Le incertezze e le paralisi che la Chiesa italiana ha reso evidenti nella confusione sulla linea da prendere a proposito del disegno di legge Cirinnà hanno un nome: pastoralismo. Una Chiesa che si è così a lungo macerata e lacerata su una cosa in vero molto semplice da fare, come opporsi ad una legge disumana da tutti i punti di vista, richiede una ragione culturale: il pastoralismo. Il pastoralismo ha fatto dire a tanti vescovi e sacerdoti che le manifestazioni di piazza rompono il dialogo e non costruiscono.
Il pastoralismo ha fatto pensare a molti che non bisogna più intervenire sulle leggi, ma solo sulle coscienze delle persone. Il pastoralismo ha fatto pensare che la Chiesa debba solo formare – chissà poi chi, dove e come – e poi ognuno entra nella pubblica piazza con la propria coscienza. Il pastoralismo fa ritenere a tanti preti che la Chiesa non debba dire mai di no, ma piuttosto debba accompagnare tutti e sempre. Il pastoralismo ha fatto sì che per qualcuno una presa di posizione contro l’omosessualità toglierebbe spazio alla pastorale delle situazioni di frontiera, tra cui quella delle persone con tendenze omosessuali.
Il pastorialismo fa ritenere che scendendo sul terreno delle leggi civili la fede cattolica diventi ideologia. Il pastoralismo ha impedito a tante comunità cattoliche di trattare certi temi, perché troppo carichi di valenze politiche e quindi potenzialmente divisivi. Il pastoralismo ha indirizzato tante Diocesi a trattare certi temi, ma con l’intervento di tutte le opinioni in campo e senza prendere posizione. Il pastoralismo, per non precludere la via dell’azione pastorale, ha bloccato ogni azione. Una Chiesa molto pastorale, ma per questo afasica e aprassica.
Il pastoralismo è una malattia della Chiesa italiana di oggi. Secondo il pastoralismo non solo noi ma anche Dio non deve giudicare le situazioni e i comportamenti, perché giudicando impedirebbe l’incontro pastorale con tutti. Anche questo dei pastoralisti è una forma di giudizio, naturalmente, dato che non si prende posizione nei confronti della realtà se non giudicandola, ma ciò non toglie che il nemico mortale del pastoralismo, pur contraddittoriamente, sia il giudicare. Nemmeno una legge, secondo il pastoralismo, si può giudicare perché in questo caso la fede diventerebbe dottrina imposta e impedirebbe la pastorale. Giudicata male una legge, ti tagli i rapporti con coloro che invece in quella legge credono. Il pastoralismo è senza verità, perché senza giudizio non c’è più verità. Il pastoralismo è un sentimento, un atteggiamento agnostico, un prendere posizione senza prendere posizione, un inganno.
La Chiesa italiana si sta spostando da una presenza strutturata, a partire da un bagaglio di visioni delle cose, con alle spalle un patrimonio dottrinale anche nella forma di dottrina sociale della Chiesa e con davanti un progetto culturale, ad una presenza destrutturata, immediata, priva di distinzioni di piani, fondata su un lodevole slancio di carità e di voglia di incontrare l’altro, ma priva ormai della volontà di incontrarlo all’interno di una costruzione del bene comune, complessa ed articolata.
Gli immigrati vanno accolti: sì ma le politiche dell’integrazione come le impostiamo? La precarietà lavorativa va eliminata: sì ma le politiche del lavoro come le facciamo? Questa economia uccide: sì ma come impostiamo le politiche economiche e finanziarie oltre la buona volontà individuale e gli slogan moralistici? Delle istituzioni ce ne occupiamo ancora? E delle leggi? E della politica? Trasformiamo tutta la Chiesa in una Caritas o ricominciamo a insegnare e ad apprendere la dottrina sociale della Chiesa, che ci dia una cultura del sociale e del politico, un quadro dottrinale e teorico in grado di orientare al bene la nostra presenza, non solo nella solidarietà dei bisogni dei senzatetto – vera ma corta - ma anche in quella lunga della vita, della famiglia e della scuola?
Al convegno ecclesiale di Firenze non ho trovato traccia della dottrina sociale della Chiesa, che – almeno così mi sembra – non sia mai nemmeno stata nominata. Per andare a portare una bevanda calda e una coperta a chi dorme all’addiaccio di notte essa non serve, ma per prevenire quelle situazioni oltre che curarle è invece molto importante. La Chiesa italiana vuole solo andare tutta a portare le bevande calde a chi dorme all’addiaccio di notte? Vuole andare tutta a Lampedusa? O vuole ancora costruire una società secondo verità e per il bene dell’uomo?
Se è così lo slancio pastoralistico non è sufficiente, ma bisogna occuparsi anche delle strutture, delle istituzioni, delle leggi ed avere una visione complessiva e coerente delle cose. Il pastoralismo odia le visioni complessive e coerenti delle cose e dice che non si addicono ai cattolici. Sanno troppo di “sistema” che avrebbe così la prevalenza sulle persone. Per il pastoralismo esistono solo casi unici e singolari, da affrontare uno per uno, con discernimento, come è in voga dire oggi. Si corre il rischio, però, di gettare via, con gli schemi, anche le idee.
Come possono dei vescovi accettare le unioni civili?
Ve lo dico di tutto cuore: sono stufo, anzi arcistufo. Ancora una volta mi è toccato leggere riguardo quella gigantesca sciocchezza dei "sacrosanti diritti delle coppie omosessuali". La cosa irritante è che ad usare la formula non sono tanto, o almeno soltanto, i paladini dell'omosessualismo, ma anche alcuni esponenti che a parole si dichiarano contrari all'attuale disegno di legge Cirinnà.
A ben vedere però ci si accorge che l'opposizione si limita alla facilitazione del solo utero in affitto grazie alla norma sullastepchild adoption. Io non so davvero più cosa pensare: non riesco a capire se siamo in presenza di un ottundimento della ragione totale e di proporzioni spaventose, oppure di un calabraghismo di tipica matrice italiota. Sul versante della giurisprudenza solo uno sprovveduto può infatti non sapere che una volta varate le unioni civili, anche se private dell'adozione, anche se private dell'affido forte, ad introdurre tutta l'equiparazione genitoriale ci penseranno i giudici italiani ed europei (vedi sentenza della CEDU nel caso X contro Austria). Sul versante della politica qualcuno mi dovrebbe una buona volta spiegare perché la gioiosa macchina da guerra dei nuovi diritti dovrebbe arrestarsi per tutelare l'amore soltanto tra due soggetti: una volta infatti che il sesso dei nubendi sia dichiarato indifferente per la formazione del "sacrosanto diritto" dell'unione, perché dovrebbero essere importanti il numero, o l'età?
Chi segue le faccende negli USA sa che dopo la sentenza Hobergefell vs. Hodges che ha dichiarato incostituzionali le leggi a protezione del matrimonio tra solo un uomo e una donna, la macchina per il matrimonio poliamoroso ha preso a girare a pieno ritmo. Ma è sulla filosofia del diritto che si misura l'aspetto centrale della questione. Certo che esistono i sacrosanti diritti, ma questi si identificano sempre con i diritti fondamentali della persona. Il diritto al riconoscimento pubblico simil-matrimoniale della relazione omosessuale di un soggetto è forse un diritto fondamentale della persona? Il giurista Rodotà, una lunga carriera nelle liste del PCI prima e del PDS dopo, scrive in difesa del "diritto di amore". Tuttavia se si fosse davvero convinti che è appunto l'amore il fondamento del riconoscimento pubblico delle unioni omosessuali, allora in ossequio a questo "gius-sentimentalismo", efficace termine introdotto dal giurista Aldo Vitale, autore di un interessantissimo volume appena uscito sull'argomento (Gender, questo sconosciuto. Fede e Cultura edizioni, Verona 2016), si dovrebbero includere sempre ed invariabilmente anche gli amori fraterni, genitoriali, filiali, parentali, amicali, ovvero tutti gli amori anorgasmici. Ora ci accorgiamo che nessun paladino delle unioni civili, apre mai anche a questi amori, consapevole forse che farlo costituirebbe un colpo mortale propio al reale diritto che si intende promuovere che non è di amore, ma di orgasmo.
Ho la netta impressione che la filosofia che sottende questa stagione di nuovi dirittimascherata da diritto di amore sia dunque il "gius-edonismo". Se infatti l'amore senza alcun amplesso non merita il "sacrosanto diritto" al riconoscimento, allora diventa evidente che l'elemento che conferisce dignità pubblica alla relazione è apportato dal piacere derivante dalla soddisfazione sessuale. Ma quale rilevanza pubblica può avere un amplesso intrinsecamente sterile? In che cosa arricchisce la società tanto da scomodare lo Stato a conferire ad esso valore di bene pubblico? L'unione matrimoniale che unisce un uomo e una donna dà per scontato che i coniugi reciprocamente acconsentano all'uso del corpo tra loro mediante atti di tipo generativo, che rimangono tali anche quando non giungono alla generazione di figli. È questo un aspetto talmente centrale del matrimonio che sia la legge civile che quella canonica riconoscono e dichiarano nullo un matrimonio mai consumato.
Che dei cattolici e persino dei vescovi non si rendano conto che l'unione civile in sé ridefinisca il vincolo che unisce l'uomo e la donna in chiave romantica lascia interdetti e sgomenti. C'è infine un aspetto morale in tutta la questione. Se l'atto sessuale è espressione dell'unione di due persone, allora renderlo volontariamente infertile contraddice il suo autentico significato, questo è sempre stato considerato un male da tutta la riflessione morale cattolica sia dagli albori.
Ci si attenderebbe che, se ci fosse ancora un barlume di pensiero cattolico, dovrebbe risultare evidente che costituisce una violazione del bene comune la promozione del falso attraverso l'omologazione di condotte assolutamente divergenti, di cui solo una rispettosa della legge naturale. Nella quaestio 96 l'Aquinate afferma che "dalla legge umana non devono essere repressi tutti i vizi, dai quali i virtuosi si astengono; ma solo quelli più gravi". È sempre risultato evidente che gli atti omosessuali sono gravemente contrari alla virtù della castità (CCC 2357). Dai prelati della tenerezza vorrei capire se le cose stanno ancora così, o se invece è stata diramata una circolare abrogativa che evidentemente mi è sfuggita. Nel caso in cui giunga l'assicurazione che nessun mutamento di dottrina sia intercorso, sarei davvero interessato a capire come il varo di una legge che benefici chi esercita atti "intrinsecamente disordinati" sia compatibile con una visione antropologica fondata sulla legge e il diritto naturale, se sia compatibile con la custodia della bellezza del creato. Quali elementi sarebbero intercorsi per ritenere non più valido il giudizio vincolante per qualsiasi fedele (e a maggior ragione per preti, religiosi, vescovi e cardinali) espresso nell'istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede sul riconoscimento delle coppie dello stesso sesso del 31 luglio 2003 e la nota dottrinaleriguardante l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica del 24 novembre 2002, entrambe firmate da Joseph Ratzinger, attuale papa emerito, e approvate da San Giovanni Paolo II? È in coerenza con questi principi che negli Stati Uniti i vescovi Vigneron e Myers hanno stabilito di negare la Comunione e un'altra trentina hanno affermato che i politici favorevoli alle unioni gay dovrebbero astenersi dal presentarsi per riceverla. D'accordo, non è questa materia di noi laici, ma una cosa ci tocca nel vivo: se sfrontate auto-proclamazioni di cattolicità adulta sono fonte d'irritazione, se il pervicace inciucio di ecclesiasti con il potere è avvilente, quanto più il vedere accostarsi certi politici all'Eucaristia è motivo di scandalo e indignazione, così come ascoltare pavidi rinnegamenti da chi ha promesso di testimoniare fortezza nella fedeltà a Cristo, usque ad sanguinis effusionem.
Sempre più europei credono in Allah: le conversioni all'Islam segno dell'effetto laicismo?
12 gennaio 2016 ore 13:15, Americo Mascarucci
Ma perché tanti europei si sono convertiti all’Islam? Perché hanno scelto di ripudiare la propria cultura occidentale per abbracciare il Corano? Nelle fila dell’Isis è emerso più volte come i più accaniti integralisti, quelli più legati all’Islam violento ed intollerante, siano proprio gli europei convertiti, diventati loro malgrado più islamici dei musulmani di origine. Tuttavia al di là dei fanatici ci sono tanti europei, italiani compresi, che ad un certo punto della loro vita hanno scelto di rinunciare alle tradizioni e ai costumi occidentali lasciandosi affascinare dall’Islam. Persone che vivono pacificamente il loro credo religioso e che rifiutano l’integralismo e la violenza. La maggioranza degli italiani convertiti, soprattutto le donne, hanno deciso di diventare musulmani o musulmane per sposarsi e seguire il proprio partner; altri invece dopo una vita fondata sull’ateismo o su una religione praticata superficialmente hanno avvertito un bisogno di spiritualità e hanno ritenuto di trovare la risposta alle loro necessità proprio leggendo il Corano.
Gli taliani convertiti all’Islam sarebbero secondo le stime del 2012 dell'Unione delle Comunità Islamiche d'Italia (Ucoii) circa 70mila. Tuttavia da un’inchiesta realizzata dal quotidiano La Stampa è emerso anche come alcuni abbiano scelto l’Islam come argine al dilagare del relativismo etico e di quel vuoto di valori che, sempre più massicciamente sembra caratterizzare le società occidentali, prigioniere di un laicismo dogmatico che è sembrato far prevalere sempre di più le pulsioni dell’io sui principi naturali. Non dunque mere ragioni di opportunismo (ossia la possibilità di sposare il fidanzato o la fidanzata musulmana) ma la convinzione che soltanto l'Islam oggi possa contrastare il dilagare del nichilismo di matrice occidentale.
"Quello verso l’Islam - racconta Paolo Jafar Rada, 40 anni a La Stampa- è stato un cammino lento ma di continua consapevolezza che il mondo occidentale era lontano dai valori e ideali che cercavo. Nella fase attuale, noi ci troviamo nell’epoca che l’induismo ha definito come kali yuga, ovvero l’epoca oscura, l’epoca dove predominano le masse informi, le quali senza guida divina sono in uno stato di abbrutimento totale. L’Europa oggi vive in uno stato di materialismo diffuso o di pseudo religiosità laica. Un umanità decaduta distaccandosi da Dio.". Un bisogno di riscoperta dei valori morali che secondo Jafar la Chiesa cattolica non sarebbe in grado di garantire, apparendo a suo giudizio troppo arrendevole e dialogante con i fautori del "dogmatismo laicista". E non sarebbe il solo a pensarla così.
L'’Eurispes ha stimato che dal 1996 al 2012 in Italia il numero dei matrimoni misti è più che raddoppiato, passando da 9.875 a 20.764 unità. L’Italia è però solo al 22esimo posto nella classifica europea per diffusione di matrimoni misti. In testa alla graduatoria si trovano Svizzera, Lettonia e Lussemburgo, agli ultimi posti si collocano Polonia, Bulgaria e Romania.
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