ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 18 aprile 2016

Hanno conosciuto Dio, poi si sono rifiutati di adorarlo

PERDERE DIO E CARITA'

    Ci siamo allontanati da Dio quando abbiamo smarrito la carità. Carità e amore vero l'abbiamo sostituito con quella sua diabolica contraffazione che è l’amore disordinato di sé impastato di lussuria superbia e avarizia 
di Francesco Lamendola  



Quand’è che abbiamo incominciato ad allontanarci da Dio, come membri della civiltà europea e cristiana?
Più che una risposta strettamente storica, più che una indicazione temporale precisa, vorremmo riflettere sul “quando” in senso morale, e interrogarci: quando si è verificato, quando si sono create le condizioni, quando è stato possibile, che la nostra civiltà abbia incominciato a voltare le spalle a Dio?
Ebbene, la risposta non può essere diversa da quella che riguarda l’uomo come singolo individuo, ossia come persona, e cioè: quando ha smarrito il senso della carità, dell’amore vero, sostituendolo con quella sua diabolica contraffazione che è l’amore disordinato di sé, impastato di lussuria, superbia e avarizia.

L’uomo antico non conosceva, o quasi, altra forma di amore: l’amore passionale, cieco, egoistico, che mira alla soddisfazione della nostra parte inferiore, brutale, selvaggiamente istintuale (quella tanto vezzeggiata dalla cultura moderna); e se, per caso, era capace di andare oltre, di addolcirsi, di ingentilirsi, di spiritualizzarsi, si trattava pur sempre di un sentimento rivolto al proprio simile, al membro della propria famiglia, del proprio clan, della propria tribù: l’amore incondizionato rivolto all’uomo in quanto uomo, di qualsiasi popolo o razza, non esisteva; non esisteva l’amore rivolto allo schiavo, al deforme, al nemico. Lo schiavo si poteva comprare, vendere, frustare, crocifiggere, impalare, bruciare vivo; il bambino nato deforme si poteva esporre fuori della porta di casa, e lasciarlo morir di fame o di freddo, come spettava al pater familias della Roma più antica, oppure gettarlo dalla rupe del monte Taigeto, come facevano gli Spartani; il nemico vinto, per quanto pregasse e scongiurasse, per quanto offrisse oro e qualunque prezzo del riscatto, poteva essere ucciso, così, per il puro gusto del sangue e della vendetta, come fece Achille con Licaone, uno dei figli di Priamo, sulle rive del fiume Scamandro (nel libro XXI dell’Iliade).
L’uomo antico era così: e tale lo descrive san Paolo nella Lettera ai Romani (1, 31): Sono senza pietà e incapaci di amare. Questo giudizio vale anche per gli antichi Ebrei: le frontiere dell’amore non giungevamo oltre la Giudea e le comunità giudaiche sparse nel Mediterraneo e nel Vicino e Medio Oriente; non superavano i confini della razza e della religione giudaica. Di più: le frontiere dell’amore non giungevano neppure a lambire il rivale, l’amico che ha deluso, il parente che diventa un competitore, il vicino che diventa un ostacolo. Gesù mise in luce questo mancanza di amore universale, quando disse: Amate il vostro prossimo, e anche il vostro nemico; se amate solo gli amici, che merito avete? Anche i pagani fanno lo stesso. Se fate del bene solo a quelli che vi fanno del bene, che merito ne avete? Anche i pagani fanno lo stesso.
La scoperta dell’amore di carità, spirituale, universale; la scoperta dell’amore come agape e come caritas, è una scoperta cristiana: è stato il cristianesimo a insegnarlo, e i cristiani ci hanno messo due millenni per assimilarlo, almeno parzialmente, almeno teoricamente. Con il ritorno, oggi, di un neopaganesimo di matrice gnostico-massonica, quale vogliono imporre i grandi poteri finanziari e gli organismi internazionali, a cominciare dall’O.N.U., anche l’amore di carità incomincia a regredire nella nostra società, a impallidire e sbiadire nelle coscienze, a relativizzarsi, a evaporare. Marito e moglie, padre e figlio, fratello e sorella, si danno battaglia nelle aule giudiziarie per ottenere, a condizioni favorevoli, un “giusto” divorzio, o per contendersi una eredità, o per l’affidamento dei figli, o per la direzione dell’azienda di famiglia. E, se il coniuge, il figlio, il genitore, il fratello, l’amico, ostacolano il nostro avaro senso di giustizia, non esitiamo a ricorrere alle calunnie, alle minacce, alla sopraffazione, alla violenza, alla rapina, all’omicidio. Lo zio non vuole cedere la fabbrica, non vuole dare spazio ai nipoti? Ed ecco che questi lo afferrano e lo gettano nell’altoforno, sicché non ne resta più nemmeno la più piccola traccia. La moglie ha scopeto l’infedeltà del marito, vuole separarsi da lui, vuole la divisone dei beni? Il marito la pugnala, occulta il cadavere, si lava le ani sporche di sangue, riprende la vita di sempre come se nulla fosse, dopo essersi costruito un alibi. È cronaca di ogni giorno, di ogni luogo.
Là dove si spegne l’amore di carità, torna a far capolino la bestia primordiale: l’uomo antico, carico di brame, cieco di egoismo, capace di qualunque inganno, di qualunque frode, di qualunque violenza. Torna a emergere Caino, brandendo la clava per assassinare suo fratello Abele, e poi fingere di non saperne nulla, con le tremende parole: Sono io forse il custode di mio fratello? La perdita dell’amore di carità implica, automaticamente, una regressione antropologica, uno sfacelo morale, una degradazione esistenziale. La vita diventa brutta, orrida: una foresta popolata di belve dalle zanne insanguinate, che si aggirano senza pace, in cerca di prede da divorare, sotto un cielo abbandonato dalla Grazia. Perché Marco Prato e Manuel Foffo hanno assassinato orrendamente, dopo averlo seviziato e torturato in ogni modo, un giovane scelto a caso, Luca Varani, la mattina del 4 marzo 2016, a Roma, finendolo con più di trenta coltellate e martellate? Nessuno lo saprà mai. Nessuno saprà mai cosa è passato per la mente dei due altrettanto giovani carnefici. Una cosa sola possiamo dire con certezza: che ben prima di giungere a tanto, nell’anima e nel cuore di quei due si era spenta completamente la fiamma dell’amore di carità. Avevano scelto l’odio; avevano scelto il male. L’anima aborre il vuoto: là dove si caccia Dio, subentra il Demonio.
Scriveva Giovanni Testori su Il Corriere della Sera del 23 luglio 1979 (in: G. Testori, La maestà della vita, Milano, Rizzoli, 1982, pp. 145-147):

Le virtù teologali, fede, speranza e carità, sono pilastri ben pari nell’importanza, nella grandezza e nella luce; ma sempre s. Paolo ci ammonisce che la carità è il compimento di tutto e, ancor più specificamente per quel che riguarda la nostra vita storica, che “la carità crede ogni cosa, spera ogni cosa”. La distanza tra carità e assistenza è, dunque, incolmabile; questo ancorché la carità, per incarnarsi, possa aver bisogno di farsi assistenza […]
Incalcolabile è anche la distanza tra carità e giustizia. Nella giustizia esiste, certo, una pressione primaria e fortissima di carità; ma la carità continuerà ad esistere anche quando la giustizia, sulla terra, dovesse davvero venir realizzata. Questo parrà tanto più vero appena si vorrà meditare che la carità esisterà come il tutto stesso dell’essere quando, dopo l’ultimo giorno, dopo il “dies illa”, fede e speranza non avranno più ragione d’esistere. E, tuttavia, una giustizia che non abbia come suo sangue la carità, dunque una giustizia che non sia cercata secondo Cristo, è destinata a generare il suo contrario; anzi, a suicidarsi. Come possono testimoniare gli esperimenti tentati nel nostro tempo dai regimi marxisti, finiti negli eccidi  nelle lotte con altri regimi di uguale ideologia; lotte sempre sul punto di trasformarsi in stragi, secondo provano proprio in questi giorni, le navi di profughi , di affamati e di condannati a morte là, sulle acque del Vietnam.
Lo steso discorso vale per l’uguaglianza, che pure è parte vivente della carità. […]
[…] m’occorre forse spiegare come la carità diventa cultura. Lo diventa stabilendo in se stessa, cosa che non può non fare, l’uguaglianza con la bellezza; quella bellezza di Dio con cui Hans Urs von Balthasar ha aperto, come in uno sfolgorante, alborale trionfo, la sua “summa” teologica.  Stabilendo quell’uguaglianza la carità diventa forma.
Ora un’intelligenza, un sentimento, una forma, una realtà, dunque, di cultura siffatta contraddice tutto ciò che è stata la cultura che fu egemone negli ultimi secoli; ed egemone benché franante e cinerea, lo è anche ai nostri giorni; egemone in ogni senso; ma, primariamente, nel senso pratico e politico. Di tale cultura, ciò che resta vivo e ancora ci riguarda è la voce di coloro  i quali hanno espresso il dolore, l’angoscia e l’agonia  dell’uomo che ha perso, appunto, il senso della carità; la carità del Padre; e che, così, ha peso il Padre medesimo. Il dolore, l’angoscia e l’agonia dell’uomo che ha voluto rifiutare di riconoscersi figlio.
Essendo il destino dell’uomo, per sua nascita e natura, il destino della speranza e dell’amore di Chi e verso Chi l’ha creato, non v’è per lui altra possibilità onde riprendere il filo d’una cultura che lo consideri e lo realizzi nella sua totalità di creatura e non in una sola delle sue parti, se non affondare dentro le zolle della carità; e dentro la fede che permette alla speranza di farsi, appunto, carità, qui, sulla terra, e di partecipare a Chi è Carità e Amore infiniti e assoluti, una volta che il nostro frammento di storia sarà terminato. Che se quella partecipazione non avremo saputo meritare, ciò che ci attende è l’eterna agonia derivante dall’esclusione da quella Carità e da quell’Amore.

Ecco, dunque, come vide e indicò lucidamente Giovanni Testori, la via per tentar di uscire dal vicolo cieco nel quale l’uomo contemporaneo si è infilato e, testardamente, ha proseguito, pur vedendo i segni infausti che contrassegnavano il suo cammino: quella di un recupero della nostra umanità, mediante il ritorno dell’amore a Dio. L’uomo senza Dio regredisce allo stato di bruto, di energumeno, di selvaggio, di belva assetata di sangue. Se Dio non c’è, conclude significativamente Ivàn Karamazov, un personaggio di Dostoevskij, allora tutto è permesso. È un pensiero che fa paura, nella sua nuda e semplice verità. Dostoevskij aveva capito molte cose: ancora in pieno XIX secolo, aveva capito quasi tutto di quel che sarebbe accaduto poi.
Ma come rifondare una cultura dell’amore, in mezzo alle macerie dell’ego e al relativismo oggi imperante, fomentato e pilotato da poteri oscuri, aventi di mira l’assoggettamento totale dell’umanità? Come contrastare le forze del disordine, dell’oscurità, della prevaricazione, in questa tenebrosa era del Diavolo, che molti, con incosciente leggerezza e perfino con malcelato orgoglio, chiamano Era del Progresso? Se le forze del Male si sono scatenate, come predetto nel libro dell’Apocalisse, in che modo gli uomini possono correre ai ripari, costruire un argine, e, soprattutto, far rifiorire la pianticella dell’amore, in quell’arida steppa, in quel torrido deserto che è diventata la civiltà moderna?
Non esiste una ricetta, non vi è alcuna chiara strategia. La situazione è gravissima: ciascuno deve fare appello alle sue estreme risorse; deve gettarsi dietro le spalle le brame e la cupidigia dell’uomo vecchio, affinché possa rinascere l’uomo nuovo. L’uomo nuovo, quello insegnato e impersonato da Cristo, noi lo avevamo conosciuto: per questo, dice San Paolo, siamo senza scusanti (Romani, 1, 20-25): Gli uomini perciò non hanno alcun motivo di scusa: hanno conosciuto Dio, poi si sono rifiutati di adorarlo e di ringraziarlo come Dio. Si sono smarriti in stupidi ragionamenti e così non hanno capito più nulla. Essi, che pretendono di essere sapienti, sono impazziti: adorano immagini dell’uomo morale, di uccelli, di quadrupedi e di rettili, invece di adorare il Dio glorioso e immortale. Per questo, Dio li ha abbandonati ai loro desideri: si sono lasciati andare a impurità di ogni genere fin al punto di comportarsi in modo vergognoso tra di loro; proprio essi che hanno messo idoli al posto del vero Dio, e hanno adorato e servito ciò che Dio ha creato, anziché il creatore. A lui solo sia lode per sempre. Amen.
Anche l’uomo moderno, dopo aver conosciuto Dio e il volto luminoso del Suo amore, si è rifiutato di rendergli grazie, e si è dato ad adorare gli idoli: il potere, il successo, il piacere, il denaro. Anche l’uomo moderno, abbandonato da Dio, è caduto in preda a passioni vergognose, abbrutendosi e degradandosi, e, così, ricevendo in se stesso il prezzo del proprio traviamento. Perciò, non esiste alcun’altra strada, per uscire dall’abisso in cui è caduto, se non ritornare a Dio, come il figlio prodigo, pentito e pronto ad espiare. Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Questo deve dire l’uomo moderno, spogliandosi della sua sconfinata superbia, deponendo il suo diabolico orgoglio. La misericordia del Padre è sempre pronta ad accoglierlo: ma bisogna che lui lo voglia. Nessuno può essere salvato contro la propria volontà; nessuno può essere redento, se rifiuta la redenzione. Almeno questo, dovrebbe essere chiaro.
Sarà capace, l’uomo moderno, dopo tanta ubriacatura di onnipotenza, d’un simile atto di umiltà? Eppure, altre strade non vi sono, se non quelle che portano sempre più in basso, verso le tenebre… 
Ci siamo allontanati da Dio quando abbiamo smarrito la carità

di Francesco Lamendola


NEVROSI E SPIRITO DEL MALE 

    Per le falle che la nevrosi apre nell’anima può insinuarsi lo Spirito del Male? Non solo il corpo può andare soggetto ad ammalarsi, né solo la psiche ma anche l’anima può aprire il varco alle malattie 
di Francesco Lamendola  





Quando apparve, nel 1923, il romanzo Il diavolo in corpo, scritto da un giovane che sarebbe morto a soli vent’anni, Raymond Radiguet, la Francia e l’Europa rimasero sconcertate e turbate dall’audacia dalla storia, un amore ossessivo e irruente che stravolge la vita di un quindicenne e di una ventenne, il cui fidanzato è al fronte, durante la Prima guerra mondiale. La storia è stata poi ripresa dal cinema e ha ispirato il regista Claude-Autant Lara, nel 1947, e poi, molto alla lontana, Marco Bellocchio, nel 1986, andando a costituire una specie di archetipo dell’immaginario collettivo moderno: l’archetipo dell’amore passionale allo stato puro, sensuale, torbido, vergognoso, socialmente riprovevole, e tuttavia sfrontato, poderoso, indomabile, incontenibile, trionfante, come una forza distruttiva della natura.
D’altra parte, proprio il successo durevole di questa storia, che va ben oltre i meriti letterari dell’autore, e quelli cinematografici dei registi, e anche oltre gli stessi talenti degli attori che hanno prestato i loro volti alle figure dei due protagonisti, una specie di Romeo e Giulietta alla rovescia; proprio quel successo strepitoso, durevole, intramontabile, proprio quel prurito e quella frenesia di degradazione che la storia stessa, di per sé ambigua, cupa, inconfessabile, deplorevole, stuzzica e alimenta; proprio quel fascino, quella attrazione verso ciò che è moralmente sbagliato, verso ciò che offende il comune senso del limite e del pudore, stanno a testimoniare che il titolo, in realtà, è molto più veritiero di quel che non si crederebbe e che forse, dopo tutto, sarebbe il caso di prenderlo sul serio, e d’intenderlo in maniera letterale.
Le diable au corps: certo, lo si può scrivere con la lettera minuscola; ma se il Diavolo di cui parla il titolo fosse proprio lui, il gran Nemico, che si serve dei nostri sensi per aggredire le nostre anime, per spingerci ad atti riprovevoli, a passioni turpi, degradanti, a calpestare le leggi umane e divine, sfruttando l’istinto della concupiscenza ed i piaceri proibiti della lussuria? E se il Diavolo, creatura spirituale e intelligente quant’altre mai, fosse svelto ad approfittare delle nostre debolezze, a cominciare dai nostri stato d’animo più negativi, e perfino delle nostre patologie psichiche: la depressione, l’ossessione, l’angoscia, la nevrosi, la schizofrenia? Non potrebbe darsi che egli sia così subdolo e astuto, così geniale nella sua abilità di nascondersi, proprio mentre ci sta insidiando, da sfruttare appunto i varchi che si aprono allorché la mente è disturbata, il giudizio è ottenebrato, la volontà è indebolita, e penetrare nell’interno dell’anima, senza che alcuno se ne avveda, e lasciando credere a tutti, a cominciare dai medici e dagli psicologi, che ciascuno dei sintomi manifestati dall’infelice paziente non è altro che il risultato di disturbi, inquietanti, sì, e difficili da individuare, ma insomma pur sempre perfettamente umani, e perfettamente spiegabili, una volta che se ne sia compreso il meccanismo, una volta che ne siano state finalmente riconosciute le origini e le cause, vicine e remote?
È stata saggia, la civiltà moderna, quando ha messo definitivamente in soffitta la credenza nel Diavolo; o quando ha stabilito che qualsiasi malattia può e deve trovare una risposta sul piano immanente, finito, naturale, e che nessuna malattia è in grado di minacciare l’uomo, che non parta da cause puramente umane e che non sia trattabile con mezzi e terapie puramente umani? E Dante, quando descriveva Satana, il signore dell’abisso, lavorava solo di fantasia? Era solamente un simbolo del Male, quello rappresentato dai pittori, al centro delle scene infernali, negli innumerevoli Giudizi finali delle chiese e cattedrali medievali? E il Diavolo che, nel romanzo di Fëdor Dostoevskij, appare davanti a Ivàn Karamazov, mentre questi delira per la febbre cerebrale, è solo il frutto delle sue allucinazioni e del suo senso di colpa?
Joris-Karl Huysmans (1848-1907), scrittore francese (ma di padre olandese) decadentista, poi convertitosi al cattolicesimo, è stato artefice di una straordinaria intuizione: e se le nevrosi, di cui soffre, tipicamente, l‘uomo moderno, fossero altrettanti spiragli, altrettanti varchi, attraverso i quali s’insinua lo Spirito del Male, per trascinare l’uomo il più possibile lontano da Dio e dalla sua grazia, sfruttando appunto quei malesseri, quei disturbi, ed esasperando le pulsioni negative esistenti nell’anima fin da prima, i bassi istinti, le naturali inclinazioni verso il male (perché vi sono anche inclinazioni naturali verso il male, così come ve ne sono verso il bene)?
Affermava, dunque, Huysmans nella Prefazione scritta dall’autore vent’anni dopo al suo capolavoro, Controcorrente (titolo originale: À rebours, 1884; traduzione dal francese di Camillo Sbarbaro, Milano, Garzanti Editore, 1975, pp. 8-9):

Per il terribile sesto capitolo, il cui numero corrisponde, senza ch’io l’abbia minimamente cercato, a quello del Comandamento ch’esso offende, e per alcune parti che ad esso si possono aggiungere, superfluo dire che non li scriverei più oggi come li scrissi allora.
Avrei per lo meno dovuto spiegarli più sottilmente con la perversità diabolica che s’insinua, specialmente quando si tratti di lussuria, nei cervelli esauriti. Pare infatti che le malattie dei nervi, che e nevrosi aprano nell’anima delle falle per le quali penetra lo Spirito del Male. È questo un enimma che resta tuttora insoluto. La parola isteria non spiega nulla; essa può servire a determinare uno stato fisico, a segnalare il sorgere di irresistibili voci dei sensi; non deduce affatto le conseguenze spirituali che vi si riattaccano ed in particolar ei peccati di dissimulazione e di menzogna che quasi immancabilmente vi si innestano.
Quali sono le particolarità e le circostanze di questa peccaminosa infermità? In che misura s’attenua la responsabilità dell’essere affetto nell’anima da una specie di possessione demoniaca che viene ad aggravare il dissesto fisico dello sventurato? Nessuno lo sa; su questo punto la medicina sragiona e la teologia tace.
In mancanza d’una soluzione che non poteva evidentemente recare, Des Esseintes [il protagonista del romanzo, tipico esteta nella Parigi fin de siècle] avrebbe dovuto considerare la questione dal punto di vista della colpa; ed esprimere almeno un po’ di rincrescimento. Egli s’astenne dal biasimarsi ed ebbe torto. Ma per quanto educato dai gesuiti – dei quali, più di Durtal, tesse l’elogio – egli era in seguito diventato così ribelle ai divieti divini, così pervicace nello sguazzare nel brago della carnalità!
Comunque, questi capitoli sembrano posti lì, senza volerlo, a mo’ di biffe, ad indicare la strada che condurrà l’autore a scrivere “Là-bas”. Si noti d’altronde che la biblioteca di Des Esseintes conteneva un certo numero di libri di magia; e che le idee sul sacrilegio che si leggono nel settimo capitolo di “A Rebours” offrono lo spunto ad un futuro volume che tratterà l’argomento più a fondo.
Neppure “Là-bas”, che spaventò tanta gente, lo scriverei più nel modo che l’ho scritto, ora che sono ridiventato cattolico. Il filone infatti di scelleratezza e di sensualità ch’esso riprende e sviluppa è, non occorre dirlo, riprovevole. Eppure, lo affermo, io ho velato, non ho detto nulla: i documenti che in esso sciorino sono, a confronto di quelli che ho omesso e che posseggo in archivio, scipite bagatelle, innocenti zuccherini!
Credo, tuttavia, che a dispetto delle demenze cerebrali e delle follie alvine di cui il libro spesseggia, esso non sia stato, nel soggetto stesso che tratta, senza benefico effetto.
“Là-bas” ha richiamato l’attenzione sulle astuzie del Maligno il quale era arrivato a farsi negare; esso è stato il punto di partenza di tutti gli studi che ripresero in esame l’eterno processo del Satanismo; ha concorso, svelandole, a stroncare le odiose pratiche delle goezie [cioè e invocazioni e le evocazioni dei demoni]; ha insomma preso parte e coraggiosamente combattuto per la Chiesa contro il Diavolo.

L’idea che i malesseri morali e i profondi squilibri spirituali possano creare dei varchi, attraverso i quali l’anima di un individuo può essere aggredita pericolosamente dagli spiriti demoniaci, è, in effetti, molto antica; appartiene alla cultura di moltissimi popoli primitivi, e anche a quella di non poche civiltà superiori.
Questa credenza si è sbriciolata al sopraggiungere della modernità. Gli scienziati moderni, che si erano autodefiniti savants, cioè "i sapienti", hanno deciso che si trattava di sciocchezze, di puerili superstizioni; tanto più che l'anima, lo sanno tutti, non esiste: esiste una quantità di funzioni della mente, che possono essere razionalmente studiate e spiegate; esistono malattie, virus, disturbi, traumi, ma null'altro. Logico, del resto: niente Dio, niente Diavolo; dunque, come potrebbero aggredire l'uomo dei supposti spiriti maligni?
Dulcis in fundo, è arrivato Freud: il principe della psicologia moderna, la quintessenza dello spirito moderno, anche nei suoi (pochi) dubbi, anche nelle sue (rare) perplessità: dubbi e perplessità che non investono mai le fondamenta della sua teoria psicoanalitica (perché, se qualcuno non lo sapesse, e a dispetto di quanto insegnano, imperterriti - e impettiti - centinaia di migliaia di professori, nelle scuole e nelle università di mezzo mondo, pardon, di tutto il mondo, di una teoria si tratta, proprio come nel caso del darwinismo: non di una evidenza scientifica, definitvaente e unanimemente riconosciuta come tale). Freud, si dice – e invece non è affatto vero – hascoperto l'inconscio (ma, se è per questo, Dostoevskij, Shakespeare, i tragici greci, lo avevano riconosciuto e descritto assai meglio); né a lui, né ad Adler, né a Jung, tuttavia, ha sfiorato la mente il pensiero che questo inconscio, dopotutto, fosse la  bocca di quell'inferno da cui il Diavolo cerca continuamente di sferrare il suo assalto contro l'anima umana. E come avrebbero potuto, d’altronde, se l'anima non esiste, e se Dio e il Diavolo sono prodotti di una cultura arretrata e superstiziosa, proiezioni delle nostre paure e speranze, o tutt’al più, costruzioni dell'inconscio collettivo?
Eppure, è una ipotesi da prendere seriamente in considerazione. L'inconscio, così come lo descrive specialmente Freud, è il deposito originario delle pulsioni, un vulcano in quiescenza, ma sempre pronto a eruttare gas velenosi e magma incandescente; lo stesso Freud ne ha talmente paura, che proclama cosa migliore la nevrosi della civiltà, ossia la nevrosi prodotta dalla censura e dalla repressione del Super-io, che l'abbandono agli istinti che fuoriescono dall'Inconscio. E quale momento più propizio, quale occasione più favorevole, per cogliere l'uomo impreparato e lento a reagire e a difendersi, che quello in cui le nevrosi si insediano nella coscienza e scuotono in profondità l'equilibrio interiore della persona? Si potrebbe immaginare una alleanza più efficace, e più tremendamente distruttiva, di quella che verificasse fra una perdita di armonia e di padronanza di sé da parte della coscienza, e l'aggressione di forze sconosciute di origine infera, tanto più se animate e dirette da una intelligenza e da una volontà personali? I demonologi (e i loro “colleghi” sul piano pratico, gli esorcisti) insegnavano che la vessazione, l'ossessione e la possessione demoniaca si verificano solo dopo che vi è stato un qualche tipo di "invito", da parte del soggetto umano, nei confronti delle entità demoniache; solo dopo che si è creata una qualche forma di disponibilità, o di curiosità, o di apertura. Al tempo stesso, un atteggiamento così morboso, imprudente, sconsiderato, come quello di “aprire” dei varchi alle forze del Male (per esempio, con l’assidua frequentazione di sedute spiritiche, o, magari, con la pratica, o con la partecipazione, a delle vere e proprie cerimonie di magia nera) non è forse indice di uno smarrimento della coscienza, di un ottenebramento della lucidità spirituale e del giudizio morale? 
Giungiamo, così, alle soglie d’una conclusione molto interessante, anche se in apparenza paradossale. Non solo il corpo può andare soggetto ad ammalarsi, né solo la psiche: anche l’anima può aprire il varco alle malattie; le quali sono, in tal caso, o possono essere, di natura demoniaca. Alcuni fatti di cronaca nera, anche recentissimi, fanno seriamente riflettere a questo proposito: sembra strano che l’anima, da se stessa, e senza alcuna ragione specifica, senza alcun fine pratico da raggiungere, sia capace di scatenarsi in certe orge di violenza infernale, prive, appunto, di motivazioni apparenti. Il rimedio, pertanto, sarà, in analogia con la sana concezione della medicina, innanzitutto di tipo preventivo: la vita buona; il ritorno a Dio; l’orrore del Male. Non vi è rimedio più sicuro di questo: prevenire le tentazioni; cioè fare il bene, amare, pregare, lodare, adorare Dio… 
Per le falle che la nevrosi apre nell’anima può insinuarsi lo Spirito del Male?

di Francesco Lamendola

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