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giovedì 14 gennaio 2016

La guerra giusta e la rinascita cristiana

Putin ha un alleato in più nella guerra in Siria: il patriarca Kirill

La chiesa di Mosca tra epurazioni e tensioni con la Santa Sede. Il problema del "doppio nazionalismo ortodosso" alla prova ucraina

Il patriarca di Mosca, Kirill (LaPresse)
Roma. Per la prima volta, il patriarca di Mosca Kirill ha lodato l’operazione militare russa in Siria. L’ha fatto nel giorno del Natale ortodosso, lo scorso 7 gennaio, in un’intervista alla tv pubblica Russia 1. Kirill ha parlato di “guerra giusta”, definendo le mosse del Cremlino una “difesa della madrepatria”, dal momento che Damasco “è solo apparentemente lontana”.
Un discorso che – come dice al Foglio don Stefano Caprio, docente di Cultura russa al Pontificio istituto orientale di Roma – ricalca “un tipico argomento vaticano, che è quello della guerra perpetrata solo a scopi difensivi. Un tema caro alla Santa Sede, meno ai russi”. Forse, ha detto il nostro interlocutore, “gioca un ruolo anche il fatto che l’attuale capo della chiesa di Mosca nutra una particolare ammirazione per la Compagnia di Gesù e stia cercando di strutturare il patriarcato come una sorta di curia romana in salsa moscovita”. Le parole di Kirill assumono rilevanza non solo perché mai prima d’ora era intervenuto sull’operazione bellica in chiave anti Isis, ma anche in quanto tende a riassestare i rapporti con il Cremlino, tutt’altro che distesi: “Sulla questione ucraina, e ancor di più in relazione all’annessione della Crimea, il dissidio con Putin è notevole. Sulla Siria, invece, la sintonia è più evidente”, osserva Caprio, che legge nelle parole del patriarca la volontà di abbassare i toni utilizzati di recente anche da alti esponenti della gerarchia moscovita, che assai poco erano stati graditi ai vertici dello stato. Il riferimento è alla rimozione di alcuni funzionari del patriarcato, tra cui l’arciprete Chaplin, già responsabile del dipartimento per le relazioni tra la chiesa ortodossa di Mosca e la società. “Ha pagato per aver parlato di ‘guerra santa’ in Siria fin da quando i russi hanno messo piede laggiù, lo scorso settembre”, dice Caprio, che fu tra i primi sacerdoti cattolici a entrare nel 1989 nell’Unione sovietica prossima allo smembramento.

ARTICOLI CORRELATI La guerra a pezzi fa scintille, ma il Papa non ha ancora trovato (seri) alleati Le convergenze tra il Papa e Putin Putin cerca la sponda del Papa, ma l’Ucraina può rovinare la festa“Kirill parla di guerra giusta e non santa, usa quindi un linguaggio più scolastico e meno ‘russo’, cioè meno enfatico”. Si può parlare a ragione di una “doppia interpretazione del nazionalismo ortodosso: da una parte c’è il patriarca che preferisce darne un’idea più spirituale, che punta a un’ortodossia votata a essere faro spirituale del mondo. Ha una visione moderata, spinge sulla difesa dei valori tradizionali, chiede di difendere non solo i cristiani ma anche i musulmani che non hanno nulla a che spartire con il terrorismo. Dall’altra c’è l’ortodossia militante di Putin, più classica”. E’ una situazione – nota Caprio – “che ricorda la guerra ottomana di metà Ottocento, quando a Nicola I, che voleva difendere a tutti i costi il prestigio russo, si contrappose il Patriarcato, sostenitore di posizioni ben più moderate. Questo schema si è rotto sulla Crimea e sull’Ucraina”, e per comprenderne ragioni e implicazioni è sufficiente ricordare che “Mosca rappresenta oggi il settanta per cento degli ortodossi e metà di questi sono ucraini”. E’ da tale quadro, insomma, che deriva l’estrema cautela di Kirill sul tema.

Che il patriarcato abbia poi poco gradito le frequenti incursioni del presidente in Vaticano non è un mistero, benché non si noti un peggioramento nelle relazioni tra la chiesa ortodossa moscovita e la Santa Sede: “I rapporti sono buoni ma comunque molto freddi e non è un mistero che ci fosse più intesa (specie sul terreno della difesa della famiglia e dei valori) con Benedetto XVI. Non c’è nessun interesse a sviluppare rapporti reciproci, si preferisce in questa fase mantenere lo status quo”, dice don Caprio, che aggiunge: “Di certo, il Patriarcato vorrebbe che Roma si esponesse di più sulla situazione dei cristiani in medio oriente”. Meno diplomazia, insomma. Sulla politica estera l’intesa arriva fino a un certo punto: “La veglia del 2013 per scongiurare i raid occidentali su Damasco segnò una convergenza piena, ma poi non sono state trovate altre sponde”. La stessa cosa vale per la custodia del creato, tema sul quale il Papa “è più vicino a Bartolomeo I di Costantinopoli”, che di certo non ha rapporti idilliaci con Mosca, dove non a caso è soprannominato “il patriarca turco”. E questo, per i russi, non è un complimento.
di Matteo Matzuzzi | 14 Gennaio 2016 
http://www.ilfoglio.it/chiesa/2016/01/14/putin-ha-un-alleato-in-pi-nella-guerra-in-siria-il-patriarca-kirill___1-v-136985-rubriche_c167.htm

Putin, la guerra giusta e la rinascita cristiana
  • Il 30 settembre scorso Vladimir Putin iniziava i bombardamenti contro le postazioni jihadiste in Siria. Qualche giorno dopoil patriarca ortodosso Kirill affermava: “La Federazione russa ha preso una decisione responsabile sull’uso delle forze armate per proteggere il popolo siriano dagli abusi dei terroristi”. Il portavoce del patriarcato di Mosca, Vsevolod Chaplin, si spingeva ancora più in là – “È impossibile da giustificare, perciò la lotta contro il terrorismo è una lotta morale, se volete, una lotta sacra” – mentre il gran Muftì di Russia, Talgat Tadzhuddin, dimostrava il suo “deciso supporto per il rispettabile presidente Putin”.
    Attraverso le operazioni militari in Siria Putin diventava – volente o nolente – il protettore dei cristiani in Medio Oriente, tanto da spingere il vescovo della Chiesa Siriaca Ortodossa di Antiochia, Boulos Safar, a dire: “Con l’avvio dei raid russi il fronte di guerra si è sicuramente allontanato di molto, facendo diminuire così i pericoli per la popolazione. La gente si sente più sicura. Hanno più fiducia nei russi che negli americani perché hanno visto un vero cambiamento”.
    Putin e la rinascita cristiana in Russia
    Alla fine degli anni ’80 la Chiesa ortodossa russa viveva uno dei suoi periodi più difficili. I fedeli, dopo oltre ottant’anni di comunismo, erano ridotti all’osso: solo il 17% della popolazione si dichiarava ortodosso. Gli atei, invece, erano il 75%. Questi dati, nel corso di questi ultimi quindici anni, si sono invertiti: la maggioranza dei russi – circa il 68% – si dichiara ortodossa mentre gli atei sono solo il 19%.
    A cosa è dovuto questo “ribaltamento”? Innanzitutto a una legge approvata nel 1997 da Boris Eltsin che concede alla religione ortodossa un ruolo speciale nella storia e nella cultura russa, e poi all’azione di recupero della tradizione religiosa da parte di Putin. Il leader del Cremlino ha più volte ricordato del suo battesimo segreto e della sua conversione nel 1993, quando un incendio rischiò di portargli via la moglie.
    A partire da quel momento Putin si è avvicinato al cristianesimo: cerca, come spiega bene Alessio Mulas in Rinascita di un impero. La Russia di Vladimir Putin, di riflettere nella sua politica il suo credo, in particolare nella difesa della famiglia tradizionale. Storiche sono le parole pronunciate dal leader russo il 19 settembre 2013 al Valdai Club: “[Molti paesi occidentali] portano avanti una politica che equipara una famiglia con tanti figli ai legami omosessuali, la fede in Dio a quella in Satana. […] Sono convinto che tutto ciò porti a un sentiero di degrado e primitivismo, sfociando in una profonda crisi demografica e morale”.
    La “guerra giusta” dello zar
    Ma torniamo ai giorni nostri. Sono passati più di tre mesi dall’inizio dei bombardamenti russi in Siria e la “santa alleanza” tra Kirill e Putin si è fatta ancora più forte. Proprio nel giorno più importante per gli ortodossi, quello di Natale, il patriarca ortodosso, come riporta Il Foglio, “ha parlato di ‘guerra giusta’, definendo le mosse del Cremlino una ‘difesa per la madrepatria’, dal momento che Damasco ‘è solo apparentemente lontana’”. Guerra giusta. Non santa. E il motivo è semplice: quella di Putin non è una battaglia religiosa tra cristiani e musulmani e nemmeno uno scontro di civiltà così come era stato ipotizzato da Samuel Phillips Huntington. È semplicemente una guerra politica. Giusta o sbagliata, ma solo una guerra politica combattuta per la sicurezza della Russia.
    La sporca guerra giocata sulla fame di Madaya
    di Giorgio Bernardelli14-01-2016
    La Croce Rossa entra a Madaya
    Il convoglio di 44 camion della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa - sotto l'egida dell'Onu - alla fine è arrivato a Madaya, la cittadina a 25 chilometri a ovest di Damasco, sulle montagne del Qalamoun (al confine con il Libano), diventata nelle ultime settimane il nuovo luogo simbolo della guerra in Siria. Madaya il posto dove si muore di fame per l'assedio delle milizie di Hezbollah, alleate del presidente siriano Bashar al Assad. 
    Madaya buona - oggi - per rilanciare almeno il fronte mediatico di una battaglia, in quella zona, ormai persa sul campo: basta guardare una cartina aggiornata per capire che si tratta di una posizione militarmente indifendibile per il fronte dei ribelli siriani. Eppure - se tenuta a soffrire e trasformata in hashtag, con relativa campagna in cui arruolare senza troppe distinzioni le risorse utili alla causa (comprese immagini di altre tragedie spacciate per nuove) - può venire lo stesso utile. Perché in Siria siamo alla vigilia dell'ennesimo tavolo negoziale che si dovrebbe aprire a Ginevra il 25 gennaio sotto l'egida dell'Onu.
    Vuole dire che le sofferenze di Madaya sono inventate? Certamente no: tante testimonianze attendibili dicono che la situazione è insostenibile. In tutte le guerre gli assedi sono una cosa terribile, con le sofferenze inflitte alla popolazione civile (a proposito: ne sanno qualcosa anche ad Aleppo, dove le stesse milizie assediate a Madaya hanno più volte in questi anni interrotto le forniture d'acqua ai quartieri sotto il controllo delle forze alleate di Assad). Vedere però Madaya utilizzata dagli strateghi sauditi della comunicazione sul nuovo account twitter @infographic_ksa, gettata tra una carico da novanta e l'altro nella guerra delle (per ora) parole con l'Iran, almeno il sospetto che non si tratti solo di un'emergenza umanitaria dovrebbe sollevarlo. Nota a margine: tra le lingue attraverso cui @infographic_ksa ha scelto di diffondere il suo disegno corredato dai dati su Madaya, oltre ad arabo, inglese, francese, tedesco, spagnolo, russo e cinese figura anche l'ebraico. 
    Sì, i sauditi adesso si rivolgono senza mediazioni anche all'opinione pubblica israeliana; ovviamente, però, per parlare di quanto sta a cuore a loro, non di ciò che succede a Gerusalemme... Dentro a tutto questo, dunque, va inserita la preoccupazione per i civili di Madaya - che come ricordava qualche giorno in un'intervista ad AsiaNews il patriarca melchita Gregorio III Laham, forse oggi non sono ostaggio proprio solo di Hezbollah (clicca qui). Però vale la pena di tenere a mente anche che cosa in teoria dovrebbe succedere a partire dal 25 gennaio intorno alla Siria.
    Negli ultimi giorni del 2015, infatti, era stato il mediatore dell'Onu Staffan de Mistura a convocare per questa data i nuovi colloqui previsti dall'ultima risoluzione sulla Siria, quella adottata all'unanimità dal Consiglio di sicurezza dell'Onu il 18 dicembre scorso. Un atto salutato un po' troppo ottimisticamente come una svolta, con l'indicazione di una road-map che dovrebbe comprendere come primo passo l'accordo su un cessate il fuoco tra le forze fedeli al governo di Damasco e almeno la parte dei ribelli ufficialmente sancita da un sostegno internazionale. Nelle intenzioni dell'Onu questo cessate il fuoco sarebbe la premessa alla costituzione di un governo di unità nazionale, incaricato di traghettare il Paese nel giro di due anni verso nuove elezioni presidenziali. 
    L'unica vera novità di tutto questo percorso sta, però, nella sua ambiguità: Stati Uniti e Francia hanno rinunciato a esplicitare come precondizione l'uscita di scena di Bashar al Assad. Ma la risoluzione non dice nemmeno che resterà e - dunque, nella migliore tradizione dell'Onu -, ciascuno interpreta la risoluzione come gli pare.  Per di più nel frattempo l'Arabia Saudita il 2 gennaio ha lanciato la sua offensiva anti-iraniana con l'esecuzione dell'imam sciita Nimr al-Nimr e tutto quello che ne è seguito. Il che non è esattamente il contesto migliore per un negoziato che - come chiunque ormai ha capito - serve soprattutto a mettere intorno a un tavolo a discutere del futuro della Siria le due potenze regionali e i loro alleati, cioè quelli che tirano le fila del conflitto. 
    Proprio per questo nelle ultima settimane Riyad ha serrato i ranghi del fronte sunnita, con una girandola di incontri diplomatici. Anche perché sul terreno le cose per loro non si stanno mettendo per niente bene: a nord ovest avanzano le truppe lealiste sostenute dall'aviazione russa (proprio l'altro giorno hanno strappato ai ribelli il controllo di Salma, un'altra cittadina vicina al confine con la Turchia); a nord est avanzano invece i curdi, avvertiti sempre di più come una presenza ostile dalle milizie sunnite. In mezzo c'è Aleppo, la città martire che è anche il nodo cruciale per le sorti di questo conflitto. 
    Riuscirà - dunque - il negoziato che si apre il 25 gennaio a partorire quella soluzione politica che permetta a tutti di salvare la faccia evitando nuove carneficine? I sauditi oggi mostrano i muscoli, ma continuano ugualmente a ripetere che lo scontro con Teheran non pregiudicherà il negoziato di Ginevra. E la Turchia si trova adesso anche a pagare in casa propria il prezzo delle tante ambiguità mantenute nel suo rapporto con l'Isis. La verità è che oggi il tempo in Siria non sembra più giocare a favore dei due principali sponsor delle milizie sunnite. E forse - alla fine - proprio questo potrebbe risultare l'unico asso nella manica nel nuovo round di negoziati.

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