzioni più autorevoli, convinto com'era che fosse "opera di Dio"e rammenta anche come, per sviluppare il San Raffaele, egli dovette "spostare montagne di ostacoli politici ed ecclesiastici".
Per questo prete veronese, infatti, guarire "è più che medicare, significa restituire la persona alla vita", anzi "significa aiutare Dio a salvare il mondo". Nel punto in cui si congiungono guarigione e salvezza, don Verzé mobilita, grazie ad un buon numero di collaboratori di qualità, ogni risorsa della tecnica e della scienza per contendere lo spazio alla malattia e alla morte. Egli fonda la sua laicità sul duplice principio: Dio non ha voluto la morte, è il "Dio dei vivi"; l'incarnazione è un compito globale, universale e contemporaneo. Egli cita volentieri il passo di una lettera pervenutagli e nella quale egli dice di riconoscersi: "Tanto tempo fa lei mi disse che l'incarnazione era per lei il mistero che attraeva il suo cuore e la sua mente. Mi rendo conto che è anche il mistero che dà senso alla sua vita. Ed oggi, se penso a lei, la penso come uno che vive l'incarnazione".
Sarebbe troppo facile, oggi, dopo gli scandali, i processi e le condanne che hanno consegnato alla storia la figura di don Verzé come quella di un prete affarista e intrigante, senza scrupoli, senza ombra di vera carità cristiana, una figura sinistra e di gravissimo scandalo per tutta la Chiesa e per i credenti in buona fede, che in lui hanno riposto la loro fiducia, infierire e girare il coltello nella piaga, facendo notare quanto grottesche suonino le lodi sperticate di Giancarlo Zizola nei confronti di costui; perciò, su questo aspetto della questione, non diremo altro.
L'aspetto su cui ci preme svolgere una riflessione, invece, è un altro: non quello giuridico e morale, ma proprio quello teologico e religioso. Zizola ci presenta don Verzé come una specie di riformatore”laicale” della Chiesa, animato da uno spirito profetico e, naturalmente, progressista; lancia le sue solite frecciate contro gli "antimodernisti" e li equipara a dei "doloristi" che hanno fatto il loro tempo ed è ora che si tolgano dai piedi, perché la Chiesa cattolica deve essere un luogo gioioso e il suo Dio è il "Dio dei vivi" e non dei morti, né - par di capire, dei sofferenti. Addirittura, sostiene che "guarire è più importante" che curare: e ci sembra che egli abbia tracciato un ritratto realmente fedele delle convinzioni religiosi e teologiche di don Verzé.
Ebbene: come il lettore di questa pagina di prosa non avrà mancato di notare, si tratta di una serie di pasticci o di vere e proprie proposizioni ereticali le quali non hanno nulla a che fare con la dottrina cattolica e con la sana teologia, anche se ammantate di parole melliflue e di frasi che sono un capolavoro di voluta ambiguità, per contrabbandare come legittime e perfino ammirevoli delle idee che sono agli antipodi della dottrina cattolica.
A Zizola, lo abbiamo capito, don Verzé piace perché è "moderno", perché è "laicale" (non potendo definirlo né laico, essendo un prete, né laicista, perché non sarebbe un complimento), e perché è un "riformista", al punto che si attira l'opposizione dei settori più conservatori e retrivi della Chiesa. Inoltre è un uomo di scienza (immancabile la citazione di Teilhard de Chardin come alfiere della ritrovata concordia fra scienza e fede; peccato che il pensiero di Teilhard sia più un naturalismo evoluzionistico e panteistico che cristiano) ed è convinto che bisogna lottare contro la malattia e la morte, per vincerle. Strano. Ci avevano insegnato, i buoni preti del tempo che fu, che la sofferenza ha un valore straordinario dal punto di vista morale; che, vissuta con accettazione e come offerta di amore a Dio, è un potentissimo strumento di perfezionamento spirituale e anche di aiuto al prossimo; e che Gesù Cristo non è venuto a toglierla, ma a darle un significato: che è la Croce. Forse erano proprio quei preti antimodernisti e doloristi di cui parla il buon Zizola. Oppure è don Verzé che non ha compreso il valore e il senso della sofferenza, e che, dall'encomiabile desiderio di lenirla, è passato all'atteggiamento - eretico - di volerla estirpare?
Don Verzé sostiene che l'uomo deve partecipare al mistero dell'incarnazione (significativamente, con la lettera minuscola) e che lui, personalmente, si sente un collaboratore dell'incarnazione, perché si sente chiamato da Dio a combattere il male per sconfiggerlo. Anche la morte deve esser sconfitta? E se un malato non è guaribile, bisognerà considerare i nostri sforzi come un fallimento? Il successo nella lotta contro la malattia è il criterio per giudicare la bontà dell'impegno cristiano? È chiaro che, assumendo questo punto di vista, si perde il senso della misura e il senso del limite: l'uomo finisce per credersi un Dio; don Verzé si è sentito investito di una parte superiore all'umana, quella del Salvatore: il classico delirio di onnipotenza della medicina moderna. Il suo possibilismo, la sua apertura sui più scottanti temi etici (che Zizola chiama “impervi e magnifici”) nascono da qui. Se don Verzé è Dio, duemila anni di morale cattolica possono essere ben riveduti, aggiornati e corretti da uno come lui: l'intensità del suo impegno e l'ampiezza dei risultati ne fanno un consacrato per merito speciale, promosso sul campo al rango di vice-Dio.
Naturalmente, per giustificare tanta arroganza, non resta che rifarsi ad un non meglio specificato "spirito profetico": tutti i teologi d’assalto e i preti presuntuosi e tendenzialmente eretici hanno sempre fatto così; e così li hanno descritti i loro ammirati discepoli. Incassata questa patente di profetismo, don Verzé è pronto per lanciarsi nella sua missione: quella di "fare l'uomo". Sì, avete letto bene: questa è l'espressione adoperata da Zizola: egli deve "fare l'uomo, servirlo, adibire ogni spazio e strumento dell'intelligenza umana all'espansione dell'umano". Ci domandiamo: è ancora cristianesimo, questo? È questa la dottrina cattolica? Il buon cristiano deve "fare l'uomo" e deve prodigarsi per servirlo ed "espanderlo". Espanderlo? Espandere cosa: la durata della sua vita, la sua sete di immortalità fisica, il suo senso di potere? Espandere il suo ego? Credevamo che il compito del buon cristiano fosse esattamente l'opposto: cioè mortificare l'io, a partire da se stesso; farsi piccolo e umile, semplice e povero di spirito davanti a Dio; farsi simile a un bambino, per poter entrare nel regno dei Cieli. Non ci sembra, leggendo il Vangelo, che Gesù abbia assolutizzato i suoi miracoli, le sue guarigioni, i suoi esorcismi; voleva addirittura tenerli nascosti, quando possibile; non voleva che la gente credesse a lui perché guariva i malati e liberava gli ossessi, ma perché indicava, con le parole e con l'esempio, la strada dell'amore di Dio e del prossimo. Ma per don Verzé questi obiettivi sono troppo modesti, evidentemente: egli farnetica di una “guarigione perfetta”, che il medico-sacerdote deve essere in grado di offrire ai suoi pazienti,
Eppure, per il Vangelo, amare il prossimo non vuol dire guarirlo: vuol dire guarirlo, se possibile; assisterlo, incoraggiarlo, volergli bene, indipendentemente dal fatto che potrà guarire o meno. Madre Teresa di Calcutta raccoglieva i morenti per strada e li portava con sé per offrire loro una morte dignitosa, facendoli sentire amati: perché la morte è un passaggio inevitabile, necessario, e che, in se stessa - certi cattolici progressisti e modernisti se lo sono forse scordato - non ha nulla di tetro, al contrario, è la porta che ci immette nella dimensione dell'eternità. Il cristiano non deve condurre alcuna crociata contro la morte; perché, se è vero che Dio non ci ha creati per la morte, ma per la vita, è altrettanto vero che non siamo noi che possiamo darci la vita e sconfiggere la morte, appunto perché noi siamo creature e non il Creatore, siamo uomini e non Dio. Ma don Verzé non la vede così. Per lui, l'incarnazione (minuscola) è un compito globale. Ma che significa questo? Evidentemente, significa che anche noi uomini siamo un po' Dio; che anche noi siamo un po' l'incarnazione di Dio; che Dio non è il nostro Creatore, ma, tutt'al più, una specie di fratello maggiore, e che noi siamo chiamati a completare la sua opera. Questo, però – sia ben chiaro -, non è affatto cristianesimo: è gnosticismo.
La degenerazione affaristica e speculativa della grande opera di don Verzé con l’ospedale San Raffaele nasce da questa errata impostazione teologica. Se l'uomo è un po' Dio anche lui, allora non valgono, per lui, gli angusti confini della morale corrente: il fine giustifica i mezzi. Ed ecco la spregiudicatezza, gli illeciti, le vere e proprie aberrazioni criminali di cui si è reso responsabile nel suo delirio di onnipotenza. Un Dio se ne va dritto per la sua strada, non va tanto per il sottile, ha un compito troppo grande e troppo urgente da portare a compimento: fare l'uomo e salvarlo. Con qualunque mezzo.
Cari cattolici progressisti, voi che, con Giancarlo Zizola, avete ammirato uomini come don Verzé; avete flirtato con loro; li avete visti e descritti come gli “uomini nuovi” e “i santi della modernità” che avrebbero traghettato la Chiesa verso le magnifiche sporti e progressive: sarebbe mai possibile, una volta tanto, una volta sola, vedervi fare ammenda, e mea culpa, e riconoscere quanta superbia intellettuale vi fosse nei loro e nei vostri errori?
Don Verzé, Giancarlo Zizola e il delirio auto-teistico dei cattolici progressisti
di
Francesco Lamendola
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