Immersi nella menzogna, diciamo che la verità non c’è. Anche "la mela" del buon san Tommaso d’Aquino è diventata "una pera"? Come oggi per ragioni ideologiche e "falsificando il linguaggio" si travisa sistematicamente la verità
di Francesco Lamendola
La Grande Menzogna della modernità. La cosiddetta civiltà moderna è una anti-civiltà, perché, per la prima volta nella storia, la "falsificazione sistematica del linguaggio" è stata eretta a norma di legge. Tutta la cultura moderna, l’arte moderna, la filosofia moderna, la scienza moderna, il cinema, il teatro, la poesia moderni, l’economia moderna, lo sport moderno, per non parlare della stampa, della televisione, della scuola e dell’università, sono impasti con il lievito della Grande Menzogna. Migliaia di meschini pseudo intellettuali vanno predicando che la verità non esiste; che l’ethos, il nomos non esistono; che è vero quel che a ciascuno par vero e giusto quello che piace; e che tutto è bene se a me sembra bene.
Siamo in presenza di una falsificazione intenzionale della verità, per ragioni meramente ideologiche. La madre di tutte le menzogne è quella sul proprio essere. Chi s’inganna su ciò che è, s’inganna fatalmente anche su tutto il resto.
È una ben strana pretesa, quella degli uomini moderni: vivono sprofondati nella menzogna e dicono che la verità non esiste. Ma per vedere la verità, bisogna vivere nella luce: altrimenti è chiaro che non si vedrà nulla. La verità è la luce che illumina la vita. Non diciamo che sia sempre facile vederla; diciamo che è impossibile, se si è fatta la scelta di vivere al buio. È una strana pretesa, perché possiamo paragonarla a colui che s’ingozza di carne ogni santo giorno, si ammala di gotta, dopo di che va in giro dicendo che la salute non esiste, che la gotta fa parte della nostra natura e del nostro destino. Oppure somiglia a un sommozzatore che si prende sul vetro degli occhiali uno schizzo d’inchiostro da parte di una seppia, torna in superficie e dichiara d’essere diventato cieco: non è cieco, ma sono i suoi occhiali a essere sporchi. Così è la vista di colui che vive sprofondato nella menzogna: è completamente offuscata, ma questo non è né nella natura dell’uomo, né nel suo destino. La verità, infatti, è un vedere, naturalmente in senso metaforico: si vede che la cosa è proprio come il nostro giudizio l’ha vista e l’ha riconosciuta. Se abbiamo davanti una mela, posata sul tavolo - come faceva il buon san Tommaso d’Aquino coi suoi studenti, per immunizzarli dalla malattia del relativismo - e diciamo che quella è una mela, abbiamo detto la verità, per il semplice fatto che l’abbiamo vista e riconosciuta. È un esempio banale, se si vuole, ma è efficace nella sua estrema semplicità e chiarezza. Se avessimo detto che la mela non è una mela, ma un’altra cosa, non avremmo detto la verità.
Immersi nella menzogna, diciamo che la verità non c’è: oggi anche "la mela" del buon san Tommaso d’Aquino è diventata "una pera"?
Ma come può accadere che noi c’inganniamo, e che non vediamo, né riconosciamo la verità? Tralasciamo il caso della menzogna intenzionale, che pure è assai frequente, perché non riguarda il vedere, ma il volere. Chi mente deliberatamente, lo fa per una ragione nascosta e inconfessabile: egli ha deciso di non dire la verità, pur avendola vista e riconosciuta; ha deciso di ingannare gli altri, per qualche suo motivo personale, che non ha l’onestà di dire ad alta voce. Pertanto il suo mentire è, propriamente parlando, un frodare: non dipende da un difetto della sua vista, ma da una decisione della sua volontà. Non è un problema di tipo conoscitivo, afferente la sfera gnoseologica; è una questione di tipo morale, afferente la sfera del volere. Lasciamo stare, in questa sede, il problema della menzogna volontaria, e limitiamoci a quello del mancato riconoscimento della verità. Naturalmente possono esistere, e di fatto esistono, numerose possibilità intermedie fra i due estremi: quello della menzogna perfettamente volontaria e quello del giudizio erroneo dato in perfetta buona fede. Gli annali giudiziari ne sono letteralmente pieni: quante volte un testimone in buona fede ha reso la sua testimonianza in modo da accusare l’innocente (o, viceversa, da scagionare il colpevole), convinto, convintissimo, di aver solo riferito ciò che aveva visto, ma, in realtà, ingannandosi completamente sulla comprensione di ciò che aveva visto, tuttavia senza sospettarlo affatto? Il che ci suggerisce di ribadire il concetto già espresso: la verità è non solo un vedere rettamente, ma un vedere e un riconoscere: riconoscere che vi è perfetta coerenza fra la cosa e la visione, dalla quale scaturisce il giudizio. Quindi, vedere è anche giudicare: non è solo un fatto passivo, vedo quello che ho davanti, ma è anche un agire: vedo e giudico che quella cosa che ho davanti è proprio lei, e non un’altra.
I cattivi maestri della falsa misericordia e del perdono all’ingrosso stanno portando avanti un progetto scientemente deliberato per renderci la vita impossibile: sospingendoci verso un futuro nel quale sarà proibito giudicare, quindi sarà proibito rendere giustizia, quindi tutti quanti dovranno rassegnarsi a vivere nella precarietà, nell’amarezza e nella sofferenza di un disordine eretto a sistema.
Il tempo in cui viviamo non è propizio alla verità, perché non è propizio al giudicare. Non giudicare è diventata non solo una norma di comportamento, ma una bandiera ideologica: non giudico niente e nessuno, dunque sono una brava persona. Una brava persona è quella che non giudica, mai. E il fatto che una simile enormità parta proprio dalla odierna cultura cattolica, la dice lunga sul grado d’immersione nella palude della menzogna, in cui viviamo letteralmente sprofondati. Non ci vuol molto, infatti, a vedere che la norma del non giudicare è l’esatta perversione del Vangelo, perché il Vangelo è il discrimine fra ciò che è buono e ciò che è cattivo, quindi è un affilato strumento di giudizio. Certo, un giudizio sempre addolcito e temperato dall’amore: l’amore di Dio e l’amore del prossimo. L’amore, però, non può essere invocato come un correttivo, o, peggio, come un antidoto al giudizio: perché senza giudizio non c’è verità, e senza verità non c’è giustizia, e senza giustizia non c’è il cristianesimo, ma non c’è nemmeno alcun sistema di vita civile che risulti, alla lunga, sopportabile. Vivere nell’ingiustizia generalizzata è la sorte peggiore che possa capitare ad un essere umano. Ne deriva che i cattivi maestri della falsa misericordia e del perdono all’ingrosso stanno portando avanti un progetto scientemente deliberato per renderci la vita impossibile: sospingendoci verso un futuro nel quale sarà proibito giudicare, quindi sarà proibito rendere giustizia, quindi tutti quanti dovranno rassegnarsi a vivere nella precarietà, nell’amarezza e nella sofferenza di un disordine eretto a sistema. Al che diventa logico domandarsi chi possa essere così malvagio da spingerci deliberatamente verso un sistema di vita impossibile, e perché lo faccia. Non è questa la sede per approfondire la questione, che ci porterebbe lontano dal nostro assunto; del resto, ne abbiamo parlato molte altre volte: ci limiteremo a dire che il cristiano sa benissimo chi sia così malvagio da concepire un piano del genere, e perché lo faccia; e se non lo sa, vuol dire che non è un cristiano, sebbene creda di esserlo. La menzogna, appunto: credere di essere altro da quel che si è; ignorare di non essere ciò che si dice di essere, ma che si è un’altra cosa, completamente diversa. Questa è la madre di tutte le menzogne: la menzogna sul proprio essere. Chi s’inganna su ciò che è, s’inganna fatalmente anche su tutto il resto. Ciò detto, chiudiamo – in questa sede – la parentesi, e andiamo avanti. Limitiamoci a riflettere su tutti quei casi nei quali la menzogna non è intenzionale, o non lo è del tutto, nondimeno essa è così frequente e generalizzata, da costituire quasi uno stile di vita.
Siamo tornati ad adorare il "Vitello d'oro"? La Grande Menzogna della modernità è entrata perfino nella Chiesa, prima in sordina, poi con arroganza e spudoratezza crescenti: falsificando le parole, ha capovolto le cose e la parola di Cristo.
Abbiamo detto che la verità consiste nel vedere rettamente e nel riconoscere in maniera appropriata ciò che si è visto. Un uomo che ha perso la memoria in seguito a un evento traumatico, vede sua moglie e i suoi figli, ma non li riconosce: per lui, sono dei perfetti estranei. Egli vive così in un mondo di menzogna, e la cosa tragica è che la sua menzogna non è intenzionale e, forse, non è neppure rimediabile. Ma questo è un caso limite; limitiamoci ai casi normali. In circostanze normali, si può o non vedere, oppure vedere ma non riconoscere. Non vede chi porta degli occhiali talmente sporchi, da non avere più alcuna visione delle cose. Gli occhiali sporchi possono dipendere da circostanze esterne, ma più spesso dipendono da un atteggiamento sbagliato, nonché da abitudini sbagliate: perché noi siamo in gran parte il prodotto delle nostre abitudini, il risultato del nostro stile quotidiano. Se il nostro stile di vita è basato sulla insincerità e sulla inautenticità sistematica, al punto che esse sono diventate per noi una seconda natura, è vano sperare di poter vedere la verità: perché la verità si nega a coloro i quali non sono degni di lei. Con gli occhiali sporchi non si riesce a vedere; ma non si riesce a vedere nemmeno se, pur avendo gli occhiali puliti, non si riconosce quello che c’è nella visione. Io posso vedere che la mela è una mela; però, se non ho mai visto una mela, se vengo da un mondo dove le mele non esistono, non saprò dire di che oggetto si tratti, e, molto probabilmente, lo assocerò a quanto di più simile a lei, o di meno dissimile, esista nel mio bagaglio di conoscenze. Se quanto di meno dissimile da una mela, nel bagaglio delle mie conoscenze, è una palla di gomma gialla e rossa, dirò e penserò che quella che ho davanti è una specie di palla artificiale colorata. Il che ci conferma la natura giudicante della verità: chi cerca la verità, non solo può, ma deve assolutamente giudicare: giudicare non è un atto di arroganza, è una pura e semplice necessità logica. Solo giudicando, noi definiamo le cose. Se non definisco la mela, una mela, non capirò quel che ho davanti; definire la mela una mela è un giudizio che stabilisce la verità della cosa e che fonda un criterio di giustizia. La giustizia è possibile dove le cose sono chiamate secondo il loro nome, cioè dove sono riconosciute per quello che sono. Se chiamo il ladro, per esempio, un brav’uomo che ha preso ciò di cui aveva necessità, tradisco sia la verità, sia la giustizia, perché mi sono rifiutato di giudicare: ho preferito un atto d’ipocrisia (buonista) a un atto di verità e di giustizia. Se definisco un migrante economico un profugo, o un naufrago, benché egli non abbia fatto naufragio, e benché si sia messo volontariamente nella situazione di poter fare naufragio, tradiscono la verità e la giustizia: creo ingiustizia, infatti, nei confronti di chi è profugo per davvero e di chi è naufrago per davvero, cioè chi sta realmente sfuggendo a gravissimi e immediati pericoli e chi sta rischiando di perire in mare, per circostanze imprevedibili e del tutto estranee alla sua volontà. Inoltre, sto tradendo la verità, perché la verità si esprime attraverso il linguaggio, visto che noi pensiamo per immagini, e le immagini sono quelle evocate e definite dalle parole che adoperiamo.
La cosiddetta civiltà moderna è una anti-civiltà, perché, per la prima volta nella storia, la falsificazione sistematica del linguaggio è stata eretta a norma di legge.
Immersi nella menzogna, diciamo che la verità non c’è
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