Gli auguri di Facebook
La “festa delle buone feste” e gli auguri per uno splendido inverno, segnali dalle profondità di una società morente.
Nelle civiltà pre cristiane il solstizio d’inverno, che segna il momento in cui la durata delle ore di luce riprende a crescere, assumeva il valore simbolico della vittoria della luce sulle tenebre, una per tutte la festività del “sol invictus” del mitraismo, e non essendo noto il giorno esatto della nascita di Gesù il cristianesimo adottò la stessa simbologia del trionfo della luce sulle tenebre per istituire la festa del Natale.
Che si trattasse di una celebrazione pagana o cristiana in ogni caso la presenza di qualcosa indicato come luce e tenebre, come bene e male era presente nella celebrazione di questo giorno, mai prima d’ora si era presentata la possibilità che non ci fosse nulla da festeggiare perché non c’è alcun riconoscimento di qualcosa di definibile come oggettivamente bene e male se non di ciò che viene considerato tale dall’opinione della maggioranza.
Ecco quindi che ci si trova di fronte ad una festa che diviene un contenitore vuoto riempibile solo come celebrazione commerciale di un rito di vendita collettivo nel quale ciascuno si impegna a trovare qualcosa da comprare per qualcun altro, dove il gesto dell’acquisto divenuto un “compro quindi sono” garantisce la certificazione dell’esistenza dell’individuo e qualifica l’appartenenza ad una comunità di relazioni personali.
Dal volantino della festa organizzata dalla scuola di Milano Italo Calvino è sparita la parola “Natale“.
Privato del significato cristiano e della valenza escatologica di lotta tra il bene e un male sempre più difficili da identificare, del solstizio d’inverno resta dunque solo il gelo che appare come l’unica cosa da festeggiare compatibile con le misurazioni scientifiche di una società pseudoscientifica. Il consumismo è stato a lungo indicato come la degenerazione del significato del Natale ma era in effetti una procedura di sostituzione da festa della natività con quella della morte della trascendenza come cifra antropologica e nella quale l’acquisto diventa consolazione e unico fine di un’umanità avviata alla mercificazione anche di se stessa.
La diffusione improvvisa e pervasiva del rituale del “Black Friday” si pone come abdicazione finale alla cultura egemonizzante dell’anglosfera e cadendo dopo il giorno del ringraziamento  (la quarta domenica di novembre) si configura come l’inizio di un contro-avvento della festa che celebra l’orgia del consumo nella società della mercificazione.
E’ un Natale simile a quello descritto da Kubrick nel suo film testamento “Eyes wide shut” dove compaiono come protagonisti innumerevoli alberi di natale in assenza di qualsiasi riferimento cristiano, nella colonna sonora il termine “Natale” sarà presente solo fugacemente in un brano musicale intitolato “I Want a Boy for Christmas” che nel titolo evoca qualcosa di anti natalizio. La società di Eyes wide shut è permeata da una corruzione profonda, senza redenzione e senza speranze trascendenti dove la festa è solo un rito dove si celebra il dominio e il godimento sensuale che esalta l’associazione eros e thanatos dove inevitabilmente il secondo risulterà ultimo vincitore.
Allo stesso modo assistiamo ad una festa del gelo che psicologicamente si proietta nelle luminarie delle città che sono sempre più riempite da luci blu azzurrine, i colori freddi sostituiscono sempre più quelli caldi le grandi vie non trasmettono più calore in contrapposizione al freddo climatico ma vi si adeguano in quanto quello è l’oggetto della celebrazione, una festa del gelo e del nulla che quindi e una non festa perché nulla vi è da festeggiare, nulla di divino ma solo uno scivolamento verso le caratteristiche della morte che sono proprio il nulla e il freddo.
Assume una coerenza quindi anche il pandoro ai bachi come celebrazione della decomposizione, della riduzione dell’Uomo ad animale con l’unico discutibile privilegio della consapevolezza di divenire un giorno alloggio per insetti  buono solo come cibo per qualcun altro, batteri, vermi, o anche altri uomini, come quel pandoro.

Nel solstizio d’inverno nessuna vittoria della luce sulle tenebre da celebrare, solo il freddo e nervoso rituale di una società morente che rifiuta di prenderne coscienza in una sterile e sempre più triste rimozione collettiva.


“L’arte all’arte e il lupo alle pecore”. La storicità del 25 dicembre

Ricevuto, rilanciamo questo contributo di un nostro amico.
Per approfondimenti sul tema della data del 25 dicembre, rinviamo di recente anche a Clemente Sparaco, Dies Natalis Domini (Il Natale del Signore), in Riscossa cristiana, 18.12.2017.

“L’arte all’arte e il lupo alle pecore”. La storicità del 25 dicembre

di Vito Abbruzzi

«L’artә a lartә e u loupә e pekәrә», l’arte all’arte e il lupo alle pecore. È un detto tipicamente conversanese, per mettere a tacere chi pecca di saccenteria, ricordandogli che la ragione può vantarla solo il competente in materia. Un principio questo recepito in tempi recenti anche dalla scuola italiana, la cui didattica, oltre alle normali conoscenze e abilità, è volta all’acquisizione delle competenze. Infatti, oggi si parla di “didattica per competenze”. Ma questo principio, ahimè!, è ancora lontano dall’essere recepito proprio da molti docenti che o non si aggiornano o semplicemente non si confrontano con chi ne sa di più di loro. Ne deriva che la loro è unadidattica per stereotipi.
«Attenti agli stereotipi»! L’ammonisce – guarda caso – proprio Antonio Brusa, docente di Didattica della Storia all’Università di Bari, in un suo libro ad uso scolastico (L’atlante delle storie, vol. 1, ed. Palumbo, Palermo 2010, p. 51), ricordando, non tanto ai discenti quanto ai docenti, che «uno stereotipo è una convinzione falsa alla quale molti credono. Se ne trovano per ogni argomento. […] Ce ne sono, sorprendentemente, anche nelle conoscenze scientifiche. […] Dobbiamo liberarcene, se vogliamo capire […] e se vogliamo discutere con serietà» (ivi).
Gli stereotipi a cui il prof. Brusa fa riferimento sono quelli riguardanti «la storia della formazione dell’uomo», dicendo, a chiare lettere, a chi continua a sostenere il contrario anche e soprattutto nel mondo della scuola, che «siamo i fratelli, o i cugini delle scimmie, non i loro discendenti» (ivi).
Ma gli stereotipi riguardano anche il Cristianesimo, la cui storia è ancora insegnata sulla improbabilità dell’accadimento di certi eventi, che hanno di fatto cambiato la Storia. Mi riferisco al Natale e alla Pasqua, la cui narrazione apparterrebbe più al genere mitologico che a quello storico. E così si finisce col sostenere che Gesù non solo non è nato il 25 dicembre, ma forse non è mai esistito. Così anche la sua resurrezione: più presunta che reale. Ma su questo argomento ho già in mente un articolo di prossima pubblicazione: «La resurrezione di Cristo non è un pesce d’aprile», visto che quest’anno Pasqua sarà il 1 aprile.
Ho già ampiamente trattato su questo blog la questione del 25 dicembre e la sua fondatezza storica (vquiqui e qui). Non voglio annoiare ulteriormente, ma mettere in guardia proprio dagli stereotipi che, mitilogizzando la nascita del Cristo, danneggiano l’Insegnamento e conseguentemente l’educazione dei giovani, in nome di una emancipazione fasulla, che nega i principi cristiani su cui l’Occidente stesso è fondato.
Buon Natale.