ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 24 agosto 2018

La liturgia è l’espressione del sacro

SIRI E LA DERIVA CONCILIARE



Siri aveva visto e compreso la deriva conciliare. Come lui moltissimi padri probabilmente la maggioranza si trovarono invischiati nella palude di un’abile strategia mirante a confondere le acque: fu la resa alla civiltà moderna 
di Francesco Lamendola  

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 Ci fu, durante e subito dopo il Concilio, qualcuno che vide e che comprese quel che stava realmente succedendo nella Chiesa cattolica? Qualcuno che vide e comprese la manovra nascosta del partito progressista: introdurre nella Chiesa il neomodernismo, dietro le apparenze di un semplice rinnovamento liturgico e pastorale? Ci fu chi vide e comprese che da quella manovra sarebbe stato difficilissimo, se non impossibile, tornare indietro; anzi, che sarebbe stato difficilissimo, se non impossibile, evitare che, una volta aperta la prima breccia nella struttura compatta e coerente del Magistero, si cominciasse a scivolare in avanti, sempre più avanti, senza limite alcuno, perché il limite dei progressisti è il cielo (ma non, purtroppo, nel senso spirituale del termine)? Certamente ci fu più di qualcuno che lo vide e lo comprese. Oltre a monsignor Lefebvre, che tuttavia fu il più coerente nel trarre le conclusioni da tale analisi dei fatti, ossia che era in atto una rivoluzione modernista mascherata, e che era impossibile prendere per buone le parole d’ordine dei “riformisti”, cioè che si trattava di rinnovare e di aggiornare, ma senza cambiare in nulla il Deposito della fede, e quindi il sacro Magistero, tuttavia non ci fu nessuno, o quasi nessuno, che osò esprimere a voce alta i dubbi, i timori, le angosce che una simile prospettiva inevitabilmente dischiudeva a chiunque fosse dotato di un minimo di sensibilità e soprattutto a chiunque si ritenesse fermamente e irrevocabilmente vincolato alla fedeltà intransigente, assoluta, nei confronti di ciò che la Chiesa aveva fino allora insegnato.


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Monsignor Lefebvre, (a destra) fu il più coerente nel trarre le conclusioni del concilio, ossia che era in atto una rivoluzione modernista mascherata, e che era impossibile prendere per buone le parole d’ordine dei “riformisti”.

Fra i pochi che videro, compresero ed espressero i loro dubbi, le loro perplessità, i loro timori, ci fu il cardinale Giuseppe Siri, che, secondo una ricostruzione ipotetica del conclave del 1958, era stato eletto papa alla morte di Pio XII, ma aveva dovuto passare la mano al progressista Roncalli. Il cardinale Siri, che era stato presidente della C.E.I. dal 1959 al 1965, è sempre stato dipinto, allora e dopo, come il tipico vescovo conservatore, chiuso e refrattario ad ogni istanza di rinnovamento; ma questa è l’immagine che di lui ha messo in giro il partito che è risultato vincitore, quello dei neomodernisti; un’immagine ampiamente deformata, addirittura caricaturale. La realtà è che monsignor Giuseppe Siri era un fine teologo, un uomo retto e un limpido difensore della fede cattolica; uno che non temeva di apparire impopolare, purché la sua coscienza gli dicesse che era fedele a Dio; uno, infine, che non era succube del mito di tutti i progressisti, cioè che se non ci si rinnova, si muore, ma che sapeva vedere e valutare con serenità e con piena consapevolezza quel che un concilio ecumenico pastorale, il primo e l’unico, in  duemila anni di storia, avrebbe comportato per i futuri orientamenti della Chiesa, anche in campo dottrinale e dogmatico. Egli, infatti, vide con estrema chiarezza ciò che, stranamente, si direbbe, era sfuggito a quasi tutti gli altri, naturalmente quelli che erano in buona fede e senza malizia: ossia che non si può porre mano ad un radicale cambiamento liturgico, o pastorale, senza che ciò inneschi un radicale mutamento nella dottrina: perché le tre cose sono irrevocabilmente collegate, se si tocca l’una si toccano anche le altre, fra di loro esiste una unità strutturale, sostanziale, di ordine teologico. La liturgia non è la veste del sacro, è l’espressione del sacro; la pastorale non è il modo di trasmettere la fede, è la fedele trasmissione della fede; pertanto, la liturgia e la pastorale devono esser conformi alla dottrina, perché se la sopravanzano, per così dire, sul terreno pratico, necessariamente anch’essa finirà per vedersi obbligata ad adottare delle riforme, dei cambiamenti.

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Il cardinale Siri (il secondo da sinistra) ai lavori del concilio.

Ora, la dottrina cattolica non è riformabile, perché non è basata su di un sapere umano, ma su una Rivelazione soprannaturale. Chiunque pensi, o chiunque praticamente tenti, di modificare la dottrina, per ciò stesso non è più un cattolico, ma un eretico e un apostata, che ne sia pienamente consapevole o no. I modernisti degli inizi del1900 ne erano parzialmente consapevoli, e tuttavia san Pio X molto giustamente decise di sbarrare loro la strada con la massima decisione, perché se qualcuno pone mano all’accetta per distruggere le fondamenta della casa, non si perde tempo a chiedergli se sia in buona o in cattiva fede, lo si ferma senz’altro, prima che sia troppo tardi. I neomodernisti che s’infiltrarono al Concilio Vaticano II, invece, e parliamo dei teologi prima ancora che dei vescovi, erano pienamente consapevoli di essere degli eretici, ma ciò non li sgomentava affatto: non avevano alcun timore di Dio. Si leggano le lettere, anche di carattere privato, che il signor Karl Rahner scriveva durante i lavori del Concilio, comprese quelle che indirizzava alla sua amante; e si osservi il suo viso, il suo sguardo, l’espressione dei suoi occhi. Non vi è traccia di timor di Dio, in lui: solo una immensa presunzione, una superbia intellettuale senza limiti. Del resto, quando diceva: Ci vorrà un po’ di tempo, ma alla fine la Chiesa diventerà la chiesa del Concilio Vaticano II, e questa è una sua frase autentica, si ricava dalle sue stesse parole che egli sapeva benissimo di essere un eretico, ma che ciò non lo spaventava, anzi, se ne faceva un vanto. Infatti, che vuol dire che la Chiesa deve diventare la chiesa del Concilio Vaticano II? Non esiste una chiesa del Concilio Vaticano II: esiste la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica, fedele a Dio e a se stessa da duemila anni, vivificata dall’opera dei Santi e fecondata dal sangue dei Martiri. La Chiesa è la Chiesa, e non cambia, non può cambiare, perché, se cambiasse, allora vorrebbe dire che è una creazione terrena, che è una cosa di questo mondo; mentre la Chiesa non è una creazione umana, ma una creazione divina. Si serve dell’opera umana, ma è stata fondata direttamente da Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio, ed è costantemente assistita, ispirata e consigliata dallo Spirito Santo. Lo Spirito Santo non cambia idea; Dio non cambia la natura della sua Rivelazione agli uomini. Si è incarnato in Gesù Cristo, ha patito sotto Ponzio Pilato, è morto sulla croce, e al terzo giorno è risorto: questo è quanto la Chiesa crede, accetta e tramanda. Non c’è una seconda venuta di Cristo e non ci sarà, fino all’ultimo giorno della storia, quando ritornerà per giudicare i vivi e i morti. La frase di Karl Rahner, che la Chiesa dovrà diventare la chiesa del Concilio Vaticano II, tradisce una precisa, diabolica volontà di sovvertirla, di cambiarla, di trasformarla in qualcosa di nuovo e di diverso da ciò che essa è sempre stata. Quale immensa superbia, quale sconfinata arroganza in questa pretesa! Kar Rahner si sentiva superiore a  san Paolo, a sant’Agostino, a san Tommaso d’Aquino? Si sentiva anche superiore a Gesù Cristo? Perché Gesù Cristo ha detto chiaramente che i cieli e la terra passeranno, ma le sue prole non passeranno. E se non passeranno, non saranno neppure soggette a revisione o a modifiche.

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Il gesuita Karl Rahner ispiratore della svolta antropologica.


Karl Rahner era un gesuita, e i gesuiti stanno letteralmente tentando di stravolger le basi dottrinali della Chiesa. Un gesuita, Sosa Abascal ha cercato di sostenere che Gesù Cristo non ha affermato l’indissolubilità del matrimonio, e questo con la miserrima argomentazione che non sappiano cosa disse realmente Gesù, perché allora non c’erano i registratori. E lo stesso signore si è permesso di dichiarare, con la massima disinvoltura, che il diavolo non esiste, ma è solo una rappresentazione simbolica del male: smentendo di nuovo la veridicità dei Vangeli, oppure dando del bugiardo, del commediante e del cialtrone – che Dio ci perdoni - a Gesù Cristo, il quale ha affrontato il diavolo più e più volte, sin dall’inizio della sua vita pubblica, e ha eseguito una grande quantità di esorcismi, liberando uomini che ne erano posseduti. Un altro gesuita, l’argentino Bergoglio, un giorno dice che Dio non è cattolico, un altro giorno dice che aveva ragione Lutero, e un altro giorno ancora dice che l’infermo non esiste, salvo poi ritrattare goffamente, ma lasciando capire benissimo che tale è il suo vero pensiero. Questi sono i legittimi continuatori dell’opera nefasta di Karl Rahner. Ebbene,  il cardinale Giuseppe Siri, che era un teologo, ma che era e si considerava, soprattutto in quanto vescovo, un pastore del gregge di Cristo, vide, comprese e mise un guardia. Esiste una sua lettera, indirizzata a Bernard Häring, nel pieno di una polemica che qui non occorre riassumere, perché il lettore può prenderne conoscenza da solo, nel libro che ci apprestiamo a citare, nella quale egli si rivolge direttamente al teologo tedesco e gli ricorsa che i vescovi ne sanno più dei teologi, in fatto di dottrina; e che comunque né i vescovi, né i teologi, né alcun altro, hanno il diritto di cambiare anche solo una virgola della dottrina, perché la fede cattolica è la fede che la Chiesa ha sempre insegnato, e il vero credente è colui che si tiene pronto a testimoniare la sua fedeltà anche con la vita, se ne ve fosse bisogno.
Così scriveva il cardinale Giuseppe Siri, il 4 marzo 1967, al teologo tedesco Bernard Häring, che si era distinto come uno dei capofila del partito progressista in seno al Concilio Vaticano II e negli anni successivi (cit. in: B. Häring, Fede, storia, morale. Intervista di Gianni Licheri, Roma, Borla, 1989, pp. 294-95):
Reverendo Padre,
ricevo la Sua lettera. Sono sempre pronto ad aprire un dialogo con prefetto rispetto, ogni comprensione e fraterna carità. Ritengo però dirLe con assoluta franchezza:
che non ritengo onesto il dialogo il quale cerchi il compromesso della verità certa;
- che nulla di quello che fu certo nella Chiesa può essere cambiato senza che si neghi direttamente in essa il carisma e l’assistenza dello Spirito Santo, il suo Magistero, la sua indefettibilità;
- che io, anche ho lungamente Teologia, sono un Vescovo, ossia un Maestro, non certo infallibile ma autentico, cosa che non sono i teologi;
che il mondo lo dobbiamo salvare colla grazia infinta del Signore, ma non lo dobbiamo seguire, avallare, scusare nei suoi errori e nei suoi peccati.
Sono fedele alla mia Fede ed ho giurato più d’una volta in circostanze solenni di mantenerla fino alla morte.
Tanto ho detto, reverendo Padre, per lealtà verso di Lei e perché Lei non sia indotto a credere che io entro in un dialogo, cambiando qualcosa di quello che sono e che debbo essere  nell’ossequio alla divina volontà.
Lei stia attento alle responsabilità che si prende, perché di queste risponderà ad Uno ben più alto di me.
Prego Dio perché la benedica infinitamente.
                                                                                                                                Giuseppe Card. Siri


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Il "Golpe" dei gesuiti? Da Karl Rahner a Sosa Abascal e papa Bergoglio: il cerchio dei gesuiti si sta chiudendo.



Siri aveva visto e compreso la deriva conciliare

di Francesco Lamendola

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