ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 7 luglio 2018

Vivere senza il desiderio della verità

IL COMANDANTE VA FUCILATO


L'onore? Il comandante che ammaina la bandiera va sempre fucilato, anche nella Chiesa. Il credente “moderno” ha perso la fede ma per nulla al mondo lo confesserebbe: la sua è una chiesa morta dove si recita la parodia del sacro
di Francesco Lamendola  
  
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Il buonismo è l’abito mentale dei pusillanimi, se non dei traditori. Per buonismo si concede il perdono a chi viene meno al proprio dovere, mettendo in pericolo tanti altri. Per buonismo si chiuse un occhio sulla resa vergognosa degli ammiragli: dell’ammiraglio Gino Pavesi, che consegnò agli invasori angloamericani la fortezza di Pantelleria senza aver sostenuto un minuto di combattimento; dell’ammiraglio Priamo Leonardi, comandante della piazza di Augusta, che si arrese a sua volta coi potenti cannoni ancora intatti. Intercettato dai britannici, Leonardi aveva detto: Ho pensato di sparire in borghese. Alla fine se tutti gli altri se ne vanno non si vede perché non dovrebbe fuggire anche l’ammiraglio… Perché mai dovrei rimanere? Non sarò mica così fesso? Diamocela tutti a gambe. Alla fine della guerra, questo cuor di leone ebbe anche la medaglia d’argento al valor militare e una grossa promozione. Ma sì, perché processare generali e ammiragli che si arrendono senza combattere? Un processo getterebbe il discredito su tutti, mentre i sistemi politici, specie se nuovi, hanno bisogno di legittimarsi: pertanto hanno bisogno di eroi, anche solo immaginari, anche solo sulla carta; non certo di traditori da processare e condannare.

Ma ad un vero soldato, lo spettacolo di una resa ignominiosa fa bollire il sangue nelle vene. Ai marinai italiani che si arresero a Malta, nel 1943, doveva bollire il sangue, vedendo che i loro comandanti li avevano condotti verso il nemico non per affrontare l’ultima battaglia, e perire con le bandiere al vento, cercando di difendere la patria, ma per consegnarsi senza sparare un solo colpo, come se tre anni di guerra fossero stati tutti uno scherzo, e tanti bravi camerati fossero morti per nulla. Sentimenti analoghi dovevano aver provato i marinai tedeschi quando, nel 1919, la loro flotta andò a consegnarsi ai britannici, nella base di Scapa Flow, nelle isole Orcadi. Con la differenza che, al momento di consegnare materialmente le navi, i comandanti tedeschi preferirono autoaffondarle, mentre gli italiani non ci pensarono neppure. Ognuno ha il proprio concetto dell’onore, ma una cosa è certa: le navi da guerra sono fatte per combattere e per difendere la patria; se si arrendono senza lotta, vengono meno alla loro ragion d’essere. Una flotta ha valore se i suoi capi sono decisi a battersi fino all’ultimo; se no, è solo un insieme di manufatti galleggianti, prodotti dell’industria che si possono vendere o comprare, costruire o demolire, come una merce qualsiasi. Quel che tiene insieme una flotta, un esercito, è l’ideale: qualcosa che non si vede, non si tocca, che non ha prezzo, che non risponde alla logica mercantile.

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Oggi ognuno ha il proprio concetto dell’onore? la cultura moderna ha elaborato un sofisma: "Negare che sia possibile distinguere il male dal bene". La radice del relativismo è tutta qui.

Nel bel romanzo di Ernst Wiechert, La vita semplice (titolo originale: Das einfache Leben, 1939; tradizione di Lavinia Mazzucchetti, 1970, p. 183) il protagonista, Tommaso, un ex ufficiale di marina che ha comandato una nave nella Prima guerra mondiale, dice pacatamente, parlando con suo figlio, molti anni dopo la fine del conflitto: Un comandante di squadra che ammana la bandiera merita  il tribunale di guerra e la fucilazione. Il semplice marinaio come il comandante, capisci? Noi abbiamo tutti meritato il tribunale di guerra, tranne quelli che non sono tornati. E Wiechert è un pacifista, un uomo che ha fatto la guerra e ha imparato che la vita non è fatta per odiare; uno che finirà in un campo di concentramento per essersi opposto al nazismo. Pure, anche per lui, l’onore militare non è oggetto di transazioni: Un comandante di squadra che ammaina la bandiera merita il tribunale di guerra e la fucilazioneÈ semplice, lo capirebbe anche un bambino. Le piazzeforti sono fatte per resistere, le navi sono fatte per combattere, i comandanti sono fatti per condurre i loro uomini e i loro mezzi contro il nemico, non per ammainare la bandiera senza aver combattuto. Se lo fanno, tradiscono; e se qualcuno li assolve, o addirittura li decora, quel qualcuno ha, a sua volta, qualcosa da nascondere. Una menzogna sorregge l’altra: e così si costruisce un mondo di bugie, dove il vero è falso, e la menzogna diventa verità; ma solo a parole. Ebbene, una cosa del tutto simile è accaduta in un altro esercito, un esercito spirituale: la Chiesa cattolica. I comandanti si sono arresi al nemico, senza aver combattuto; e altri comandanti li hanno lodati e decorati.
Sappiamo benissimo che il paragone non piacerà a molte persone, proprio perché si regge su un assunto che, oggi, non piace: ammettere che siamo in guerra. Che il mondo è in guerra, che lo è sempre stato e sempre lo sarà: l’eterna guerra fra il bene e il male. E che un credente dovrebbe saperlo e dovrebbe regolarsi di conseguenza. Questo assunto non piace - anche se i nostri nonni lo conoscevano e lo accettavano sin da bambini, come cosa perfettamente logica e naturale, nonché come parte integrante della religione cristiana - per la semplicissima ragione che implica la necessità di schierarsi e di combattere, da una parte o dall’altra; implica l’impossibilità di restare a guardare, neutrali. E non solo perché combattere è faticoso; ma soprattutto perché la cultura moderna ha elaborato un sofisma, ormai quasi universalmente preso per buono, al fine di risparmiarsi le fatiche e i pericoli: negare che sia possibile distinguere il male dal bene. La radice del relativismo è qui, nella pigrizia etica prima ancora che in quella intellettuale. Si fa leva sul ricatto: nessuno deve ritenersi migliore di qualcun altro; dunque, se distinguere il bene dal male è cosa difficilissima, quasi impossibile, perché ciascuno ha la sua idea di cosa siano il bene e il male, ne consegue che nessuno può pretendere di schierarsi, meno ancora di combattere. Per schierarsi, bisogna scegliere; e per scegliere si deve giudicare: ma giudicare, là dove nessuno può ergersi a giudice, sarebbe un antipatico atto di presunzione. Vuoi forse montare in cattedra?, direbbero tutti gli altri; o, quanto meno, lo penserebbero. Così, nessuno giudica, perché nessuno vuol essere accusato di montare in cattedra. E tutti si crogiolano nel relativismo, e lo tirano in su o in giù, come una coperta, perché il relativismo è la più comoda delle filosofie: si adatta a chiunque e va bene per tutte le stagioni. Inoltre, conferma il dogma dell’egualitarismo, e sia pure al ribasso: nessuno ha la verità in tasca, dunque siamo tutti uguali. Anche se siamo uguali nell’ignoranza e nell’impotenza. Ma se siamo tutti ignoranti e impotenti, ecco che la cosa prende un aspetto non troppo sgradevole: mal comune, mezzo gaudio. E la società moderna, che è popolata di mezzi uomini, soddisfatti delle mezze verità e propensi alle mezze misure, trova il suo punto di equilibrio, la sua clavis unversalis, che le permette di continuare a esistere, nonostante il fatto fisico e incontrovertibile che nessun equilibrio è possibile sulla base del relativismo. Da ciò un’altra conseguenza, della quale, in fondo, tutti sono più o meno coscienti, ma che nessuno ammetterebbe in maniera franca ed esplicita: che la società moderna è una società di morti. Solo dei cadaveri ambulanti possono vivere sulla base di una menzogna così grossa: che nessuno può conoscere la verità per non offendere la suscettibilità altrui; eppure, questa menzogna è stata tacitamente istituzionalizzata, e ormai quasi nessuno osa più contraddirla. I pochi che lo fanno, vengono guardati come degli alieni, come delle persone che sono nate nel secolo o nel millennio sbagliato: delle creature strane, improbabili, che non dovrebbero più esistere, dei relitti del passato, degli scherzi della natura, come l’ornitorinco, che sembra fatto con i pezzi di animali diversi.

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Il credente “moderno” è uno strano personaggio, che ha perso la fede, ma per nulla al mondo lo confesserebbe: e perché dovrebbe farlo, visto che Dio non esiste !

E oltre alla pigrizia e alla vigliaccheria, un terzo elemento si è diffuso nella mentalità odierna: un misto di utilitarismo, cinismo e mancanza di senso dell’onore. Per molte persone, il concetto dell’onore ha perso qualsiasi significato: si ammaina una bandiera, quando ciò fa comodo, perché la bandiera è solo un pezzo di stoffa, e non vale alcun sacrificio, tanto meno il sacrificio della vita. Essendo prive di onore, queste persone non arrivano nemmeno a capire che qualcuno possa ritenerlo un bene talmente inestimabile, da venire prima di tutto il resto; per loro, chi agisce in base a un tale principio è un povero pazzo, un pietoso don Chisciotte. L’idea stessa che la cultura moderna ha di don Chisciotte è determinata dalla scomparsa del senso dell’onore. In una società dove è normale desiderare la donna o la posizione del proprio “migliore” amico, o persino del proprio fratello o del proprio padre, a chi importano più le considerazioni che hanno a che fare con l’onore? L’onore non frutta denaro, né carriera, né alcun tipo di vantaggio; esso nasce da una visione molto seria e responsabile della vita, dove ciascuno si prende le sue responsabilità: ma tutto questo sembra appartenere irrimediabilmente al passato, come le vecchie fotografie ingiallite nell’armadio della nonna. Oggi nessuno pare disposto a morire per una bandiera, per un ideale; nessuno si considera legato da una promessa. Ci si prende, ci si lascia, ci si usa, materialmente o moralmente: ma l’unità di misura resta sempre e solo il proprio io, la propria gratificazione o la propria convenienza. E siccome sembra che lo facciano tutti (in realtà non è così, ma i mezzi di comunicazione di massa e la cultura mainstream diffondono questa impressione), nessuno pare trovarci qualcosa di strano, di sconveniente, d’immorale.
C’è, nel romanzo di Paul Bowles Lascia che accada, un dialogo nel quale questo concetto viene espresso con forza da una donna, Daisy, che ha appena tradito suo marito con un semi sconosciuto, non sa nemmeno lei perché, e subito dopo si abbandona a queste malinconiche riflessioni (titolo originale: Let It Came Down, Random House, 1952; traduzione di Domenico De Gregorio, Milano, Sugar Editore, 1957, pp. 289-90):
“Siamo tutti dei mostri” disse Daisy con slancio. “Questa è l’età dei mostri. Perché è così tremenda la storia della donna e dei lupi? Tu la conosci: una donna che attraversa la tundra con una slitta piena di bambini, mentre i lupi la inseguono; ed essa butta loro un bambino dopo l’altro per placare le belve. Tutti la ritenevano orribile cent’anni fa. Ma oggi è assai più terribile. Molto di più. Perché allora era una cosa inverosimile e remota, ed oggi, è entrata nel regno del possibile. È una storia tremenda non perché la donna è un mostro. Niente affatto. Ma perché quello che essa fece per salvare se stessa è esattamene quello che tutti faremmo. È tremendo perché è disperatamente vero. Io lo farei, tu lo faresti, tutti quelli che conosco lo farebbero. Non è così?” (…)
“Conosci qualcuno che non lo farebbe? (…) Di’, lo conosci?”  insisté, e nelle sue parole vi era una invocazione disperata. Come se, nel caso che egli avesse potuto rispondere “Sì”, il suono di questa parola avesse potuto darle un po’ di pace. Se avesse risposto: “Sì, una tale persona esiste”, essa forse si sarebbe sentita confortata. Il mondo, quel posto lontanissimo, sarebbe nuovamente divenuto impossibile ed abitabile.
Il passaggio chiave, in questa riflessione, è, secondo noi, l’espressione il mondo, quel posto lontanissimo. 
Il comandante che ammaina la bandiera va fucilato

di Francesco Lamendola
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