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mercoledì 31 ottobre 2018

Clavis universalis

GIU' LE MANI DAL PADRE DANTE



Cari progressisti, giù le mani dal padre Dante. Proto marxista Dante? Un esempio di quella intollerabile "appropriazione ideologica" che la sinistra si è permessa nei confronti della cultura in genere per renderla a sé omogenea 
di Francesco Lamendola   

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La cultura italiana degli ultimi settant’anni è stata egemonizzata dalla sinistra, quindi la cultura progressista è divenuta la cultura tout-court, e chi non era o non appariva progressista, ne veniva escluso. Questa impostazione ha avuto anche funzione retroattiva: sono spariti, un po’ alla volta, o sono stati molto ridimensionati, sui testi scolastici di letteratura e di filosofia, gli autori giudicati non conformi alla linea progressista, perciò “retrivi” e “reazionari” - tipico esempio: Carducci - e sono venuti alla ribalta, tumultuosamente e prepotentemente, gli autori “organici” alla cultura gradita alla sinistra, anche gonfiandoli molto al di là del loro valore effettivo, sino a presentare come dei maestri di stile o di pensiero delle figure assai mediocri o delle semi-nullità. Papini e Prezzolini, che sono molto più grandi di Calvino o di Pasolini, sono quasi spariti, e i giovani studenti di liceo non li hanno mai sentiti nominare; oblio per Bacchelli, che pure non era fascista ma solo “borghese” e incenso per Moravia, Eco Fo(quest’ultimo addirittura premiato con il Nobel). Malaparte viene forse ricordato, come del resto Vittorini, grazie alla sua “conversione” di rotta, dal fascismo al comunismo; ma per chi non si è ravveduto”, come Soffici, o come Gotta, nessuna pietà: errare humanun, perseverare diabolicum. Essi pertanto meritavano di essere epurati, e così è stato. 

E buon per Ungaretti, che se l’è cavata sostanzialmente senza danni. Ma Luzi, cattolico – e qui ci avviciniamo ai nostri giorni - come avrebbe potuto rivaleggiare con l’ateo e nichilista Montale?  Luzi ha detto: Io non sono un uomo di chiesa, ma il cristianesimo è implicito a tutto ciò che io ho pensato e scritto – sempre più meditato, e messo in rapporto con tutta l’evoluzione della cultura occidentale. Intollerabile. Gentile, era impossibile ignorarlo; però quale professore di filosofia si trattiene dal sottolineare la sua adesione al fascismo e, orrore degli orrori, alla Repubblica Sociale, e sia pure inseguendo una impossibile riconciliazione nazionale? Pare che il cadavere di Matteotti pesi anche su di lui, e a malapena si degnano di ricordare che l’esecuzione di Gentile non fu meno barbara di quella di Matteotti stesso; ma a Gramsci e a tutti gli intellettuali di sinistra, nessun professore si sogna di addebitare i morti ammazzati da Stalin o le vittime delle foibe e degli eccidi dell’aprile e del maggio 1945 in Italia.

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Un monopolio ingiustificato e le mostruosità intellettuali dei progressisti: la cultura italiana degli ultimi settant’anni è stata egemonizzata dalla sinistra, quindi la cultura progressista è divenuta la cultura tout-court, e chi non era o non appariva progressista, ne veniva escluso.

La sorte riservata agli autori più importanti, quelli che sono alla base della cultura e della civiltà italiana, è stata determinata dalla stessa distorsione mentale. Quando riuscivamo sgraditi, per una ragione o per l’altra, certo non si poteva eliminarli: allora i critici e gli storici della sinistra si sono industriati, con molto ingegno e buona volontà (si fa per dire), a interpretarli a modo loro, a distorcere il senso del loro pensiero e delle loro opere, per renderli conformi alla cultura progressista odierna. Il che, nel caso degli autori medievali, ha dato luogo a delle vere e proprie mostruosità intellettuali, a dei veri e propri ircocervi: ma tant’è, una volta che ci si era messi su quella strada, ossia di amalgamare e adeguare tutto alle intenzioni della cultura di sinistra, non c’era altro da fare se non quello. Ed ecco che i catari, ad esempio, fanatici che odiavano il mondo e lo consideravamo una creazione del demonio, sono diventati dei campioni del libero pensiero, solo perché detestavano e combattevano la Chiesa cattolica; e la loro repressione è diventata un “martirio”, un olocausto, laico naturalmente. Lo stesso procedimento è stato adottato verso tutte le eresie medievali: perché quel che proprio non poteva, e non può, andare giù agli intellettuali progressisti, è il medioevo in se stesso, in quanto epoca profondamente, intimamente religiosa e cattolica. L’uomo medievale è l’uomo cristiano assai più di quanto non lo sia qualsiasi cristiano “moderno”, e magari filocomunista: quindi, il tipo umano medievale doveva essere ricondotto, per forza, all’alternativa sfruttato/sfruttatore, bianco o nero, un poveraccio spremuto dal potere laico e da quello ecclesiastico, oppure un rappresentante di quest’ultimo, disposto a qualsiasi violenza, materiale o intellettuale, pur di conservare i suoi odiosi privilegi. In altre parole: la lotta di classe come clavis universalis per spiegare tutto, anche il pensiero e la spiritualità.
Un tipico esempio di questo atteggiamento mentale e culturale è ravvisabile nella seguente pagina, scelta quasi a caso, del commento di Marcello Craveri alla Divina Commedia di Dante, tratta dal commento introduttivo al XXI canto dell’Inferno (Il Girasole Edizioni, 1993, vol. 3, pp. 402-403):
I diavoli, che Dante aveva già introdotto nel poema, alle porte di Dite (canto VIII) come personificazione simbolica della potenza del male e dell’opposizione alla salvezza dell’uomo, e poi nella prima bolgia del cerchio ottavo, intenti a sferzare adulatori e seduttori, non erano ancora stati descritti, se non fugacemente come “demòn cornuti” (XVIII 35). Ma in questo canto e nel successivo, essi diventano i veri protagonisti. (…)
La rappresentazione fisica dei diavoli di Dante corrisponde a quella tradizionale dell’arte figurativa gotica, che li voleva mostruosi, deformi, violenti, e delle prediche sacerdotali, come quella del monaco borgognone Raoul Glaber, del secolo XI, il quale dichiarava di aver visto tre volte, di notte: “una specie di nano, con colo gracile, viso emaciato, fronte rugosa, naso appuntito, labbra gonfie, mento sfuggente, orecchie villose, denti canini, ventre rigonfio, schiena ingobbita…”. Ma il loro comportamento, in questo canto e nel successivo, ora minaccioso ora maligno, la loro irrequietezza, il loro gusto per la beffa e la provocazione, e a volte persino la loro ingenuità, tanto da lasciarsi ingannare dai barattieri, fanno parte di una tradizione popolare, che ridimensiona e umanizza la figura terribile dei diavoli teologici, avversari di Dio, e li considera piuttosto come esseri bizzarri, facili allo scherzo, quasi infantili nella loro mentalità.
Le masse popolari, avvezze nella precarietà della loro difficile vita più a sofferenze che a gioie, più a spettacoli di ingiustizie e di criminalità che di bene e di pacifica convivenza, vedevano addirittura nel diavolo un loro alleato, un ribelle contro coloro che predicavamo la bontà, la fratellanza, la carità, ma non le praticavano, un ribelle che prometteva gioie tangibili in questo mondo, anche a costo di rinunciare a quelle ipotetiche dell’aldilà. Le streghe lo vedevano in forma umana, durante i loro sogni isterici, durante i quali erano da esso trasportate ai “sabba”, dove finalmente – ma era soltanto un sogno – si mangiava, si beveva, si faceva all’amore.
Dante, e ciò è frutto del suo perfetto equilibrio razionale, raffigura qui i diavoli, pur non negandone la funzione di tentatori e tormentatori, come proiezione di questa immagine popolare. Perciò, questo canto, e anche il successivo, hanno una tonalità narrativa più vicina al “comico” che al tragico, ed è Dante stesso ad avviare questa interpretazione, fin dal secondo  verso del canto, in cui definisce la propria opera “la mia comedìa. Ma bisogna intendere comico nel significato che Dante stesso ha dato al vocabolo, come indicativo di un linguaggio non aulico, ma dell’uso quotidiano, anche non provo di espressioni gergali e persino oscene. Sono pertanto fuori strada coloro che giudicano questi canti “comici” nel senso moderno della parola. Di “commedia” in senso moderno si può parlare solo se si considera la struttura drammatizzata dei due canti, come azione scenica, che corrisponde a quella che oggi diciamo “commedia” e che ai tempi di Dante era detta “jeu” in francese e “ludo”, alla latina.

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La lotta di classe come clavis universalis per spiegare tutto, anche il pensiero e la spiritualità? L'appropriazione ideologica che la sinistra si è permessa nei confronti del bagaglio artistico e letterario in generale e anche nei confronti del padre Dante è stato ed è intollerabile.

Di quale campionario di banalità, forzature, preconcetti politicamente corretti, tipici della cultura progressista e neomarxista, è intessuta questa pagina di prosa: è un perfetto esempio di quella intollerabile appropriazione ideologica che la sinistra si è permessa nei confronti del bagaglio artistico e letterario, e culturale in genere, per rendere a sé omogenei anche i contenuti più distanti, gli autori più incompatibili, i testi più inconciliabili con la sua visione del reale. Marcello Craveri, autore di un fortunatissimo libretto sulla figura di Gesù Cristo, ovviamente laicizzata, e umanizzata, il cui titolo è tutto una programma marxista: Un uomo chiamato Gesù. Un uomo, un rivoluzionario contro tutte le ingiustizie, è stato discepolo di Ambrogio Donini, storico delle religioni e militante comunista duro e puro. Costui interpretava il cristianesimo come una mitologia creata da San Paolo e da alcuni altri sulla base del nulla, ovvero di un gigantesco inganno, perché lo stesso Gesù Cristo non è che un mito, ma quale dio e quale resurrezione, sono solo miti e neanche tanto originali, perché di dei che muoiono e risorgono sono piene le religioni antiche. Donini, a sua volta, era stato discepolo di Ernesto Buonaiuti, capofila degli eretici modernisti italiani e fautore dell’applicazione del metodo storico-critico alla storia del cristianesimo: Craveri, pertanto, è nipote legittimo della lettura modernista del Vangelo. Ora, per quanto riguarda Dante, egli assume la stessa impostazione menale di un Umberto Eco: sa già che il cristianesimo è solo un mito; quindi, sa già che l’aldilà non esiste, tanto meno esistono l’inferno e il paradiso, gli angeli e i diavoli: e in questo si trova in ottima compagnia, visto che perfino l’attuale generale dei gesuiti, Sosa Abascal, la pensa così, almeno riguardo al diavolo e all’inferno. E quindi, riportando la descrizione del demonio fatta dal monaco Rodolfo il Glabro, Craveri, che a stento trattiene i suoi sorrisi d’ironia, vuol farci vedere quanto ingenui, superstiziosi e poco dotati di fantasia fossero i monaci medievali: e non immagina che quella descrizione corrisponde fedelmente a quelle fatte da tantissimi santi e mistici della Chiesa cattolica, anche moderni, e perfino da qualche studioso  laico che si è imbattuto nel supernormale. In compenso egli sa, o crede di sapere, che tutta la storia umana è contrassegnata dal prevalere della struttura, l’economia, sulla sovrastruttura, le manifestazioni artistiche, religiose, filosofiche, ecc.; di conseguenza, se Dante, che è un uomo intelligente (questo almeno glielo concede) parla dei diavoli, i diavoli di Dante non possono che essere personificazione simbolica della potenza del male e dell’opposizione alla salvezza dell’uomo. Insomma, non bisogna prenderli sul serio, perché nemmeno Dante lo faceva: e del resto, quello che conta non è il premio o il castigo in una ipoetica vita dopo la morte, ma le masse popolari, avvezze nella precarietà della loro difficile vita più a sofferenze che a gioie, più a spettacoli di ingiustizie e di criminalità che di bene e di pacifica convivenza. Perché gli uomini-massa della modernità, invece, vivono in un mondo paradisiaco, dove le gioie sono assai più numerose delle sofferenze e il bene trionfa sempre sul male: giusto? E dove la pacifica convivenza è pienamente realizzata, o, quanto meno, è infinitamente più progredita che al tempo di Dante, non è vero? Queste amene sciocchezze, Craveri le può dire perché ha studiato la storia del medioevo sui libri di Umberto Eco o magari guardando i documentari di Piero e Alberto Angela, se non proprio sul Manuale delle Giovani marmotte di Walt Disney (il quale peraltro, nel suo genere, è ancora più decoroso di quelli). Ma se si fosse preso il disturbo di leggere anche qualcos’altro, per esempio i libri di Étienne Gilson, forse gli si sarebbe aperta una finestra nella grigia stanza dei suoi pregiudizi illuministi e marxisti; e se, poi, avesse letto i saggi di Régine Pernoud, gli sarebbe perfino spuntato il dubbio che l’uomo medievale fosse animato da una gioia di vivere ben più intensa e spontanea di quella dell’uomo moderno.

Cari progressisti, giù le mani dal padre Dante

di Francesco Lamendola


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