Ultime conversazioni di Benedetto XVI, a cura di Peter Seewald – Siamo di fronte a memorie, riflessioni, commenti di un professore e di un funzionario in riposo che ha lavorato nella Chiesa, più che servito la Chiesa.
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I testamenti, sia notarili che spirituali, si aprono post mortem. Ma oggi, nell’età mediatica e delle interviste, esistono i testamenti di chi è ancora vivo. Le Ultime conversazioni di Benedetto XVI (Papa emerito è omesso), a cura di Peter Seewald (edito in Italia da Garzanti e uscito in edizione speciale per «Corriere della Sera»), vengono proposte come «testamento spirituale, il lascito intimo e personale del papa che più di ogni altro è riuscito ad attirare l’attenzione sia dei fedeli sia dei non credenti sul ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo». Così è scritto sull’aletta di copertina di questo bestseller, uscito ieri in contemporanea mondiale e che lascia un profondo amaro in bocca. Siamo di fronte a memorie, riflessioni, commenti di un professore e di un funzionario in riposo che ha lavorato nella Chiesa, più che servito la Chiesa.
È un libro che disincanta.
Si tratta di un testo molto importante, da consigliare soprattutto a chi si era illuso che con Benedetto XVI si sarebbe potuti “tornare a casa”, alla Fede autentica. È un libro che procura dolore cocente; ma è fondamentale, perché parla a chi non avesse ancora compreso che le cause della pandemica crisi della Chiesa sono da rintracciare nel Concilio Ecumenico Vaticano II, al quale il giovane Joseph Ratzinger, formatosi sulla teologia d’avanguardia, partecipò in qualità di consulente teologico del Cardinale Josef Frings.
Con palese evidenza emerge che al Concilio vinsero i progressisti. «Cosa l’ha affascinata di più dello scenario conciliare?», chiede l’intervistatore:
«Anzitutto, semplicemente, l’universalità del cattolicesimo, la sua pluralità, il fatto che uomini provenienti da tutte le parti della Terra si incontrassero, uniti nello stesso ministero episcopale, e potessero parlare, cercare una strada comune. Per me fu poi enormemente stimolante incontrare figure della levatura di Lubac – anche solo parlare con lui – di Daniélou, di Congar. O anche discutere con i vescovi. La pluralità e l’incontro con personaggi eminenti, che inoltre avevano la responsabilità di prendere le decisioni, furono davvero esperienze indimenticabili» (p. 122).
Egli era allineato nello schieramento progressista: «All’epoca essere progressisti non significava ancora rompere con la fede, ma imparare a comprenderla meglio e viverla in modo più giusto, muovendo dalle origini. Allora credevo ancora che tutti noi volessimo questo. Anche progressisti famosi come Lubac, Daniélou e altri avevano un’idea simile. Il mutamento di tono si percepì già il secondo anno del Concilio e si è poi delineato con chiarezza nel corso degli anni successivi». Se tutti gli effetti hanno una causa è chiaro che furono proprio i Lubac, i Daniélou, i Congar a far deragliare il treno della Chiesa, portando corruzione dottrinale, dissacralità, disordine, insubordinazioni.
È un libro che impressiona
L’atteggiamento rispetto al Concilio, già nel corso degli anni Sessanta, muta in Ratzinger, ma le sue critiche non vengono risolte, poiché egli ha da allora in poi ricercato l’errore nell’interpretazione dei testi, nell’applicazione dei testi e mai nei testi stessi. Benedetto XVI è un convinto assertore della libertà religiosa, dell’ecumenismo, della collegialità, evidenti elementi di frattura con la Chiesa preconciliare.
Le sue esternazioni del 1966 al Katholikentag di Bamberga tracciano un bilancio che esprime scetticismo e disillusione postconciliare. Un anno dopo, durante una lezione a Tubinga, ammonisce che la fede cristiana è circondata «dalla nebbia dell’incertezza come mai prima nella storia». Perché? «La volontà dei vescovi era quella di rinnovare la fede, di renderla più profonda. Tuttavia fecero sentire sempre più la loro influenza anche altre forze, specialmente la stampa che diede una interpretazione del tutto nuova a molte questioni. A un certo punto la gente si chiese: se i vescovi possono cambiare tutto perché non possiamo farlo anche noi? La liturgia cominciò a sgretolarsi scivolando nella discrezionalità e fu ben presto chiaro che qui le intenzioni positive venivano spinte in un’altra direzione. Dal 1965, quindi, sentii che era mio compito mettere in chiaro che cosa davvero volevamo e che cosa non volevamo» (p. 135).
È un libro che mette a nudo le considerazioni del Papa emerito
Tutto, per Benedetto XVI, rientra in una dinamica evolutiva di hegeliana memoria. Come non fare, allora, riferimento al rigoroso libro che Monsignor Bernard Tissier de Mallerais pubblicò nel 2012 (Editrice Ichthys), “La strana teologia di Benedetto XVI: ermeneutica della continuità o rottura?”. Leggendo questo saggio si potranno offrire risposte serie e adeguate al modo con cui Papa Ratzinger riesce ancora oggi, con la tragedia ecclesiastica e cattolica in corso, risolvere i rimorsi di coscienza sorti con l’Assise.
«Certo, ci chiedevamo se avevamo fatto la cosa giusta. Era una domanda che ci ponevamo, specialmente quando tutto si scardinò. Il cardinale Frings più tardi ebbe forti rimorsi di coscienza. Io, invece, ho sempre mantenuto la consapevolezza che quanto avevamo detto e fatto approvare era giusto e non poteva essere altrimenti. Abbiamo agito in modo corretto, anche se non abbiamo valutato correttamente le conseguenze politiche e gli effetti concreti delle nostre azioni. Abbiamo pensato troppo da teologi e non abbiamo riflettuto sulle ripercussioni che le nostre idee avrebbero avuto all’esterno» (pp. 135-136).
Tutto ciò ha condotto ad una Passione della Chiesa senza precedenti, che senza intervento divino sarà impossibile risolvere. I tronfi teologi, che hanno manovrato e guidato il Concilio pastorale Vaticano II hanno deliberatamente rivoluzionato un ordine che per duemila anni di storia si era alimentato, con i suoi tralci, direttamente alla Vite, Cristo. «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15, 5-10).
È un libro dal sapore pirandelliano
Pare incredibile, per un credente, che di fronte allo scempio religioso, spirituale ed etico attuali non ci sia, da parte del papa che ha rinunciato alla sua responsabilità di Sommo Pontefice, nessun tipo di reazione né scandalizzata e neppure sofferta… Lo sguardo è asettico: egli si pone come il ricercatore che osserva il fenomeno, prende atto della situazione e invece di guardare ai rimedi, ovvi, della Tradizione della Chiesa, sostiene la sua autodistruzione a vantaggio di uno sviluppo avanzante della cultura, della filosofia, della teologia, della sociologia e, dunque, della Chiesa. Il mondo cambia e la Chiesa è tenuta a mutare, secondo un disegno rivoluzionario. Ultimo Papa del vecchio mondo o primo del nuovo? «direi entrambi […] io non appartengo più al vecchio mondo, ma quello nuovo in realtà non è ancora incominciato» (p. 218). Benedetto XVI è uno, nessuno, centomila. Non offre certezze dottrinali e dogmatiche. Sono giunte le problematiche conseguenze del Vaticano II? Non è dipeso dai progressisti, perché essi hanno agito «in modo corretto». Così facendo la coscienza cattolica viene soffocata. Urge il mondo, non il sopramondo.
Nel libro appare, fra gli «scandali più inflazionati», ovvero fra pedofilia ecclesiastica e caso Vatileaks, la revoca della scomunica al Vescovo Richard Williamson (oggi fuori dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X), scandalo secondo il quale il Papa avrebbe riaccolto nella Chiesa un negazionista dell’Olocausto. Il mondo ebraico insorse e con esso il quarto potere. Tuttavia il libro rende adesso tutto pirandellianamente chiaro:
«Williamson non fu mai cattolico né ci fu una riabilitazione della Fraternità. Anzi, il tema del rapporto tra il mondo ebraico e quello cristiano è tra quelli che stanno più a cuore di Ratzinger. Senza di lui, affermò Israel Singer, segretario generale del Congresso ebraico mondiale dal 2001 al 2007, non sarebbe stata possibile la determinante svolta storica nei rapporti bimillenari tra Chiesa cattolica ed ebraismo. Rapporti che, riassume Maram Stern, vicepresidente del Congresso ebraico mondiale, sotto il pontificato di Benedetto XVI sono stati i migliori di sempre» (p. 15).
«Fan» di Giovanni XXIII, «complementare» a Giovanni Paolo II, fra un riso e l’altro, come registra spesso lo scrittore e giornalista Seewald, Benedetto XVI offre in questo contesto un messaggio religioso cristiano incerto, svuotato, terribilmente orizzontale.
Operazione mediatica planetaria di una Chiesa in grande difficoltà, sotto il governo di Francesco, che cerca di coprirsi con l’appoggio di Benedetto XVI? «Io sono un’autorità su come far pensare la gente» afferma Charles Foster Kane, protagonista e magnate dell’editoria del film Quarto potere (1941) di Orson Welles.
(1 – continua)
I testamenti, sia notarili che spirituali, si aprono post mortem. Ma oggi, nell’età mediatica e delle interviste, esistono i testamenti di chi è ancora vivo. Le Ultime conversazioni di Benedetto XVI (Papa emerito è omesso), a cura di Peter Seewald (edito in Italia da Garzanti e uscito in edizione speciale per «Corriere della Sera»), vengono proposte come «testamento spirituale, il lascito intimo e personale del papa che più di ogni altro è riuscito ad attirare l’attenzione sia dei fedeli sia dei non credenti sul ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo». Così è scritto sull’aletta di copertina di questo bestseller, uscito ieri in contemporanea mondiale e che lascia un profondo amaro in bocca. Siamo di fronte a memorie, riflessioni, commenti di un professore e di un funzionario in riposo che ha lavorato nella Chiesa, più che servito la Chiesa.
È un libro che disincanta.
Si tratta di un testo molto importante, da consigliare soprattutto a chi si era illuso che con Benedetto XVI si sarebbe potuti “tornare a casa”, alla Fede autentica. È un libro che procura dolore cocente; ma è fondamentale, perché parla a chi non avesse ancora compreso che le cause della pandemica crisi della Chiesa sono da rintracciare nel Concilio Ecumenico Vaticano II, al quale il giovane Joseph Ratzinger, formatosi sulla teologia d’avanguardia, partecipò in qualità di consulente teologico del Cardinale Josef Frings.
Con palese evidenza emerge che al Concilio vinsero i progressisti. «Cosa l’ha affascinata di più dello scenario conciliare?», chiede l’intervistatore:
«Anzitutto, semplicemente, l’universalità del cattolicesimo, la sua pluralità, il fatto che uomini provenienti da tutte le parti della Terra si incontrassero, uniti nello stesso ministero episcopale, e potessero parlare, cercare una strada comune. Per me fu poi enormemente stimolante incontrare figure della levatura di Lubac – anche solo parlare con lui – di Daniélou, di Congar. O anche discutere con i vescovi. La pluralità e l’incontro con personaggi eminenti, che inoltre avevano la responsabilità di prendere le decisioni, furono davvero esperienze indimenticabili» (p. 122).
Egli era allineato nello schieramento progressista: «All’epoca essere progressisti non significava ancora rompere con la fede, ma imparare a comprenderla meglio e viverla in modo più giusto, muovendo dalle origini. Allora credevo ancora che tutti noi volessimo questo. Anche progressisti famosi come Lubac, Daniélou e altri avevano un’idea simile. Il mutamento di tono si percepì già il secondo anno del Concilio e si è poi delineato con chiarezza nel corso degli anni successivi». Se tutti gli effetti hanno una causa è chiaro che furono proprio i Lubac, i Daniélou, i Congar a far deragliare il treno della Chiesa, portando corruzione dottrinale, dissacralità, disordine, insubordinazioni.
È un libro che impressiona
L’atteggiamento rispetto al Concilio, già nel corso degli anni Sessanta, muta in Ratzinger, ma le sue critiche non vengono risolte, poiché egli ha da allora in poi ricercato l’errore nell’interpretazione dei testi, nell’applicazione dei testi e mai nei testi stessi. Benedetto XVI è un convinto assertore della libertà religiosa, dell’ecumenismo, della collegialità, evidenti elementi di frattura con la Chiesa preconciliare.
Le sue esternazioni del 1966 al Katholikentag di Bamberga tracciano un bilancio che esprime scetticismo e disillusione postconciliare. Un anno dopo, durante una lezione a Tubinga, ammonisce che la fede cristiana è circondata «dalla nebbia dell’incertezza come mai prima nella storia». Perché? «La volontà dei vescovi era quella di rinnovare la fede, di renderla più profonda. Tuttavia fecero sentire sempre più la loro influenza anche altre forze, specialmente la stampa che diede una interpretazione del tutto nuova a molte questioni. A un certo punto la gente si chiese: se i vescovi possono cambiare tutto perché non possiamo farlo anche noi? La liturgia cominciò a sgretolarsi scivolando nella discrezionalità e fu ben presto chiaro che qui le intenzioni positive venivano spinte in un’altra direzione. Dal 1965, quindi, sentii che era mio compito mettere in chiaro che cosa davvero volevamo e che cosa non volevamo» (p. 135).
È un libro che mette a nudo le considerazioni del Papa emerito
Tutto, per Benedetto XVI, rientra in una dinamica evolutiva di hegeliana memoria. Come non fare, allora, riferimento al rigoroso libro che Monsignor Bernard Tissier de Mallerais pubblicò nel 2012 (Editrice Ichthys), “La strana teologia di Benedetto XVI: ermeneutica della continuità o rottura?”. Leggendo questo saggio si potranno offrire risposte serie e adeguate al modo con cui Papa Ratzinger riesce ancora oggi, con la tragedia ecclesiastica e cattolica in corso, risolvere i rimorsi di coscienza sorti con l’Assise.
«Certo, ci chiedevamo se avevamo fatto la cosa giusta. Era una domanda che ci ponevamo, specialmente quando tutto si scardinò. Il cardinale Frings più tardi ebbe forti rimorsi di coscienza. Io, invece, ho sempre mantenuto la consapevolezza che quanto avevamo detto e fatto approvare era giusto e non poteva essere altrimenti. Abbiamo agito in modo corretto, anche se non abbiamo valutato correttamente le conseguenze politiche e gli effetti concreti delle nostre azioni. Abbiamo pensato troppo da teologi e non abbiamo riflettuto sulle ripercussioni che le nostre idee avrebbero avuto all’esterno» (pp. 135-136).
Tutto ciò ha condotto ad una Passione della Chiesa senza precedenti, che senza intervento divino sarà impossibile risolvere. I tronfi teologi, che hanno manovrato e guidato il Concilio pastorale Vaticano II hanno deliberatamente rivoluzionato un ordine che per duemila anni di storia si era alimentato, con i suoi tralci, direttamente alla Vite, Cristo. «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15, 5-10).
È un libro dal sapore pirandelliano
Pare incredibile, per un credente, che di fronte allo scempio religioso, spirituale ed etico attuali non ci sia, da parte del papa che ha rinunciato alla sua responsabilità di Sommo Pontefice, nessun tipo di reazione né scandalizzata e neppure sofferta… Lo sguardo è asettico: egli si pone come il ricercatore che osserva il fenomeno, prende atto della situazione e invece di guardare ai rimedi, ovvi, della Tradizione della Chiesa, sostiene la sua autodistruzione a vantaggio di uno sviluppo avanzante della cultura, della filosofia, della teologia, della sociologia e, dunque, della Chiesa. Il mondo cambia e la Chiesa è tenuta a mutare, secondo un disegno rivoluzionario. Ultimo Papa del vecchio mondo o primo del nuovo? «direi entrambi […] io non appartengo più al vecchio mondo, ma quello nuovo in realtà non è ancora incominciato» (p. 218). Benedetto XVI è uno, nessuno, centomila. Non offre certezze dottrinali e dogmatiche. Sono giunte le problematiche conseguenze del Vaticano II? Non è dipeso dai progressisti, perché essi hanno agito «in modo corretto». Così facendo la coscienza cattolica viene soffocata. Urge il mondo, non il sopramondo.
Nel libro appare, fra gli «scandali più inflazionati», ovvero fra pedofilia ecclesiastica e caso Vatileaks, la revoca della scomunica al Vescovo Richard Williamson (oggi fuori dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X), scandalo secondo il quale il Papa avrebbe riaccolto nella Chiesa un negazionista dell’Olocausto. Il mondo ebraico insorse e con esso il quarto potere. Tuttavia il libro rende adesso tutto pirandellianamente chiaro:
«Williamson non fu mai cattolico né ci fu una riabilitazione della Fraternità. Anzi, il tema del rapporto tra il mondo ebraico e quello cristiano è tra quelli che stanno più a cuore di Ratzinger. Senza di lui, affermò Israel Singer, segretario generale del Congresso ebraico mondiale dal 2001 al 2007, non sarebbe stata possibile la determinante svolta storica nei rapporti bimillenari tra Chiesa cattolica ed ebraismo. Rapporti che, riassume Maram Stern, vicepresidente del Congresso ebraico mondiale, sotto il pontificato di Benedetto XVI sono stati i migliori di sempre» (p. 15).
«Fan» di Giovanni XXIII, «complementare» a Giovanni Paolo II, fra un riso e l’altro, come registra spesso lo scrittore e giornalista Seewald, Benedetto XVI offre in questo contesto un messaggio religioso cristiano incerto, svuotato, terribilmente orizzontale.
Operazione mediatica planetaria di una Chiesa in grande difficoltà, sotto il governo di Francesco, che cerca di coprirsi con l’appoggio di Benedetto XVI? «Io sono un’autorità su come far pensare la gente» afferma Charles Foster Kane, protagonista e magnate dell’editoria del film Quarto potere (1941) di Orson Welles.
(1 – continua)
Scriptorium – Recensioni. Rubrica quindicinale di Cristina Siccardi
10/9/2016
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Ultime conversazioni di Benedetto XVI, a cura di Peter Seewald – (seconda parte) … la pubblicazione di questo libro è un’operazione mediatica planetaria di una Chiesa in grande difficoltà sotto il governo di Papa Francesco, che cerca di coprirsi con l’appoggio di Benedetto XVI.
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Sono trascorse due settimane dall’uscita mondiale del libro Benedetto XVI. Ultime conversazioni a cura di Peter Seewald (edito in Italia da Garzanti e uscito in edizione speciale per «Corriere della Sera»), e ciò che ci eravamo domandati a ridosso della distribuzione del testo-intervista al Papa emerito (clicca qui per il precedente articolo) lo si può ora affermare senza punto interrogativo: si è trattata di un’operazione mediatica planetaria di una Chiesa in grande difficoltà sotto il governo di Papa Francesco, che cerca di coprirsi con l’appoggio di Benedetto XVI.
Gli attacchi al Pontefice, a fronte di scelte dottrinali e pastorali – si pensi soprattutto alla confusione e al dolore creati con l’esortazione apostolica Amoris laetitia, dove il sacramento dell’indissolubilità matrimoniale viene seriamente colpito, oppure alla recente Costituzione apostolica Vultum Dei quaerere, con la quale i monasteri perdono la loro secolare autonomia – si moltiplicano di giorno in giorno: commenti pubblici e privati, i cui toni si alzano a dismisura per protestare contro un sistema vaticano che si è fatto certamente più politico, ovvero temporale, che spirituale e sacrale.
L’amarezza è immensa e mentre le chiese si spopolano di fedeli e di sacerdoti, le parrocchie vengono accorpate con sempre maggior frequenza nelle diverse diocesi, anche italiane, e non solo più nelle zone montane o rurali, ma pure nelle diocesi metropolitane, con il risultato che le Sante Messe, anche nei quartieri delle grandi città, iniziano a non essere più garantite quotidianamente, a causa della rotazione interna dei sacerdoti.
L’organo d’informazione della CEI, Sir, ha titolato così l’articolo di Riccardo Benotti, apparso il 23 settembre u.s.: «I numeri della vita religiosa a 50 anni dal Concilio. Perché la crisi non è ancora alle spalle». Il contenuto è allarmante:
«Il calo dei membri degli Istituti maschili dal 1965 al 2015 è pari al 39,58 per cento (-130.545). Per le donne, invece, la diminuzione è analoga quanto a incidenza (44,61 per cento) ma dolorosamente più consistente come numero complessivo, lambendo il mezzo milione di persone (-428.828). Che la vita religiosa attraversasse un periodo di difficoltà era cosa nota. Ma leggere le cifre che raccontano gli ultimi cinquant’anni di Chiesa professa, pone seri interrogativi sulla tenuta di un progetto di vita consacrata nel terzo millennio. Quando Paolo VI chiude il Concilio Vaticano II nel 1965, i religiosi sono al massimo del fulgore. I membri degli Istituti maschili sono a quota 329.799, le donne sfiorano il milione (961.264). Sono gli anni in cui i religiosi danno esempio dell’universalità della Chiesa, sono presenti nei luoghi di missione sparsi per il mondo, non temono di confrontarsi con le ostilità degli Stati laici e incarnano l’impulso alla missione e all’incontro dei popoli. L’Europa ha già perso l’esclusiva della vita consacrata mentre le Americhe, in particolare gli Stati Uniti, si popolano di tonache e veli. Il tempo della prosperità, però, è agli sgoccioli. Appena un decennio dopo, i religiosi sono già scesi del 18,51 per cento (-61.053) e le religiose del 9,72 per cento (-93.491). Da allora ad oggi, la tendenza non si è ancora invertita. La recezione del Concilio è l’inizio del crollo».
Tutto molto chiaro: per alcuni anni, nonostante la fuoriuscita di molti, i numeri erano ancora notevoli in virtù degli insegnamenti magisteriali della Chiesa, e della preparazione nei seminari e nelle facoltà che il clero aveva ricevuto prima delle direttive conciliari. Quegli insegnamenti avevano ancora seguito linee guida di ciò che si era sempre detto e fatto, con le diverse e debite riforme che ordinavano la struttura pastorale ed ecclesiastica in base alle esigenze contingenti; successivamente, con l’ossessione del “dialogo”- a qualunque costo (anche ai prezzi che stiamo vedendo e vivendo) – con i lontani e con il mondo secolarizzato, le vocazioni sono calate drasticamente; inoltre migliaia di colori che erano stati ordinati e consacrati sono usciti per entrare definitivamente nel mondo, con il suo materialismo e le sue sregolatezze.
A fornire una spiegazione del calo drammatico che si è avviato a partire dal 1965 è il claretiano Angel Pardilla, che nel recente volume La realtà della vita religiosa (Lev) ha tracciato un bilancio. Padre Pardilla imputa alla cattiva recezione del Vaticano II il motivo principale di allontanamento, perché la «mancanza di una chiara identità positiva» ha di fatto posto la consacrazione a livello pari (o inferiore) di qualsiasi altra scelta di vita. In questo senso, aggiunge, la rilettura del Concilio è decisiva per una «migliore pastorale vocazionale e una più efficace medicina preventiva contro gli abbandoni».
È davvero disarmante e irrazionale tale posizione: invece di esaminare e discutere oggettivamente sulle conseguenze di un Concilio che ha creato molteplici e gravissime problematiche e fratture, compresa quella della diminuzione esponenziale dei sacerdoti, dei religiosi, delle religiose, si cerca ancora, con una pervicacia faraonica di veterotestamentaria memoria, la causa nella cattiva recezione dell’Assise 1962-1965.
Ebbene, nel libro “testamento”, con lettura in vitam, di Benedetto XVI, il Papa emerito non si occupa dei cali vocazionali, così come della salvezza delle anime nella Verità, bensì delle evoluzioni della Chiesa (che devono attenersi alle evoluzioni socio-storico-culturali), di cui i testi conciliari, quelli più rivoluzionari, fanno parte. Tuttavia la “logica” ermeneutica applicata a quei testi, vale per ogni realtà, compreso il suo ruolo, meglio, i suoi ruoli, che si potrebbero definire polifacciali:
«Ringrazio Dio che non ricade più su di me una responsabilità che non ero più in grado di sopportare. Lo ringrazio perché ora sono libero di camminare umilmente al suo fianco ogni giorno, di vivere tra amici e ricevere le loro visite» (p. 21), mentre fuori dal monastero Mater Ecclesia, ci sono anime, sia clericali che laicali, sopraffatte dalla preoccupazione e taluni dalla paura di non avere più un riferimento stabile sul trono di Pietro.
Al mondo il Papa emeritus, al momento delle sue dimissioni, aveva dichiarato che non avrebbe più parlato pubblicamente e si sarebbe completamente dedicato alla meditazione e all’orazione, ma il proposito di allora è venuto meno, infatti confida che non riesce del tutto a dedicarvisi: «In primo luogo non è possibile per via della carenza di forza psichica: non sono abbastanza forte interiormente per dedicarmi con costanza alle cose divine e spirituali. Ma ci sono anche cause esterne che me lo impediscono: molte visite, per esempio. Trovo positivo scambiare opinioni con le persone che reggono oggi la Chiesa o hanno un ruolo nella mia vita restando in questo modo ancorato alle cose degli uomini. Inoltre c’è anche la debolezza fisica che non mi permettere di restare sempre in quelle che potremmo definire le regioni alte dello spirito. In questo senso si tratta di un desiderio irrealizzato» (p. 23).
In questo libro Benedetto XVI appare come una persona insicura, sempre in ricerca. Molto legato a sant’Agostino e al beato John Henry Newman, Benedetto XVI si pone in sintonia soprattutto con il loro conflitto interiore e la loro lotta per la verità della fede. Tuttavia le loro rispettive biografie dimostrano come ambedue, una volta abbracciata la Fede apostolica, cattolica e romana non solo non hanno avuto più tentennamenti, dubbi, scrupoli, ma si siano prodigati, con la parola orale e scritta, a gridare dai tetti della loro preparazione e del loro Credo, quella Verità tanto bramata e poi definitivamente raggiunta.
Nel Papa dimissionario è dunque facile, in questo libro, trovare espressioni di fede, ma nel contempo di sbalorditiva incertezza, quella che gli deriva da una preparazione filosofica di stampo hegeliano, idealistica e personalistica. Così, da un lato, alla domanda di come si affrontano i problemi di fede, egli risponde con umiltà cattolica: «Io li affronto per prima cosa non abbandonando la certezza di fondo della fede e rimanendo, per così dire, immerso in essa» (p.27); mentre dall’altro, sentiamo un uomo, che è stato Sommo Pontefice, dire come una qualsiasi persona: «in certe situazioni il rapporto con Dio diventa difficile: sono i momenti in cui mi chiedo perché c’è tanto male al mondo e come tutto questo male si possa conciliare con l’onnipotenza e la bontà del Signore» (ibidem). Ma la risposta a tale quesito è dentro la sapienza della Chiesa, nata dal costato trafitto del Crocifisso.
È necessario ad un Papa utilizzare un linguaggio banale? Il Papa emerito, in questo “testamento”, se ne serve in una maniera che mai avremmo pensato e che, in un certo senso, si conforma con il modo di esprimersi di Papa Francesco. Alla domanda «Che cosa le passò per la testa quel giorno [il giorno delle dimissioni ndr], un giorno in cui lei ha scritto la storia?», egli così risponde: «Naturalmente mi chiedevo anche cosa avrebbe detto la gente, che figura ci facevo. Nella mia casa era un giorno triste. Durante la giornata mi sono confrontato in modo particolare con il Signore [è possibile pregare, invocare, supplicare, adorare il Signore, ma non confrontarsi. Con l’Onnipotente e l’Onnisciente nessuno, né uomo terreno, né spirito celeste, può confrontarsi ndr]. Ma non erano pensieri precisi» (p. 35).
Ecco il punto, Benedetto XVI, non ha «pensieri precisi», essi sono di carattere pirandelliano. Così è (se vi pare). Siamo di fronte all’inconoscibilità del reale e del soprannaturale, di cui ognuno può dare una propria interpretazione, la quale può non coincidere con quella degli altri. Perciò all’interrogativo «la diminuzione del vigore fisico è un motivo sufficiente per scendere dal soglio di Pietro?», sentiamo rispondere in questi termini:
«Qui si può muovere l’appunto che si tratta di un fraintendimento funzionalistico: il successore di Pietro infatti non è solo legato a una funzione, ma è coinvolto nell’intimo dell’essere. In tal senso la funzione non è l’unico criterio. Dall’altra parte, il papa deve fare anche cosa concrete, deve avere sotto controllo l’intera situazione, deve saper stabilire le priorità e via di seguito. A cominciare dal ricevimento dei capi di Stato, a quello dei vescovi, con i quali deve davvero poter avviare un dialogo intimo, fino alle decisioni quotidiane. Anche quando si dice che alcuni impegni si potrebbero cancellare, ne rimangono comunque così tanti, altrettanto importanti, che se si vuole svolgere come si deve non c’è ombra di dubbio: se non c’è la capacità di farlo è necessario – per me almeno, un altro può vedere la cosa altrimenti – lasciare libero il soglio» (p. 36).
Quella «dittatura del relativismo», imperante in Occidente, denunciata con forza da Benedetto XVI, ha ghermito lo stesso concetto di governo petrino? Si genera così un relativismo delle forme, delle convenzioni e dell’esteriorità, un’impossibilità a conoscere la verità assoluta. Questo relativismo è ben rappresentato dal personaggio Laudisi nella novella di Pirandello La signora Frola e il signor Ponza, pubblicata nel 1917 nella raccolta E domani, lunedì… Tutta la novella è tenuta in piedi dalla tesi che la verità è nascosta nei cuori dei soggetti, elemento ricorrente nelle opere del grande drammaturgo siciliano. Infatti i due protagonisti in questione si esprimono con argomentazioni assennate e fondate, dunque se uno dei due dice la verità, chi è nell’errore? Cosi è (se vi pare)…
Allora?
Allora il Papa emerito potrebbe essere anche Papa con un’azione diversa, nuova, inventata di fresco, perché «anche un padre smette di fare il padre», come ci spiega Benedetto XVI, dopo la sollecitazione di Seewald, ossia «Qualcuno ha sollevato l’obiezione che le sue dimissioni abbiano secolarizzato il papato. Ora non sarebbe più un ministero senza eguali ma un incarico come un altro»:
«Questo ho dovuto metterlo in conto e riflettere se, per così dire, il funzionalismo non abbia conquistato completamente anche l’istituzione papale. Ma anche i vescovi si sono trovati di fronte a un passo simile. Prima nemmeno il vescovo poteva lasciare il posto e molti di loro dicevano: io sono “padre” e tale rimango per sempre. Non si può semplicemente smettere di esserlo: significherebbe conferire un profilo funzionale e secolare al ministero, e trasformare il vescovo in un funzionario come un altro. Io qui devo però replicare che anche un padre smette di fare il padre. Non cessa di esserlo, ma lascia le responsabilità concrete. Continua a essere padre in un senso più profondo, più intimo, con un rapporto e una responsabilità particolari ma senza compiti del padre. E questo è successo anche con i vescovi.
In ogni caso, nel frattempo si è capito [prima i Pastori non capivano oppure il loro sguardo era più soprannaturale che terreno? E forza e resistenza venivano dall’alto, dalla Grazia di stato, come dimostrano i teologi prenovecenteschi e i santi di tutte le epoche? ndr] che da un lato il vescovo è portatore di una missione sacramentale, la quale lo vincola nel suo intimo, ma dall’altro non deve restare in eterno nella sua funzione. E così penso sia chiaro che anche il papa non è un superuomo e non è sufficiente che sia al suo posto: deve appunto espletare delle funzioni. Se si dimette, mantiene la responsabilità che ha assunto in un senso interiore, ma non nella funzione. Per questo a poco a poco si capirà che il ministero papale non viene sminuito, anche se forse risulta più chiaramente la sua umanità» (p. 39).
Non si può che rimanere basiti davanti ad affermazioni simili, figlie di una mentalità orizzontale (da destra verso sinistra e viceversa) e non verticale (dal Cielo verso la terra e viceversa), che non appagano le anime. Nel corso dei secoli i credenti in Cristo e nella Chiesa di Roma hanno sempre cercato di vedere nel Papa qualcosa del profilo del primo Pontefice, San Pietro che, nonostante le sue tante debolezze e fragilità umane, ha donato tutto a Nostro Signore ed è rimasto Vicario di Cristo fino al suo ultimo respiro, perché, una volta divenuti Pastori della Chiesa cattolica, si è tali per sempre. Ma il «per sempre» è una locuzione avverbiale che non piace più alla Chiesa postconciliare. Per sempre crea imbarazzo, preoccupazione, perplessità, a volte panico: il «per sempre» vincola a vita. La fedeltà perseverante inquieta nei tempi in cui la Chiesa sceglie di agevolare gli adulteri, scelta alla base della quale stanno gli «eccitanti» (p. 84) Hegel, Heidegger, Comte, von Balthasar, de Lubac, Söhngen, Schmaus, Pascher… «E’ stata davvero la facoltà [la “scuola di Monaco”, dal respiro ecumenico ndr] nel suo insieme a lasciare su di me un’impronta indelebile» (p. 87).
Ecco, dunque, la «strana teologia» di Benedetto XVI come l’ha saggiamente definita il Vescovo francese Monsignor Bernard Tissier de Mallerais: per Papa Ratzinger nella trasmissione dell’oggetto della Rivelazione è fondamentale il soggetto ricevente, che fa parte della Rivelazione stessa e da qui tutta la teologia si diparte, perciò «la Chiesa è in movimento, è dinamica, aperta, con davanti a sé prospettive di nuovi sviluppi. Che non è congelata in schemi: accade sempre qualcosa di sorprendente, che possiede una dinamica intrinseca capace di rinnovarla costantemente. Ciò che è bello e incoraggiante è che proprio nella nostra epoca accadono cose che nessuno si aspettava e mostrano che la Chiesa è viva e trabocca di nuove possibilità» (p. 43). Secondo questa “logica” è normale che sia stato eletto nell’ultimo conclave Papa Francesco. Tuttavia i papi ante Concilio Vaticano II non erano certo congelati in schemi, erano, invece, legati tutti insieme dal filo aureo della Tradizione, che permetteva di uscire da ogni errore, da ogni dubbio, da ogni relativismo, da ogni opinione discordante, da ogni ermeneutica. Erano Papi che camminavano sulla strada certa di Cristo e non nei tunnel creati dai filosofi e teologi moderni, figli del kháos.
(2- continua)
Ultime conversazioni di Benedetto XVI, a cura di Peter Seewald – (seconda parte) … la pubblicazione di questo libro è un’operazione mediatica planetaria di una Chiesa in grande difficoltà sotto il governo di Papa Francesco, che cerca di coprirsi con l’appoggio di Benedetto XVI.
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Sono trascorse due settimane dall’uscita mondiale del libro Benedetto XVI. Ultime conversazioni a cura di Peter Seewald (edito in Italia da Garzanti e uscito in edizione speciale per «Corriere della Sera»), e ciò che ci eravamo domandati a ridosso della distribuzione del testo-intervista al Papa emerito (clicca qui per il precedente articolo) lo si può ora affermare senza punto interrogativo: si è trattata di un’operazione mediatica planetaria di una Chiesa in grande difficoltà sotto il governo di Papa Francesco, che cerca di coprirsi con l’appoggio di Benedetto XVI.
Gli attacchi al Pontefice, a fronte di scelte dottrinali e pastorali – si pensi soprattutto alla confusione e al dolore creati con l’esortazione apostolica Amoris laetitia, dove il sacramento dell’indissolubilità matrimoniale viene seriamente colpito, oppure alla recente Costituzione apostolica Vultum Dei quaerere, con la quale i monasteri perdono la loro secolare autonomia – si moltiplicano di giorno in giorno: commenti pubblici e privati, i cui toni si alzano a dismisura per protestare contro un sistema vaticano che si è fatto certamente più politico, ovvero temporale, che spirituale e sacrale.
L’amarezza è immensa e mentre le chiese si spopolano di fedeli e di sacerdoti, le parrocchie vengono accorpate con sempre maggior frequenza nelle diverse diocesi, anche italiane, e non solo più nelle zone montane o rurali, ma pure nelle diocesi metropolitane, con il risultato che le Sante Messe, anche nei quartieri delle grandi città, iniziano a non essere più garantite quotidianamente, a causa della rotazione interna dei sacerdoti.
L’organo d’informazione della CEI, Sir, ha titolato così l’articolo di Riccardo Benotti, apparso il 23 settembre u.s.: «I numeri della vita religiosa a 50 anni dal Concilio. Perché la crisi non è ancora alle spalle». Il contenuto è allarmante:
«Il calo dei membri degli Istituti maschili dal 1965 al 2015 è pari al 39,58 per cento (-130.545). Per le donne, invece, la diminuzione è analoga quanto a incidenza (44,61 per cento) ma dolorosamente più consistente come numero complessivo, lambendo il mezzo milione di persone (-428.828). Che la vita religiosa attraversasse un periodo di difficoltà era cosa nota. Ma leggere le cifre che raccontano gli ultimi cinquant’anni di Chiesa professa, pone seri interrogativi sulla tenuta di un progetto di vita consacrata nel terzo millennio. Quando Paolo VI chiude il Concilio Vaticano II nel 1965, i religiosi sono al massimo del fulgore. I membri degli Istituti maschili sono a quota 329.799, le donne sfiorano il milione (961.264). Sono gli anni in cui i religiosi danno esempio dell’universalità della Chiesa, sono presenti nei luoghi di missione sparsi per il mondo, non temono di confrontarsi con le ostilità degli Stati laici e incarnano l’impulso alla missione e all’incontro dei popoli. L’Europa ha già perso l’esclusiva della vita consacrata mentre le Americhe, in particolare gli Stati Uniti, si popolano di tonache e veli. Il tempo della prosperità, però, è agli sgoccioli. Appena un decennio dopo, i religiosi sono già scesi del 18,51 per cento (-61.053) e le religiose del 9,72 per cento (-93.491). Da allora ad oggi, la tendenza non si è ancora invertita. La recezione del Concilio è l’inizio del crollo».
Tutto molto chiaro: per alcuni anni, nonostante la fuoriuscita di molti, i numeri erano ancora notevoli in virtù degli insegnamenti magisteriali della Chiesa, e della preparazione nei seminari e nelle facoltà che il clero aveva ricevuto prima delle direttive conciliari. Quegli insegnamenti avevano ancora seguito linee guida di ciò che si era sempre detto e fatto, con le diverse e debite riforme che ordinavano la struttura pastorale ed ecclesiastica in base alle esigenze contingenti; successivamente, con l’ossessione del “dialogo”- a qualunque costo (anche ai prezzi che stiamo vedendo e vivendo) – con i lontani e con il mondo secolarizzato, le vocazioni sono calate drasticamente; inoltre migliaia di colori che erano stati ordinati e consacrati sono usciti per entrare definitivamente nel mondo, con il suo materialismo e le sue sregolatezze.
A fornire una spiegazione del calo drammatico che si è avviato a partire dal 1965 è il claretiano Angel Pardilla, che nel recente volume La realtà della vita religiosa (Lev) ha tracciato un bilancio. Padre Pardilla imputa alla cattiva recezione del Vaticano II il motivo principale di allontanamento, perché la «mancanza di una chiara identità positiva» ha di fatto posto la consacrazione a livello pari (o inferiore) di qualsiasi altra scelta di vita. In questo senso, aggiunge, la rilettura del Concilio è decisiva per una «migliore pastorale vocazionale e una più efficace medicina preventiva contro gli abbandoni».
È davvero disarmante e irrazionale tale posizione: invece di esaminare e discutere oggettivamente sulle conseguenze di un Concilio che ha creato molteplici e gravissime problematiche e fratture, compresa quella della diminuzione esponenziale dei sacerdoti, dei religiosi, delle religiose, si cerca ancora, con una pervicacia faraonica di veterotestamentaria memoria, la causa nella cattiva recezione dell’Assise 1962-1965.
Ebbene, nel libro “testamento”, con lettura in vitam, di Benedetto XVI, il Papa emerito non si occupa dei cali vocazionali, così come della salvezza delle anime nella Verità, bensì delle evoluzioni della Chiesa (che devono attenersi alle evoluzioni socio-storico-culturali), di cui i testi conciliari, quelli più rivoluzionari, fanno parte. Tuttavia la “logica” ermeneutica applicata a quei testi, vale per ogni realtà, compreso il suo ruolo, meglio, i suoi ruoli, che si potrebbero definire polifacciali:
«Ringrazio Dio che non ricade più su di me una responsabilità che non ero più in grado di sopportare. Lo ringrazio perché ora sono libero di camminare umilmente al suo fianco ogni giorno, di vivere tra amici e ricevere le loro visite» (p. 21), mentre fuori dal monastero Mater Ecclesia, ci sono anime, sia clericali che laicali, sopraffatte dalla preoccupazione e taluni dalla paura di non avere più un riferimento stabile sul trono di Pietro.
Al mondo il Papa emeritus, al momento delle sue dimissioni, aveva dichiarato che non avrebbe più parlato pubblicamente e si sarebbe completamente dedicato alla meditazione e all’orazione, ma il proposito di allora è venuto meno, infatti confida che non riesce del tutto a dedicarvisi: «In primo luogo non è possibile per via della carenza di forza psichica: non sono abbastanza forte interiormente per dedicarmi con costanza alle cose divine e spirituali. Ma ci sono anche cause esterne che me lo impediscono: molte visite, per esempio. Trovo positivo scambiare opinioni con le persone che reggono oggi la Chiesa o hanno un ruolo nella mia vita restando in questo modo ancorato alle cose degli uomini. Inoltre c’è anche la debolezza fisica che non mi permettere di restare sempre in quelle che potremmo definire le regioni alte dello spirito. In questo senso si tratta di un desiderio irrealizzato» (p. 23).
In questo libro Benedetto XVI appare come una persona insicura, sempre in ricerca. Molto legato a sant’Agostino e al beato John Henry Newman, Benedetto XVI si pone in sintonia soprattutto con il loro conflitto interiore e la loro lotta per la verità della fede. Tuttavia le loro rispettive biografie dimostrano come ambedue, una volta abbracciata la Fede apostolica, cattolica e romana non solo non hanno avuto più tentennamenti, dubbi, scrupoli, ma si siano prodigati, con la parola orale e scritta, a gridare dai tetti della loro preparazione e del loro Credo, quella Verità tanto bramata e poi definitivamente raggiunta.
Nel Papa dimissionario è dunque facile, in questo libro, trovare espressioni di fede, ma nel contempo di sbalorditiva incertezza, quella che gli deriva da una preparazione filosofica di stampo hegeliano, idealistica e personalistica. Così, da un lato, alla domanda di come si affrontano i problemi di fede, egli risponde con umiltà cattolica: «Io li affronto per prima cosa non abbandonando la certezza di fondo della fede e rimanendo, per così dire, immerso in essa» (p.27); mentre dall’altro, sentiamo un uomo, che è stato Sommo Pontefice, dire come una qualsiasi persona: «in certe situazioni il rapporto con Dio diventa difficile: sono i momenti in cui mi chiedo perché c’è tanto male al mondo e come tutto questo male si possa conciliare con l’onnipotenza e la bontà del Signore» (ibidem). Ma la risposta a tale quesito è dentro la sapienza della Chiesa, nata dal costato trafitto del Crocifisso.
È necessario ad un Papa utilizzare un linguaggio banale? Il Papa emerito, in questo “testamento”, se ne serve in una maniera che mai avremmo pensato e che, in un certo senso, si conforma con il modo di esprimersi di Papa Francesco. Alla domanda «Che cosa le passò per la testa quel giorno [il giorno delle dimissioni ndr], un giorno in cui lei ha scritto la storia?», egli così risponde: «Naturalmente mi chiedevo anche cosa avrebbe detto la gente, che figura ci facevo. Nella mia casa era un giorno triste. Durante la giornata mi sono confrontato in modo particolare con il Signore [è possibile pregare, invocare, supplicare, adorare il Signore, ma non confrontarsi. Con l’Onnipotente e l’Onnisciente nessuno, né uomo terreno, né spirito celeste, può confrontarsi ndr]. Ma non erano pensieri precisi» (p. 35).
Ecco il punto, Benedetto XVI, non ha «pensieri precisi», essi sono di carattere pirandelliano. Così è (se vi pare). Siamo di fronte all’inconoscibilità del reale e del soprannaturale, di cui ognuno può dare una propria interpretazione, la quale può non coincidere con quella degli altri. Perciò all’interrogativo «la diminuzione del vigore fisico è un motivo sufficiente per scendere dal soglio di Pietro?», sentiamo rispondere in questi termini:
«Qui si può muovere l’appunto che si tratta di un fraintendimento funzionalistico: il successore di Pietro infatti non è solo legato a una funzione, ma è coinvolto nell’intimo dell’essere. In tal senso la funzione non è l’unico criterio. Dall’altra parte, il papa deve fare anche cosa concrete, deve avere sotto controllo l’intera situazione, deve saper stabilire le priorità e via di seguito. A cominciare dal ricevimento dei capi di Stato, a quello dei vescovi, con i quali deve davvero poter avviare un dialogo intimo, fino alle decisioni quotidiane. Anche quando si dice che alcuni impegni si potrebbero cancellare, ne rimangono comunque così tanti, altrettanto importanti, che se si vuole svolgere come si deve non c’è ombra di dubbio: se non c’è la capacità di farlo è necessario – per me almeno, un altro può vedere la cosa altrimenti – lasciare libero il soglio» (p. 36).
Quella «dittatura del relativismo», imperante in Occidente, denunciata con forza da Benedetto XVI, ha ghermito lo stesso concetto di governo petrino? Si genera così un relativismo delle forme, delle convenzioni e dell’esteriorità, un’impossibilità a conoscere la verità assoluta. Questo relativismo è ben rappresentato dal personaggio Laudisi nella novella di Pirandello La signora Frola e il signor Ponza, pubblicata nel 1917 nella raccolta E domani, lunedì… Tutta la novella è tenuta in piedi dalla tesi che la verità è nascosta nei cuori dei soggetti, elemento ricorrente nelle opere del grande drammaturgo siciliano. Infatti i due protagonisti in questione si esprimono con argomentazioni assennate e fondate, dunque se uno dei due dice la verità, chi è nell’errore? Cosi è (se vi pare)…
Allora?
Allora il Papa emerito potrebbe essere anche Papa con un’azione diversa, nuova, inventata di fresco, perché «anche un padre smette di fare il padre», come ci spiega Benedetto XVI, dopo la sollecitazione di Seewald, ossia «Qualcuno ha sollevato l’obiezione che le sue dimissioni abbiano secolarizzato il papato. Ora non sarebbe più un ministero senza eguali ma un incarico come un altro»:
«Questo ho dovuto metterlo in conto e riflettere se, per così dire, il funzionalismo non abbia conquistato completamente anche l’istituzione papale. Ma anche i vescovi si sono trovati di fronte a un passo simile. Prima nemmeno il vescovo poteva lasciare il posto e molti di loro dicevano: io sono “padre” e tale rimango per sempre. Non si può semplicemente smettere di esserlo: significherebbe conferire un profilo funzionale e secolare al ministero, e trasformare il vescovo in un funzionario come un altro. Io qui devo però replicare che anche un padre smette di fare il padre. Non cessa di esserlo, ma lascia le responsabilità concrete. Continua a essere padre in un senso più profondo, più intimo, con un rapporto e una responsabilità particolari ma senza compiti del padre. E questo è successo anche con i vescovi.
In ogni caso, nel frattempo si è capito [prima i Pastori non capivano oppure il loro sguardo era più soprannaturale che terreno? E forza e resistenza venivano dall’alto, dalla Grazia di stato, come dimostrano i teologi prenovecenteschi e i santi di tutte le epoche? ndr] che da un lato il vescovo è portatore di una missione sacramentale, la quale lo vincola nel suo intimo, ma dall’altro non deve restare in eterno nella sua funzione. E così penso sia chiaro che anche il papa non è un superuomo e non è sufficiente che sia al suo posto: deve appunto espletare delle funzioni. Se si dimette, mantiene la responsabilità che ha assunto in un senso interiore, ma non nella funzione. Per questo a poco a poco si capirà che il ministero papale non viene sminuito, anche se forse risulta più chiaramente la sua umanità» (p. 39).
Non si può che rimanere basiti davanti ad affermazioni simili, figlie di una mentalità orizzontale (da destra verso sinistra e viceversa) e non verticale (dal Cielo verso la terra e viceversa), che non appagano le anime. Nel corso dei secoli i credenti in Cristo e nella Chiesa di Roma hanno sempre cercato di vedere nel Papa qualcosa del profilo del primo Pontefice, San Pietro che, nonostante le sue tante debolezze e fragilità umane, ha donato tutto a Nostro Signore ed è rimasto Vicario di Cristo fino al suo ultimo respiro, perché, una volta divenuti Pastori della Chiesa cattolica, si è tali per sempre. Ma il «per sempre» è una locuzione avverbiale che non piace più alla Chiesa postconciliare. Per sempre crea imbarazzo, preoccupazione, perplessità, a volte panico: il «per sempre» vincola a vita. La fedeltà perseverante inquieta nei tempi in cui la Chiesa sceglie di agevolare gli adulteri, scelta alla base della quale stanno gli «eccitanti» (p. 84) Hegel, Heidegger, Comte, von Balthasar, de Lubac, Söhngen, Schmaus, Pascher… «E’ stata davvero la facoltà [la “scuola di Monaco”, dal respiro ecumenico ndr] nel suo insieme a lasciare su di me un’impronta indelebile» (p. 87).
Ecco, dunque, la «strana teologia» di Benedetto XVI come l’ha saggiamente definita il Vescovo francese Monsignor Bernard Tissier de Mallerais: per Papa Ratzinger nella trasmissione dell’oggetto della Rivelazione è fondamentale il soggetto ricevente, che fa parte della Rivelazione stessa e da qui tutta la teologia si diparte, perciò «la Chiesa è in movimento, è dinamica, aperta, con davanti a sé prospettive di nuovi sviluppi. Che non è congelata in schemi: accade sempre qualcosa di sorprendente, che possiede una dinamica intrinseca capace di rinnovarla costantemente. Ciò che è bello e incoraggiante è che proprio nella nostra epoca accadono cose che nessuno si aspettava e mostrano che la Chiesa è viva e trabocca di nuove possibilità» (p. 43). Secondo questa “logica” è normale che sia stato eletto nell’ultimo conclave Papa Francesco. Tuttavia i papi ante Concilio Vaticano II non erano certo congelati in schemi, erano, invece, legati tutti insieme dal filo aureo della Tradizione, che permetteva di uscire da ogni errore, da ogni dubbio, da ogni relativismo, da ogni opinione discordante, da ogni ermeneutica. Erano Papi che camminavano sulla strada certa di Cristo e non nei tunnel creati dai filosofi e teologi moderni, figli del kháos.
(2- continua)
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