ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 12 dicembre 2015

Hanno capito molto bene: perfino troppo…


SANTIFICARE LE FESTE                                                Terzo Comandamento: ricordati di santificare le feste. Per un cristiano, il Terzo comandamento non è un optional; è, appunto, un ordine divino: una cosa da prendersi estremamente sul serio di Francesco Lamendola  


 «- Oh che sant’uomo, ma che tormento! - pensava don Abbondio: - anche sopra di sé: purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca; anche sopra di sé. – Disse poi ad alta voce: “Oh monsignore! Che mi fa celia? Chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima?” E tra sé soggiunse:- anche troppo. -»

Così Don Abbondio, nel ventiseiesimo capitolo dei «Promessi sposi», a proposito di quel sant’uomo del cardinale Federico Borromeo; e Manzoni, sia pur attraverso le parole, o meglio nel corso del dialogo interiore, di un uomo di poco valore come don Abbondio, non tralascia di mettere in evidenza un aspetto della sua personalità: l’assoluto rigore morale, pastorale, disciplinare, insomma intransigenza, spinta, talvolta, fino alla durezza.
Ne seppero qualcosa i miseri abitanti di due minuscole borgate di montagna, Morterone in Valsassina e Brumano, nell’alta Valle Imagna, a circa mille metri di quota, dietro il famoso Resegone (famoso sempre per via del romanzo; ma ben poco noto, prima di allora, fuori dell’ambito locale del lago di Lecco), i quali nel 1608 furono oggetto di una sua severa reprimenda, nel corso della vista pastorale che il cardinale fece sin nelle parrocchie più remote e malagevoli da raggiungere, con le strade di quel tempo. Sia che la faticosa salita lo avesse fisicamente provato, sia che ciò rientrasse nei suoi modi abituali, la sgridata che rivolse a quei valligiani poverissimi, i quali vivevano in un isolamento quasi inverosimile, come fuori del mondo, fu una di quelle che non si scordano facilmente, tanto più che il porporato la irrobustì con apocalittiche visioni di diavoli e di tormenti infernali. La ragione di tanta indignazione da parte del cardinale? Il fatto che, nei giorni festivi, quei contadini e quei pastori non si astenevano del tutto dal lavoro e dai loro (modestissimi) divertimenti, ma praticavano entrambi; anche se il lavoro, possiamo facilmente immaginarlo, doveva essere una necessità vitale, nel contesto delle loro misere attività rurali; e, quanto ai divertimenti, non saranno andati più in là di qualche ballo, di qualche gioco e di qualche bicchiere di vino, per dimenticare, sia pure nello spazio di poche ore, la solitudine, la fatica, le ben scarse soddisfazioni della loro esistenza d’ogni giorno.
Ma cediamo la parola a Dino Brivio nel suo bel volume «Itinerari lecchesi: fra lago e monte» (Lecco, Edizioni della Banca Popolare, 1981, pp. 21-22):

«”In loco Morteroni et Brumani”, scrisse Federico Borromeo sull’autografo di una predica, stampata poi con altre ne volume “Plebanorum Visitationum Exordia”, e aggiunta agli Atti della visita pastorale del 1608 alla Pieve di Lecco nell’edizione curata da Mons. Carlo Marcora per la Banca. “In hunc remotissimum locum” andò di persona (Morterone e Brumano certamente sono considerati equivalenti) e poiché usa il singolare, forse il Cardinale ripeté il medesimo discorso nelle due chiese.
Il suo viaggio apostolico non dovette essere propriamente gradevole: “haec altissima montium iuga, quae vos undique cingunt, non sine aliquo vitae nostrae discrimine superavimus”, disse; abbiamo valicato non senza pericolo della nostra vita queste altissime catene di montagne che vi circondano; abbiamo calpestato nevi estive e in un sol giorno abbiamo provato quattro doversi cambiamenti di tempo, “et una die quadripartitas temporum vicissitudines experti sumus”. Aggiunse che aveva avuto per alloggio una casa formata da pali conficcati nel terreno e da rami d’albero intrecciati con rovi e pruni, annerita dal fumo e dalla caligine.
Con la gente di lassù, poi, fu di una severità impressionante. In questa asperrima valle, diceva, non c’è niente che vi possa incitare al peccato, eppure voi, “inique, temere, callide peccatis”, peccate iniquamente, temerariamente, furbescamente trascurando i giorni di festa destinati al culto.
Voi che avete settimane intere e giorni lunghissimi che magari passate nell’ozio - tuonava - disertate la chiesa e la Dottrina nelle feste per l’ingordigia, “cupiditas”, di raccogliere legna e un po’ d’erba. Ma sappiate che questi lavori, questa trascuranza dei dì festivi, questi fasci di poca erba, queste fascine di legna, anziché diminuire, accrescono la vostra miseria e vi preparano la rovina eterna, “aeternam perniciem”.
E infine l’invettiva: continuate pure a cogliere rami dagli alberi nei giorni di festa, a gloria e onore del Demonio; così vi preparerete una catasta di legna sulla quale sarete buttati in un rogo ardente che vi brucerà in eterno, “lignorum struem comparetis, in rogum ardentem vos iniiciatis, ac in perpetuum comburatis”.
Negli stessi resoconti della Visita del 1608 è dichiarato che a Morterone, dove allora gli abitanti erano 320 [mentre oggi sono appena 33, e 86 a Brumano: si tratta dei comuni più piccoli d’Italia], molti eran quelli che profanavano i giorni festivi con opere servili, con balli, gazzarre, gozzoviglie  e cose simili, “qui dies festos servilibus, operibus, aut corei tripudiis, comessationibus, aliisque id genus actionibus profanare solent, multi” (per Brumano, pure 320 anime, il parroco non può dar notizie sui comportamenti della sua gente perché era rimasto soltanto due o tre decine di giorni in paese, dove era entrato pochi mesi prima).
C’è da sospettare che le fatiche, i disagi e i rischi sopportati avessero messo di malumore il cardinale Federico; infatti non solo strapazza i fedeli, ma vede brutto tutto l’ambiente, “hic sese oculis tantum subiciunt praecipites locorum anfractus, desertae rupes, nuda montium saxa”, qui agli occhi appaiono solo scoscesi anfratti, rupi deserte, nudi sassi  di montagne dalle quali a stento le gregge strappano col morso le erbe per saziarsi (i riferimenti possono valere per l’uno o l’altro villaggio: entrambi posti dietro il Resegone si somigliano in tutto).»

Ora, al di là del dato di storia ecclesiastica locale, o “minore”, come direbbero gli storici di professione; nonché della luce più realistica, meno idealizzata - e quindi anche più rustica, per non dire impietosa – che rischiara la figura del cardinale Borromeo, rispetto a quella artisticamente tratteggiata dal Manzoni, sicuramente addolcita a scopo didattico ed edificante, quello che emerge da questo documento – al di là delle personali riflessioni che ciascuno può fare, circa l’opportunità dei modi e dei toni adoperati dall’alto prelato nei confronti di quei miseri montanari della sua diocesi –, e ci sembra importante sottolineare, è il rigore consequenziale, adamantino nella sua durezza, dell’atteggiamento pastorale del cardinale. Ai suoi occhi, il fatto di trovarsi al cospetto di una comunità povera e isolata non attenua per niente la severità del giudizio circa il mancato rispetto del terzo comandamento; così come non lo attenuerà, due secoli dopo, quando un altro uomo di Chiesa, anche lui santo - ma, stavolta, un umilissimo sacerdote -, il curato d’Ars, si recherà in un angolo semi-abbandonato della Francia, per assumere la titolarità di una parrocchia anch’essa molto povera e isolata, e, nella quale, gli abitanti cercavano conforto ed evasione alla durezza del vivere nella frequentazione di alcune misere osterie, dove si abbandonavano ai soli piaceri che fossero alla loro portata: il bere e il giocare a carte; e, per i giovani, il ballare, specialmente nei giorni di festa, appunto. E tanto predicherà e tanto farà don Jean-Marie Baptiste Vianney, nel suo paesino arroccato ai piedi delle Alpi, da indurre gli abitanti a mutar stile di vita – o, per dir meglio, stile d’impiego del loro poco tempo libero -, decretando, con ciò, l’implacabile chiusura, una dopo l’altra, delle suddette osterie, mentre la frequenza alle funzioni religiose cresceva in misura direttamente proporzionale.
Era sbagliata, questa modalità di pedagogia pastorale? Esagerava la gravità della colpa, eccedeva nella severità delle reprimende e nella drammaticità delle prediche, evocanti le pene eterne dell’Inferno contro i trasgressori della legge divina? Domanda, sia ben chiaro, che poniamo facendo fin dall’inizio la tara alle consuetudini del tempo, non solo nell’ambito della Chiesa, ma anche in quella delle famiglie e delle scuole pubbliche: dove le più piccole mancanze venivano punite, di norma, con puntuale ed estrema severità; per non parlare dell’applicazione del codice penale, tanto dura da poter trasformare un brav’uomo – come ci mostra il caso di Jean Valjean, il protagonista de «I miserabili» di Victor Hugo – in un delinquente recidivo e pericoloso, almeno agli occhi dei tutori dell’ordine costituito. È chiaro, infatti, che sarebbe sbagliato, perché antistorico, pretendere di giudicare il comportamento del cardinale Borromeo, o quello del curato d’Ars, sulla base dei nostri attuali parametri culturali e religiosi; e altrettanto assurdo sarebbe, per la stessa ragione, domandarsi cosa penserebbero e cosa mai direbbero o farebbero quei due personaggi, se, trasportati al presente con una fantascientifica “macchina del tempo”, potessero vedere i negozi aperti, i supermercati e i centro commerciali traboccanti di folla in preda alla frenesia consumista, o le discoteche rigurgitanti di giovani desiderosi di stordirsi con il ballo e, sovente, con sostanze stupefacenti, del tutto dimentichi del precetto di santificare le feste. (Antistorico, ma interessante, ci sia concessa questa piccola impertinenza: e specialmente lo sarebbe osservare la reazione di Federico Borromeo o di Jean-Marie Vianney, oggi, davanti al silenzio e all’acquiescenza delle autorità religiose, dei vescovi, dei parroci, dei catechisti, davanti alla profanazione delle domeniche, e perfino del Natale e della Pasqua, nel clima sfrenato del consumismo ovunque imperante).
Per un cristiano, il Terzo comandamento non è un optional; è, appunto, un ordine divino: una cosa da prendersi estremamente sul serio. La sua infrazione è una colpa grave: è un peccato mortale. Per un non cristiano, per un non credente, la santificazione della domenica è, in ogni modo, una usanza che fa parte della tradizione della nostra civiltà, alla quale noi tutti apparteniamo; una usanza che è addirittura incardinata nella tradizione e che, se non altro per questo, è un qualcosa da rispettare, pur non condividendone il significato religioso. Tanto più sorprendente appare la facilità con la quale tale usanza è stata abolita, silenziosamente e nel giro di pochissimi anni: senza clamore, senza nemmeno bisogno di lottare, quanti la volevano distruggere si son trovati tutte le porte spalancate e hanno raggiunto la vittoria totale, senza colpo ferire. Almeno in Italia: la culla del cattolicesimo. Se si prende un pullman turistico e si va a Vienna, per visitare la città e per visitare i mercatini di Natale, si scoprirà che, la domenica, tutti i negozi rimangono rigorosamente chiusi: e la guida informerà i turisti che tale è l’unanime volontà del popolo austriaco, per rispetto della tradizione cattolica. Come mai a Roma, mentre si celebra il Giubileo – con un discutibile spettacolo in stile Disneyland, corredato da una fantasmagoria di leoni, tigri, elefanti, meduse e templi di altre religioni, proiettati sulla facciata della Basilica di San Pietro, nessuna voce autorevole della Chiesa cattolica si fa sentire a proposito del disprezzo dilagante riguardo al terzo Comandamento? Forse quei signori sono troppo impegnati a predicare la loro vicinanza ai poveri e il dovere, per l’uomo, di farsi custode del creato, nonché il dovere, per i cattolici o ogni altro cittadino dell’Europa, di accogliere illimitatamente qualunque immigrato, e di sentirsi in colpa per ogni nuova “strage del mare” (quasi che qualcuno di noi mandasse a fondo deliberatamente quelle imbarcazioni o, magari, aprisse il fuoco sui poveri naufraghi). Forse quei signori sono tropo impegnati a magnificare il Concilio Vaticano II, a rivalutare ed esaltare la teologia della liberazione, a promuovere film sul papa Bergoglio, che ne fanno un mito vivente, a due soli anni dalla sua elezione e mentre è ancor vivente anche il papa emerito, Ratzinger, che oscure manovre di palazzo hanno boicottato in ogni modo e, alla fine, molto probabilmente, costretto ad abdicare.
Il bello (si fa per dire) è che la kermesse neopagana, animalista e ambientalista, in cui è stato trasformato l’avvio del Giubileo, è stata finanziata anche da quella Banca Mondiale che, come tutti sanno - perfino i bambini -, è fra i massimi responsabili dello scempio ecologico del pianeta, nonché della povertà dei popoli del Sud della Terra. C’è qualcosa che non quadra, in tutto questo. Qualcuno si dovrebbe fare delle domande; e qualcun altro dovrebbe dar delle risposte, possibilmente credibili, se non del tutto convincenti. Sta succedendo qualcosa che va contro il buon senso più elementare, prima ancora che contro la Tradizione (con la maiuscola: perché l’astensione domenicale dal lavoro, lo ripetiamo, non è il frutto di una legge umana, ma è scritta nelle tavole dei 10 Comandamenti, che, per i cristiani, sono legge divina). Aspettiamo, dunque, quelle risposte. Molte persone, credenti e anche non credenti, sono confuse, sconcertate, turbate. Non capiscono secondo quale logica si stia muovendo una parte della Chiesa; o forse temono di averlo capito molto bene: perfino troppo…
Terzo Comandamento: ricordati di santificare le feste

di Francesco Lamendola


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