ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 3 novembre 2017

Si sta sognando o si è desti'?


COMBATTERAI CONTRO IL DRAGO     
                        
Racconto: «Tu combatterai contro il drago». Nella chiesa di san Giorgio c’era una grande pala, che raffigurava la scena del combattimento con il drago e la principessa, che attendeva trepidante l’esito della lotta 
di Francesco Lamendola   

Le ombre della sera erano già calate sulla terra e le sagome degli alberi apparivano simili a neri giganti profilati contro gli ultimi bagliori del giorno morente; un profondo senso di malinconia e di mistero si diffondeva sulla terra che stava per entrare nel grembo della notte.
E tu dov’eri?
Ero già all’intero della chiesa, sebbene non ricordi quando vi fossi entrato; un momento prima ero all’esterno, e contemplavo gli ultimi bagliori di luce sui muri della facciata e intuivo un’ala scura che mi passava, velocissima, sopra la testa:  l’ultimo passero o il primo pipistrello? Un momento dopo ero dentro, nella fitta penombra della navata centrale.
Era la chiesa di san Giorgio?
Sì; c’era una grande pala, che raffigurava la scena del combattimento fra il santo e il drago, con la principessa in secondo piano, che attendeva trepidante l’esito della lotta.
Quella della tua infanzia?
Forse sì; difficile dirlo: sia perché non la ricordo più tanto bene – quanti anni sono passati, e non ci sono mai più ritornato! -, sia perché alcuni elementi mi facevano pensare, fin dall’esterno, a un’altra chiesa, abbastanza simile a quella e tuttavia, indubbiamente, diversa. Assomigliava un poco alla chiesa di C., e anche a quella di M.; quest’ultima, però, non è dedicata a san Giorgio, ma a san Martino. Sulla pala dell’altar maggiore, comunque, è pur sempre raffigurato un ufficiale romano, con la corazza scintillante, in sella a un bel cavallo bianco, la criniera al vento, che scalpita sulle agili zampe e trasmette un senso di forza contenuta, di sicurezza, e anche di protezione.


E poi?
Di colpo si faceva buio quasi del tutto; evidentemente il sole era tramontato, dietro i finestroni laterali, e non restava che il debole lucore di qualche candela a diradare le tenebre fitte. C’era un grande silenzio, a parte qualche lievissimo scricchiolio del legno, che, però, faceva uno strano effetto, come se vi fosse qualcuno che socchiudeva una porta, mentre l’edificio era deserto.
Come lo sapevi? Avevi controllato con lo sguardo, o era soltanto una tua sensazione?
No, non avevo controllato. Lo sapevo e basta; o, per dir meglio, lo “sentivo”.




Che sensazione avevi, oltre a quella di essere lì da solo?Eri spaventato, preoccupato, o cosa?
Né spaventato, né preoccupato, e tuttavia, innegabilmente, un po’inquieto. Mi sentivo “chiamato”; sapevo di essere lì per una ragione precisa, sapevo che qualcuno mi aveva attirato in quel luogo e che non ne sarei uscito, prima di aver capito di che cosa si trattasse e aver ricevuto un messaggio.
Un messaggio? Tu sentivi che avresti ricevuto un messaggio?
Detta così è una cosa troppo netta, troppo esplicita. In realtà non sapevo esattamente che cosa avrei ricevuto e forse non sapevo neppure se avrei ricevuto qualcosa, però provavo una sensazione di quel genere, non con la parte razionale, ma in maniera intuitiva. Non era nemmeno evidente il fatto di esser lì, e che fossi entrato in quella chiesa, per una ragione ben precisa; eppure, in qualche angolo della mia coscienza, lo “sapevo”, così come sapevo che qualcosa sarebbe accaduto, anche se non sapevo cosa.
È strano, vero?
Nei sogni è tutto un po’ strano, ma solo un poco, sicché si è incerti se si sta sognando o si è desti.
E poi, cosa è accaduto? Ripetimelo, per favore, anche se me l’hai già raccontato.
Camminando lungo la navata, fra i banchi vuoti, a un certo puto sono arrivato ai piedi della pala di san Giorgio che lotta contro il drago, e lo trafigge con la sua lunga lancia.
Quindi, eri salito sul presbiterio e ti eri avvicinato all’altare maggiore?
No, non direi. Mi sembra che fossi rivolto ad un altare laterale, sulla parete sinistra; ma non ne sono ben sicuro. Comunque il san Giorgio era lì, e non sull’altare maggiore, dove avrebbe dovuto essere.
Dimmi bene cosa è successo a questo punto. Ma era un sogno, poi?
Bella domanda: era un sogno? Me lo sono chiesto cento volte. E la cosa stranissima è che non sono riuscito a darmi una risposta. Era un sogno, molto probabilmente. Anzi, è quasi certo. Però, “quasi”. Se ci penso, non riesco a ricordare quando avrei fatto un tale sogno; e invece dovrei ricordarmene, non è vero? Voglio dire: dovrei almeno ricordarmi cos’ho provato al momento del risveglio, visto che lo ricordo così bene, a distanza di parecchi giorni, il che non mi era mai successa prima. I sogni, di solito, li dimentico ancora prima di svegliarmi: non li ricordo proprio. E quei pochi che ricordo, li dimentico nel giorno di qualche ora, o piuttosto di qualche minuto.Puff!, e via, non ci sono più: spariti, come la nebbia che si disperde al primo raggio di sole…
E se non era un sogno, che cos’era? Tu che cosa pensi che sia stato?
Chi può dirlo con certezza? Una specie di visione; o forse, semplicemente, una voce interiore.
Che cosa ti ha detto quella voce? E veniva dall’esterno o dall’interno della tua coscienza?
Non so da dove venisse; non l’ho percepito allora, e non l’ho capito nemmeno dopo. Mi diceva qualche cosa come: “Tu sei mio, adesso. E ti verrà dato un compito, avrai un incarico da eseguire”.
Era la voce di san Giorgio? Era lui che ti stava parlando e ti diceva quelle cose?
No, non credo che fosse san Giorgio. In un certo senso, san Giorgio ero io. Cioè, vi era il sottinteso che io avrei dovuto sostenere, come lui, una difficile prova, la quale avrebbe richiesto tutto il mio coraggio. E anche qualcos’altro. Nel senso che, con le mie sole forze, non avrei mai potuto farcela.
Quindi, ti veniva promesso l’aiuto della grazia.
Sì, credo di sì. Come viene promesso a qualsiasi cristiano che si rivolga a Dio con cuore puro.
Tu dov’eri, cosa facevi? Eri sempre ai piedi della pala del san Giorgio con il drago?
Sì. Era una pala molto bella, opera di un arista del Cinquecento, a giudicare dallo stile.
Era quella di Sebastiano Florigerio, nella chiesa della tua città natale?
Non lo so. Certo, le assomigliava; ma non so se fosse proprio quella. Raffigurava un san Giorgio che trafigge il drago, di discreta fattura; piuttosto scura, non molto luminosa. Era scurita dal tempo, credo che avesse bisogno di un restauro; alcuni particolari restavano del tutto in ombra, anche se le figure principali – il santo, il drago e la principessa - erano chiaramente riconoscibili, sullo sfondo di un paesaggio boscoso, tormentato, con qualcosa d’inquietante.
Ma tu che stavi facendo? Perché ti eri fermato proprio lì?
Ero inginocchiato su un banco di legno e tenevo la coroncina del Rosario fra le dita.
Stavi pregando, quando hai udito la voce?
Suppongo di sì; avevo il Rosario fra le dita ed ero lì, in ginocchio, e guardavo il dipinto. Ma a un certo punto avevo avuto come un brivido di freddo, o, forse, di paura.
Perché di paura?
Non lo so; forse perché il sole era sparito e si era fatto così buio, di colpo era scesa la notte e io mi sentivo solo e un po’ smarrito, non capivo bene dove mi trovassi e cosa stesse succedendo.
Ti eri messo a pregare perché avevi paura di qualcosa?
Non  ricordo se avevo già cominciato a pregare, suppongo di sì: ma non avevo iniziato a recitare il Rosario perché avevo paura; la paura, se era tale – forse non proprio paura, ma come un vago senso di smarrimento; come un venir meno del coraggio – era subentrata dopo, quando il sole era sparito e la chiesa era stata ingoiata dall’oscurità, come da un fiume nero che straripa dal suo letto.
Oppure erano state quelle parole a spaventarti, a farti sentire smarrito?
No; era come se una mano di ghiaccio mi avesse stretto il cuore, d’improvviso; ma non erano state quelle parole a provocare la stretta. Quelle parole mi avevano investito di un senso di altissima responsabilità, e, insieme, mi avevano dato una chiara coscienza della mia piccolezza, della mia inadeguatezza, sicché mi avevano causato più stupore e quasi incredulità, che turbamento o paura.
Ed è stato a quel punto che hai visto venire il Bambino attraverso la navata?
No, non veniva “attraverso la navata”; veniva avanti in uno spazio “diverso”, non so spiegare; era come se, a un tratto, non ci fosse più la chiesa, e io non fossi più in un luogo preciso, e intanto il Bambino veniva avanti, con un passo svelto e deciso, ma, nello stesso tempo, con una grazia e una naturalezza impareggiabili. Intorno a lui c’erano solo tenebre, ma dove posava i piedi, pareva sgorgare un fiume di luce, per cui i suoi piedi non toccavano terra, la sfioravano solamente. Dico “terra”, ma non camminava sulla terra; a un certo punto si è fermato e sotto i suoi piccoli piedi c’era un Libro, un grande Libro aperto, dalle pagine tutte splendenti; e tutt’intorno, come per incanto, fiorivano rose e gigli, e si sentiva un intenso profumo di fiori e d’erbe, come in un bellissimo giardino primaverile.
Eppure, hai detto che la stagione pareva autunnale, quando ti eri trovato all’esterno della chiesa.
Sì, pareva una sera di fine ottobre o di novembre: proprio come adesso.
Che aspetto aveva quel Bambino? E che età poteva avere?
Era radioso: irraggiava la luce tutto intorno a Sé. Era piccolo, molto piccolo: doveva avere tre, quattro anni al massimo. Eppure il suo viso, il suo sguardo, non erano infantili, nel senso che erano, sì, come quelli di un bimbo di quell’età, ma possedevano anche la serietà di un perfetto adulto. Era così piccolo, eppure così forte, così sicuro di Sé: pareva che da Lui si sprigionasse una forza sovrumana, indescrivibile, ma trattenuta, come se non vi fosse alcun bisogno di ostentarla.
Il Libro che sfiorava con i piedi, che libro era? Era la Bibbia? Era il Vangelo?
Credo di sì, ma nello stesso tempo era qualcos’altro, qualcosa di più vasto. Era come se da quelle pagine aperte e luminose uscisse tutta la sapienza del mondo, tutte le conoscenze, e anche tutti i miei pensieri, i miei ricordi; mi sentivo avvolto da innumerevoli presenze, e intuivo che c’erano anche le persone care che hanno già lasciato questa vita terrena, e che adesso vivono altrove.
Erano presenze buone, quindi; amichevoli nei tuoi confronti.
Sì: ne ero avvolto, ma non minacciato; al contrario, mi sentivo incoraggiato. Percepivo che forze possenti stavano dalla mia parte, e che mi avrebbero aiutato nell’adempimento del mio compito.
Ma di quale compito si trattava? Che cosa ti veniva chiesto?
Non mi è stato detto: “Tu dovrai combattere contro il drago”, però, in qualche modo, sentivo che si trattava di ciò. C’era un drago che doveva essere affrontato, perché era molto pericoloso e spaventava tutti, metteva in pericolo la gente; ma nessuno ancora lo aveva affrontato apertamente.
Quella voce non ti ha detto niente di più preciso?
Credo che mi abbia detto, o suggerito – in effetti, era una specie di comunicazione telepatica – che avrei dovuto “fare ordine nel castello”, perché alcuni servitori infedeli lo avevano gettato nel caos, approfittando dell’assenza del Padrone; avevano rubato e saccheggiato, e alcuni avevamo venduto una parte degli arredi e delle cose di valore, o se li erano portati via, chissà dove. Bisognava rimettere le cose a posto, rincuorare gli scoraggiati e preparare ogni cosa per il ritorno del Padrone.
Il Padrone era Gesù Cristo?
Credo proprio di sì.
Tu cosa sentivi? Ti pareva di essere all’altezza di una cosa simile?
No, per niente. Per tre volte devo aver esclamato “Davvero, proprio io? Ma non ne sono capace”. Ogni volta, però, la voce mi diceva: “Stai tranquillo; se sei stato scelto, vuol dire che lo puoi”.
E allora?
Allora, dopo un minuto di turbamento, mi sono raccolto in preghiera e ho risposto: “Sia fatta la santissima volontà del Signore, ora e sempre, per tutti i secoli dei secoli. Amen”.
Tutto qui? Il sogno, o qualsiasi altra cosa possa essere stato, è terminato in questo modo?
Sì; o, almeno, non ricordo altro. Ma avevo il cuore che ardeva di dolcezza; non vedevo l’ora che ritornasse il giorno, perché non volevo perdere neppure un minuto. Quando ho capito che mancava ancora molto all’alba, mi sono raccolto in me stesso e ho raddoppiato il fervore delle mie preghiere e delle mie domande.
Quali domande, scusa?
Chiedevo di sapere perché proprio io fossi stato scelto; e chiedevo anche quel che avrei dovuto fare.
E la voce?
Non l’ho più sentita. Però lo splendore del Bambino è aumentato; mi ha guardato l’ultima volta, con amore ineffabile, poi s’è girato e s’è allontanato, tornando da dove era venuto. Sono rimasto li, solo.
Che cosa provavi? A che cosa pensavi?
Non pensavo a niente. E provavo un gran senso di pace, quale non avevo mai provato in vita mia… 
«Tu combatterai contro il drago»

di Francesco Lamendola 

Del 02 Ottobre 2017
LE TRE FIERE

 Le tre fiere: edonismo, materialismo, libertinismo. Una triade che conduce direttamente alla morte dell’anima, nella maniera più rapida e inesorabile. Ma gli uomini i moderni pensano di essere migliori dei loro antenati? 
di Francesco Lamendola  
 

Al principio della Divina Commedia, come tutti sanno, Dante si smarrisce, di notte, in una foresta paurosa; e quando poi, al primo albeggiare, trova la strada per uscirne e inizia la salita di un colle ameno, si vede il passo impedito da tra fiere dall’aspetto terrificante: una lonza (forse una lince, forse una pantera), un leone e una lupa. La tradizione esegetica identifica questi tre animali con i tre vizi capitali dell’umanità: la lonza con la lussuria, il leone con la superbia e la lupa, la più minacciosa di tutte, con l’avarizia, intesa essenzialmente come cupidigia, ossia come smania di accumulare sempre maggiori ricchezze. Dante, con questa allegoria, ha voluto rappresentare la società del suo tempo, sprofondata nel peccato, e mostrare chiaramente quali sono le tendenze peccaminose che distruggono la dimensione morale degli individui e spingono tutto l’insieme della vita sociale verso il precipizio dell’autodistruzione. Per lui, il male che attanaglia l’umanità non  è qualcosa di vago, di generico, qualcosa a cui non si sa dare esattamene un nome, un nemico difficile da riconoscere; al contrario, egli dà un nome preciso a ciascun peccato, secondo la teologia morale cattolica, la stessa che dovrebbe fungere da stella polare anche per il credente dei nostro giorni. Si tratta dei sette vizi capitali: superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia; fra di essi, che formano l’impalcatura fondamentale dei nove cerchi infernali, Dante individua i primi tre come i maggiori responsabili della profonda decadenza morale degli uomini del suo tempo, e contro di essi vuole mettere in guardia i lettori della Divina Commedia, mostrando le terribili conseguenze di una vita peccaminosa e, al contrario, la perfetta beatitudine riservata alle anime che sanno vivere e morire nella grazia di Dio.
Fin qui, Dante. Ma gli uomini i moderni, sì, pensano di essere migliori dei loro antenati, in tutto, compresa la sfera morale; pensano di aver capito meglio quale sia il senso della vita, di aver compreso più cose, e con maggiore precisione, riguardo al mondo in cui viviamo; e, insomma, di aver molta più voce in capitolo, rispetto a quelli, di qualsiasi cosa si voglia parlare. Non fanno eccezione i cattolici moderni, sia laici, sia consacrati, e tanto meno i teologi moderni, i quali, chissà perché, ritengono di aver meglio penetrato il senso delle Scritture e di aver quindi attinto il “vero” spirito del Vangelo (spirito con la lettera minuscola), grazie alla loro superiore perizia filologica e alla loro capacità di contestualizzare, storicizzare, problematizzare. Qualcuno si è spinto ancora più in là, per esempio quel padre Sosa Abascal, attuale generale dei gesuiti, il quale è arrivato ad affermare, in una intervista rilasciata ad un giornale spagnolo, che non si sa cosa disse realmente Gesù Cristo, perché non c’era alcun registratore che ne registrasse fedelmente le parole: col bel risultato, se esiste una cosa che si chiama logica, che tutto quel che crediamo di sapere su Gesù è puramente ipotetico; che il Vangelo è solo un insieme di congetture, di approssimazioni, e, forse, di falsificazione (ma allora, aveva ragione Dan Brown?); che la Chiesa, per duemila anni, ha spacciato per vero e per certo quel che ha voluto, mentre, in effetti, tutto ciò non era né vero, né certo: non la teologia, non la dottrina, non la morale, e tanto meno quisquilie chiaramente soggette al mutare dei tempi, come la pastorale e la liturgia. È molto consolante sapere, in questi tempi d’incertezza morale  di sbandamento spirituale, che un pezzo grosso della Chiesa cattolica ha queste opinioni riguardo al Vangelo; è di vero conforto, per tutti i fedeli, sapere che, per Lui, non sappiamo cosa disse davvero Gesù, e quindi la nostra fede in Lui posa letteralmente sulla sabbia. Dio, che è somma Giustizia, gli renderà merito per aver svolto così degnamente, e con tanta dolcezza e delicatezza, il compito che gli era stato affidato, di custodire il piccolo gregge.
Sia come sia, padre Sosa o no, resta l’interrogativo: il dilemma morale fondamentale in cui versa l’umanità è cambiato, dai tempi di Dante Alighieri, o è sempre lo stesso? La modernità ha prodotto dei mutamenti anche per quel che riguarda la relazione dell’uomo con il peccato? A noi, che non siamo mai stati modernisti, che non abbiamo alcuna simpatia per la modernità e che consideriamo il modernismo teologico, secondo l’insegnamento di san Pio X, una gravissima eresia, anzi, la sintesi di tutte le eresie, la risposta sorge spontanea alle labbra: no, assolutamente no. Semmai, le tendenze peccaminose si sono ulteriormente accentuate, in una misura che lo stesso Dante, che pure era incline al pessimismo, non avrebbe probabilmente immaginato, neppure nelle sue più cupe fantasie. L’umanità, oggi, si è smarrita più che mai nella selva del peccato, in preda a tutti e sette i vizi capitali e specialmente alla lussuria, alla superbia e alla cupidigia. Tuttavia, se dovessimo scegliere delle parole e dei concetti tipicamente moderni, per indicare le tre fiere che minacciano di divorare l’anima dell’uomo moderno, diremmo – senza con ciò pretendere di modificare il quadro delineato dalla teologia morale cattolica di sempre, perché la modernità è una malattia nuova, ma insieme antica, in quanto attinge alle tendenze peccaminose ancestrali, che sono sempre le stesse e non mutano nel corso del tempo, anche se possono mutare le loro forme esteriori – che sono l’edonismo, il materialismo e il libertinismo.
L’edonismo: ovvero l’assolutizzazione del principio del piacere (dal greco edoné), visto come lo scopo ultimo della vita umana: una concezione assolutamente non cristiana, anzi del tutto incompatibile con il cristianesimo, dato che, per quest’ultimo, il fine della vita umana è ben altro: è il conseguimento del Bene, cioè della conoscenza, dell’adorazione e del servizio nei confronti di Dio, e, di conseguenza, dell’amor e verso il prossimo. Finché l’edonismo era insegnato, per così dire, da piccole scuole filosofiche, e predicato da qualche scrittore e pensatore isolato, non è mai riuscito a far breccia nella coscienza della società; è stato appannaggio, casomai, di piccoli gruppi di persone benestanti, le quali, disponendo di tempo e denaro in abbondanza, hanno coltivato i loro vizi privati, senza alcuna pretesa di farne la nuova religione dell’umanità. Le cose son radicalmente cambiato quando, con la tarda modernità, è arrivato anche un diffuso “benessere”, o, quanto meno, qualche cosa che veniva spacciato, con successo, per tale: abbagliata dall’improvvisa disponibilità di beni, dal fatto di vedere a portata di mano cose che, prima, la maggior parte delle persone poteva soltanto sognare, la società si è rapidamente convertita al nuovo credo, introiettandolo così a fondo, da farne una parte essenziale della propria struttura psicologica e morale. L’uomo moderno è, in quanto tale, edonista per definizione: non c’è bisogno di fare alcun ragionamento per essere edonisti, dal momento che i bambini, ormai, succhiano lo stile di vita edonista insieme al latte materno, e crescono con la ferma convinzione - appresa non dai libri, ma dall’esempio degli adulti e dall’azione concentrica dei mass media – che il piacere è il solo, vero fine dell’esistenza umana. Un ragazzo, oggi, si meraviglia alquanto se si tenta di spiegargli che, forse, le cose non stanno proprio così: per lui, l’edonismo non è una opinione, una possibilità, una via fra le possibili vie; è, puramente e semplicemente, la realtà dei fatti, la natura stessa delle cose. La vita è fatta per il piacere e il piacere è lo scopo della vita. Per moltissime persone, questa è una realtà tanto evidente, quanto lo è il fatto che si respira per vivere, o che si mangia per sostenere le funzioni vitali dell’organismo. E proprio perché la maggioranza delle persone non sono giunte all’edonismo attraverso un percorso teorico, ma ci sono nate in mezzo e lo considerano come il naturale modo di vivere, è adesso tanto più arduo, tanto più difficile tentare di sradicarlo dalle coscienze, e ricondurre gli uomini a un diverso atteggiamento nei confronti dello scopo della vita umana. Una filosofia si può sempre confutare, ma uno stile di vita non può essere confutato: può solo essere smentito dai fatti; ma ce ne vuole, prima che ciò accada. In pratica, le promesse del consumismo si sono già mostrate fallaci, e il miraggio del benessere è sfumato nello spazio di un mattino – molto meno di una generazione, nel caso del nostro Paese - eppure l’edonismo conserva la sua presa sugli animi: tale è la sua forza d’inerzia, e tale il suo potere d’attrazione, perfino dopo la sua piena e radicale smentita da parte della storia.

Le tre fiere: edonismo, materialismo, libertinismo

di Francesco Lamendola
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LA SPERANZA E' COSTRUIRE IN DIO                 
Quelli che costruiscono e quelli che distruggono. Viviamo in una società di uomini "massa", dominata dai ciarlatani e in cui la selezione avviene alla rovescia: dobbiamo ritrovare la speranza e "il senso del costruire" in Dio 
di Francesco Lamendola  


 


A ben guardare, non vi sono che due categorie di uomini al mondo; i tipi psicologici fondamentali non sono dodici, otto o sei, come hanno sostenuto eminenti studiosi della mente umana: sono solamente due, coloro che costruiscono e coloro che distruggono. Poi, naturalmente, ci sono le personalità intermedie; e ci sono anche, all’interno della medesima personalità, entrambe le tendenze: però, ala fine, cioè all’atto pratico, vien fuori la natura profonda di questi due tipi fondamentali, i costruttori e i distruttori., E tutta la storia umana, così’ come le piccole storie individuali delle singole persone, delle famiglie, dei luoghi di lavoro e di studio, dei quartieri, dei paesi, delle città e delle nazioni, è sostanzialmente il risultato dialettico dell’azione contrastante di questi due tipi.
I costruttori non sono la stessa cosa di coloro che amano realizzare progetti più o meno grandiosi, siano essi architettonici e urbanistici, o d’altro tipo, scientifici, tecnologici, artistici, filosofici, religiosi, militari, economici e finanziari. Non tutto coloro che costruiscono qualcosa sono veramente dei costruttori. Adolf Hitler, per esempio, era un uomo che coltivava piani di costruzione vastissimi; e nei suoi momenti creativi, quando discuteva con l’unico amico della sua vita, Albert Speer, carezzava il sogno ad occhi aperti della Grande Berlino, che sarebbe sorta al termine della guerra: una megalopoli immensa, monumentale, faraonica, dai viali larghi come fiumi, lunghi decine di chilometri, fiancheggiati da palazzi colossali, vero e proprio simbolo della perennità del Terzo Reich, testimonianza vivente della grandezza della Germania, del nazismo e di lui stesso, in qualità di Führer. No: i veri costruttori non sono persone di questo tipo; sono coloro i quali amano costruire qualcosa di profondo, di bello, di buono, di onesto, che resti anche dopo di loro; che sanno sacrificarsi per realizzare il loro ideale; che hanno, come scopo della loro vita, quello di lasciare il mondo un po’ più ricco e accogliente di come l’hanno ricevuto. Sono persone generalmente modeste, umili, ma determinate; che non arretrano davanti a minacce, fatiche o pericoli; che non si lasciano scoraggiare dagli sbandamenti emotivi delle masse, dal capriccio del giudizio altrui; che non temono di andare controcorrente, pur di affermare le cose in cui credono, pur di non dispiacere alla propria coscienza. Soprattutto, sono costruttori di pace, di giustizia e di bene: dove vanno, cercano di rasserenare l’atmosfera, d’illuminare la strada, di smorzare l’asprezza delle cose, di appianare le incomprensioni, di lenire il bruciore delle ferite. Non lo fanno per alcun secondo fine: semplicemente, amano la pace, la verità, la giustizia e la bellezza sopra ogni altra cosa, e sono disposti a mettersi in gioco sino in fondo, pur di vederle trionfare. Non sono egocentrici, non sono tirannici, non sono presuntuosi, moralisti o bigotti; non vogliono imporre il bene e il giusto ad alcuno, però non sopportano di rinunciarvi, non accettano di tradirli, non hanno un prezzo sul mercato degli uomini, cioè non sono disposti, mai, per nessuna ragione, a prostituirsi: né per una poltrona o una cattedra, né per uno stipendio sostanzioso, né per poter accedere a privilegi e posizioni di rendita. Sono coraggiosi, perfino intrepidi, ma non lo sanno: per loro, è naturale agire come agiscono, parlare e comportarsi come detta loro la coscienza. Se possono evitare di fare del male al prossimo, non chiedono di meglio; però non transigono sui principi, non si rimangiano mai la parola data, non si scodano mai di un impegno preso. Rispettano i piccoli e non hanno per essi minore riguardo che per i grandi; ai loro occhi, la dignità di un bambino vale quella di un re, e quella di una donna di fatica vale quella d’una imperatrice. Al tempo stesso rifuggono dai populismi da strapazzo, dalle facili demagogie, e non si curano di piacere agli uomini: per loro, è premio sufficiente una coscienza retta e la capacitò di guardarsi allo specchio senza arrossire. Il mondo ha disperatamente bisogno di loro: se non ci fossero, ogni cosa si fermerebbe e tutto andrebbe in malora: economia, politica, cultura, morale. Però il mondo è avaro di riconoscimenti verso di loro: è come se desse scontata la loro presenza, mentre scontata non lo è.
I veri costruttori hanno anche un animo delicato: non vorrebbero ferire alcuno, non urtano inutilmente la sensibilità altrui, aborriscono il pensiero di poter dare scandalo; preferiscono cento volte soffrire loro, in silenzio, che far soffrire gli altri, se ciò non è assolutamente indispensabile per realizzare il bene. Ma quando si verifica questo caso, allora non arretrano davanti a nulla; e non fanno sconti a nessuno, né ai loro migliori amici, o ai loro colleghi di partito, di squadra, di lavoro, né, tanto meno, a se stessi. Con se stessi, anzi, sono esigentissimi: pensano che ogni momento della loro vita e ogni energia di cui dispongono non siano una loro privata proprietà, ma un bene che Dio ha concesso loro affinché ne facciano il migliore uso possibile. Ed essi appartengono a quel genere di uomini che prendono molto sul serio le cose di Dio. Quando, poi, vedono qualcuno in difficoltà, qualcuno che soffre, qualcuno che non ce la fa, il loro primo istinto è quello di andare in suo soccorso, di offrirgli una  mano, o anche solo la consolazione d’una parola buona: e veramente, quando parlano alle anime turbate e confuse, sanno trovare gli accenti della vera pace, che scendono come un balsamo negli animi esacerbati; anche se loro, personalmente, hanno forse a che fare con problemi più gravi e con ostacoli più ardui di quelli che strappavano sospiri di desolazione a coloro che essi hanno soccorso.
I distruttori, invece, sono coloro che provano una sorta di piacere maligno nel distruggere, non importa cosa, purché ci sia da mandare in pezzi qualcosa, e tanto meglio se era qualcosa di prezioso, di antico, di nobile. Poiché non sanno costruire, amano distruggere: godono vedendo le cose guastarsi, le amicizie finire, gi amori inaridirsi, i valori offuscarsi, la malignità emergere e avanzare. Sono nature demoniache: anche se, a parole, dicono di amare la pace e di desiderare il bene, i loro atti li rivelano chiaramente per ciò che sono: odiatori del bene e della pace, invidiosi, bugiardi, fraudolenti, vendicativi, avari, superbi, orgogliosi. Sono soddisfatti se riescono a insinuare una parole che genera sospetti, una battuta che gela l’allegria, un’allusione che mette disagio; si compiacciono quando gli altri falliscono, cadono, vengono umiliati, annaspano e non riescono a rialzarsi; provano una soddisfazione profonda in tutto quel che di brutto, di negativo, d’ingiusto e di crudele può mandare all’aria i piani delle persone, demolire le loro speranze, provocare tristezza, sconforto e desolazione. In fondo, sono dei malati, affetti da una irreparabile distorsione dell’istinto vitale: anziché mettersi al servizio della vita, si mettono a disposizione della morte, perché la loro malignità non è che un travestimento del loro istinto di morte, della loro brama di Thanatos. Tuttavia, se anche sono dei malati, lo sono in un senso tutto particolare: infatti, più che esserne la causa, la malattia è l’effetto del loro modo di porsi rispetto al reale; un modo egoico, brutale, ingiusto e meschino, in base al quale tutto ciò che di bene capita agli altri è come se fosse rubato, è come se fosse sottratto a loro, e tutto ciò che essi cercano è un costante, incolmabile risarcimento. Pensano di avere il diritto di rivalersi, perché i loro meriti sono misconosciuti e il trattamento che ricevono dagli altri, su tutti i piani - affettivo, professionale, economico – non è proporzionato ai loro meriti, al loro valore, che il mondo, chi sa perché, non si decide a riconoscere. In effetti, ignorano cosa sia la vera amicizia e sono dei perfetti analfabeti dell’amore: dove arrivano loro, la serenità svanisce e le cose buone cominciano a inacidire, il calore dei sentimenti è come stretto in una morsa di gelo. Si comportano, in tutto e per tutto, come dei vampiri psichici: chi li frequenta, dopo un po’ di tempo si sente stanco, spossato, come se qualcosa gli avesse succhiato via le forze vitali. E, a dire il vero, è proprio così: perché i costruttori sanno solo prendere, senza mai dare nulla. Al massimo, fingono di dare: ma se se spendono una parola buona verso qualcuno, è solo per fare bella figura, o per qualche altro fine recondito; se provano a metter pace fra due contendenti, è solo per poterli controllare e manipolare meglio. Essi, infatti, amano più di ogni altra cosa il controllo e la manipolazione delle persone; è la sola cosa che li fa star bene.
I distruttori, inoltre, non sono capaci di guardarsi come realmente sono: si fabbricano, a loro proprio uso e consumo, un’immagine distorta, ed enormemente idealizzata e ingentilita, di se stessi; e finiscono per credere, sovente, alle loro stesse menzogne. Per esempio, se tradiscono un amico, non sono capaci di rimproverare se stessi per aver commesso un’azione bassa e meschina, ma si creano un alibi dicendosi che quell’amico, dopotutto, meritava una lezione, magari per il suo stesso bene. Riescono, cioè, ad auto-convincersi che non agiscono mai per avidità, superbia, lussuria, cupidigia, ma solo per ripristinare un ordine violato, o per rimediare a una prepotenza commessa da altri, a una situazione ingiusta e insopportabile; riversano sulle loro vittime la colpa di aver “dovuto” procedere contro di esse, ma pensano d’aver fatto di tutto per evitare di dover giungere a tanto. Questa incapacità di guardarsi per ciò che sono è, da un lato, un potente fattore di forza: essi non dubitano mai di se stessi, almeno a livello conscio, perché si ritengono già perfetti, benché ostacolati dalla incapacità e dalla goffaggine altrui; dall’altro lato, però, è anche la loro maledizione, perché, non sapendosi mai mettere in discussione, sono votati a reiterare sempre le stesse dinamiche, a ripetere gli sessi errori, senza mai imparare nulla dalle loro esperienze.  
Quelli che costruiscono e quelli che distruggono

di Francesco Lamendola
Del 01 Novembre 2017
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