ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 9 dicembre 2015

Il male che grida vendetta al Cielo


LIBERTA' DELL'UOMO E CIVILTA                                                                                                                                                          È la fede nella creazione che dà all’uomo una nuova libertà davanti al mondo.Vero male che grida vendetta al Cielo non è il semplice errore ma il suo indurimento la sua ostinazione nel tempo e la sua pretesa di sostituire il bene contraffacendolo   



  
A partire dal Rinascimento, ma soprattutto dall’Illuminismo, l’immagine del Medioevo è stata consegnata ad uno stereotipo tanto piatto e banale, quanto fuorviante, che ne ha fatto l’età dell’ignoranza e della superstizione per antonomasia, e, soprattutto, l’età della mortificazione dell’uomo, in nome di un fanatismo teocratico architettato dalla mente diabolica di un clero avido, intrigante, colluso con il potere politico, il cui unico scopo era quello di perpetuare la sottomissione dell’intera società al doppio giogo del feudalesimo e della Chiesa cattolica.
I romantici e alcuni loro tardi epigoni, viceversa, sono caduti nell’eccesso opposto: nel loro storicismo assoluto, ideologico, pregiudiziale, hanno voluto adornare la civiltà medievale di tutte le qualità possibili e anche, a dire il vero, di alcune decisamente impossibili: come se mai prima di allora, e mai dopo di allora, la civiltà umana avesse toccato il vertice assoluto, non più replicabile, della perfezione spirituale, politica, sociale, culturale; quasi che, nel Medioevo, gli uomini si fossero smaterializzati e fossero diventati angeli, per un colpo di bacchetta magica. Fra questi due estremi si colloca la valutazione di uno dei massimi filosofi e teologi del XX secolo: Romano Guardini (nato a Verona nel 1885 e spentosi a Monaco di Baviera nel 1968), un italiano trapiantato in Germania quando aveva appena un anno, e divenuto uno dei più insigni esponenti del pensiero cattolico tedesco, autore di una produzione filosofica e letteraria di primissimo ordine, che, nel suo Paese di adozione, è tuttora tenuta nel massimo conto, mentre nel suo Paese di origine è conosciuta poco e male, e che oggi rischia di esse addirittura dimenticata.
Non è questa la sede per rievocare questa grande figura di uomo, di studioso e di sacerdote (lo abbiamo già fatto, del resto, in alcuni precedenti articoli: cfr. «La riflessione sul potere nel pensiero di Romano Guardini» e «Satana, il nemico, nel pensiero di Romano Guardini», pubblicati sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente il 20/06/2007 e il 21/01/2008, e ripubblicati entrambi, più recentemente, su «Il Corriere delle Regioni»). Pertanto limiteremo la nostra riflessione al tema che ci stavamo ponendo: l’analisi e il giudizio storico sulla civiltà medievale. Romano Guardini ha avuto il grande merito di porre la questione nei suoi termini esatti: termini non solo storiografici, ma filosofici (da vero filosofo, qual era); vale a dire, facendo astrazione – per quanto possibile – da singoli aspetti della civiltà medievale, nei quali il giudizio può essere discorde, e andando al cuore del problema, che non riguarda – poi - solo la civiltà medievale, ma qualsiasi civiltà umana. E il cuore del problema è questo: una civiltà può dirsi tanto più “riuscita”, armoniosa, felice, quanto più si avvicina all’obiettivo di sviluppare la vita umana in tutta la sua pienezza; e questo, ovviamente, non in base a categorie scientificamente misurabili e quantificabili, né, tanto meno, in base alla disponibilità di beni e servizi, ai ritmi della produzione, ai dati sulla occupazione o sulla scolarizzazione, sul prodotto nazionale lordo, sull’inquinamento atmosferico, sulla durata della vita media, e così via, ma tenendo conto delle sue reali possibilità, materiali e spirituali, e accettandole per quello che sono state, senza pretendere di istruire un assurdo e antistorico processo al passato, in base a ciò che noi riteniamo giusto e buono in assoluto, vale a dire in maniera perfettamente ideologica.
Questo, naturalmente, presuppone che si abbia già un’idea di che cosa significa «sviluppare la vita umana in tutta la sua pienezza». Sbaglierebbe, tuttavia, chi supponesse che tale idea debba essere per forza di segno ideologico o confessionale, cioè precostituita in senso socio-politico, religioso, filosofico, eccetera; al contrario, la pienezza di vita non è una categoria ideologica, ma corrisponde, puramente e semplicemente, a ciò che qualunque osservatore imparziale (o che tenti, almeno, di essere tale) potrebbe vedere e giudicare a proposito del livello complessivo e delle specifiche condizioni della vita umana, non in base a delle categorie predefinite, ma in base, appunto, a ciò che quella data civiltà, in quelle date condizioni di sviluppo – e non altre – è suscettibile di assicurare ai suoi membri, o al maggior numero possibile di essi. Perché una cosa è certa: nessuna civiltà umana potrà mai assicurare il massimo della libertà e della pienezza a tutti indistintamente i suoi membri: credere una cosa del genere, significa cadere nell’utopia di Rousseau - una utopia solo apparentemente innocente e benevola, ma foriera, in realtà, di germi totalitari, e suscettibile di introdurre e diffondere dei mali sociali assai peggiori di quelli che, in teoria, si era prefissa di combattere ed eliminare.
Ed ecco cosa scriveva Romano Guardini nel saggio «La fine dell’epoca moderna» (titolo originale: «Das Ende der Neuzeit. Ein Versuch zur Orientierung», Basel, Hess Verlag, 1950; traduzione italiana di Marisetta Paronetto Valier, Brescia, Morcelliana, 1954, 1984, pp.  16-18, 28-29):

«… Nel Medio Evo la condotta dell’uomo e la rappresentazione del mondo si trasformano radicalmente. L’uomo crede nella rivelazione biblica. Questa lo rende certo di una realtà divina esteriore e superiore al mondo. Senza dubbio Dio è anche entro il mondo, poiché da Lui il mondo è creato, mantenuto, portato a compimento; ma Dio non appartiene al mondo e sta come sovrano di fronte ad esso. Questa indipendenza è radicata nella autenticità della sua assolutezza e nella purezza della sua personalità. Il Dio assolutamente personale non può essere contenuto da alcun mondo, ma esiste in sé, signore di se stesso. Ama il mondo, ma non ne dipende. Le divinità mitiche si reggono e crollano assieme al mondo che è il loro regno; gli esseri assoluti della filosofia sono intimamente legati alla totalità dell’universo; ma Dio non ha bisogno del mondo per nessuna ragione. Egli esiste in sé, sufficiente a  se stesso.
Questa sovranità si manifesta in modo fondamentale attraverso la creazione. Solo alla luce della Bibbia si ritrova l’autentico concetto della creazione, che nella libertà dell’onnipotenza, senza alcuna necessità interiore e senza nessun dato esterno, per la sovranità del Verbo, dal nulla, pone il mondo nella sua essenza e nella sua realtà. In ogni altro caso l’immagine della formazione del mondo ha carattere mitico: si tratta della divinità primitiva che si sviluppa diventando mondo, ovvero di una divina potenza creatrice, che plasma un caos anch’esso divino. Secondo la rivelazione biblica invece, il mondo è creato da Dio che, dal canto suo, non ha in alcun modo bisogno del mondo o di elementi del mondo per esistere o per creare.
Credere significa dunque avere fiducia in questa rivelazione che Dio fa di sé ed obbedire, accogliere quel suo appello per cui si costituisce la persona finita e riferire a Lui la propria vita.
Si stabilisce così una nuova fase dell’esistenza, che non è deducibile né dall’elemento mitico, né  dal pensiero filosofico. Si spezza il legame mitico dell’uomo con il mondo e si manifesta una nova libertà. Una nuova distanza dal mondo rende possibile quella visione e quella posizione che sono indipendenti dai doni personali e dalla situazione culturale ed erano negati all’uomo dei tempi antichi. e insieme diviene possibile una costruzione totale dell’esistenza alla quale non si sarebbe potuto pensare nel passato. […]
Per farsi una idea esatta della natura del Medio Evo, bisogna liberarsi da tutte le valutazioni polemiche che risalgono al Rinascimento e all’Illuminismo e che ancor oggi ne deturpano l’immagine,  ma anche da tutte le glorificazioni del Romanticismo,  che attribuiscono al Medio Evo un carattere addirittura canonico e hanno impedito a più d’uno di entrare in contatto col presente senza pregiudizi.
Giudicato col sentimento moderno del mondo, il Medio Evo appare facilmente come una mescolanza di primitivo e di fantastico, di costrizione e di dipendenza: ma questa immagine non ha nulla a che vedere con la conoscenza storica. La sola misura con cui si possa validamente giudicare un’epoca è il sapere fino a che punto l’esistenza umana vi si è sviluppata nella sua pienezza, giungendo, secondo le proprie particolarità e possibilità, al suo vero significato. E ciò è avvenuto nel Medio Evo in misura tale da porlo fra le epoche più alte della storia.»

La civiltà medievale, dunque, riuscì ad assicurare una notevole pienezza di vita – non una pienezza assoluta, si badi – ai suoi membri, proprio perché tenne lo sguardo costantemente rivolto al misero della creazione: mistero nel quale la libertà e l’onnipotenza di Dio si fondono meravigliosamente, senza che l’intelletto umano sia capace di stabilire i rispettivi confini dell’una e dell’altra; perché, come avrebbe detto Dante: («Purgatorio», III, 37-39): «State contenti, umana gente, al quia / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era paturir Maria». L’uomo è creatura, e sa di esserlo, e sia pure la creatura più perfetta; non può comprendere tutto, perché, se lo potesse, non sarebbe più creatura, ma Creatore; invece tutto quel che egli può fare è di affidarsi alla infinita saggezza divina. Eppure egli gode di una libertà nuova davanti al mondo, sconosciuta all’uomo greco e romano.
In fondo, si tratta di una chiara e non equivoca percezione del senso del mistero e del senso del limite: la duplice consapevolezza che racchiude l’alfa e l’omega dello spirito medievale, e che caratterizza in maniera così nitida quella civiltà, nel medesimo tempo in cui la differenza dalla nostra, ossia dalla cosiddetta civiltà moderna. La civiltà moderna, infatti, ha smarrito sia il senso del mistero, sia il senso del limite; ne è derivata una assoluta confusione di ruoli fra creatura e Creatore, anzi, per dir meglio, una pretesa luciferina della creatura di ergersi a Creatore, di contraffare le attribuzioni del Creatore (si veda, a titolo di esempio, la manipolazione genetica, in forme sempre più raffinate, o, secondo i punti di vista, sempre più inquietanti e persino diaboliche), e di un sovvertimento radicale nell’ordine e nella gerarchia dei valori.
Qui sta il punto: i valori sui quali si basa la civiltà medievale sono fissi e chiaramente riconoscibili, perché garantiti da Dio stesso, l’Essere, il valore supremo, l’intelligenza suprema e l’amore supremo; mentre i valori della civiltà moderna sono quanto di più confuso, aggrovigliato, caotico e contraddittorio si possa immaginare, perché non sono garantiti da nessuno: e l’uomo, che vorrebbe farsene garante, oltre a non possedere, per il proprio statuto ontologico creaturale, la necessaria autorevolezza, si fa un punto d’onore nel negare che dei valori assoluti e permanenti esistano e siano riconoscibili, al di sopra della incessante mutevolezza del divenire storico (relativismo etico). Da qui all’indifferentismo religioso, filosofico, esistenziale, non vi è che un passo: e quel passo l’uomo contemporaneo viene continuamente sollecitato a compierlo; anzi, gli viene perfino raccomandato di compierlo dalla cultura dominante, perché, se egli non lo compie, siffatta cultura lo accusa  di intolleranza, di fondamentalismo, di mancanza di umiltà e di consapevolezza della pluralità delle prospettive culturali.
Non possiamo, a questo punto, non formulare un giudizio sulla civiltà moderna, rispetto al parametro centrale che avevamo individuato all’inizio, e domandarci: è essa capace di promuovere l’esistenza umana nella sua pienezza, guidandola e orientandola verso il suo autentico significato? Se il significato dell’esistenza umana fosse quello di accumulare beni, di allungare la durata della vita, di moltiplicare le occasioni e le possibilità di godimento fisico, saremmo portati a conclude che la civiltà moderna è quella che maggiormente si è avvicinata al traguardo, fra tutte quelle che la storia passata ci ha dato modo di conoscere. Ma se, al contrario, il significato dell’esistenza è un altro; se esso ha a che fare con la scoperta e il riconoscimento dei veri fini, che altro non sono se non il ritorno all’Essere, da cui tutto ha avuto principio, e in cui tutto avrà fine, e da cui traggono alimento tutti i fermenti di bene, di verità, di giustizia, di bellezza, e trovano ostacolo tutte le occasioni di male, di falsità, d’ingiustizia e di bruttezza, allora il nostro giudizio sarà praticamente opposto, e dovremo ammettere che poche volte, nella storia, gli uomini si sono allontanati così tanto, e in maniera così scandalosamente compiaciuta, dal vero significato dell’esistenza.
Il vero male, infatti, il male che grida vendetta al Cielo, non è il semplice errore, ma l’indurimento nell’errore, la sua ostinazione nel tempo e la sua pretesa di sostituire il bene, contraffacendolo: il Male veramente diabolico è quello che pretende di sostituirsi al Bene, dopo averlo orribilmente scimmiottato e adulterato, stravolto e reso irriconoscibile, impedendo il cammino di quanti lo cercano con cuore sincero, ritardandolo e ostacolandolo in ogni modo. Ora, se la civiltà moderna sia moralmente riformabile o no, è questione di giudizio personale; ma questione che c’interpella tutti, perché dal giudizio sul significato dell’esistenza dipende il concreto orientamento della nostra vita...

È la fede nella creazione che dà all’uomo una nuova libertà davanti al mondo

di Francesco Lamendola


Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.