Natura e grazia: il giusto rapporto reciproco. Disciplinare gli istinti?ogni volta che l’uomo si dimentica di essere una creatura che nasce dalla sintesi di natura e grazia va fuori strada e fa del male a se stesso e agli altri
di Francesco Lamendola
L’uomo, in quanto uomo, è figlio della natura, ma è anche figlio della grazia. Se fosse soltanto un prodotto della natura, la sua condizione non sarebbe sostanzialmente diversa da quella di tutte le altre specie viventi. La si potrebbe accostare a quella degli animali più evoluti, dei mammiferi marini, per esempio, come i delfini o le balene: l’unica differenza sarebbe un cervello più sviluppato, capace di operazioni astratte: prodotto, a sua volta, dalle condizioni ambientali più varie e quindi più stimolanti rispetto all’ambiente acquatico, relativamente uniforme. Tutti, però, se non sono oscurati dai pregiudizi, possono vedere che esiste una differenza sostanziale fra l’uomo e l’animale più evoluto: non è solo questione d’intelligenza astratta; è anche questione di libertà degli atti morali.
Non risulta che gli animali siano capaci di fare il male, per la semplice ragione che non risulta siano capaci di fare il bene: se lo fanno, lo fanno all’interno del loro istinto e non con un atto di libera volizione; e cioè perché non possiedono alcuna nozione astratta, quindi neppure la nozione del bene e del male. Nei secoli passati si processava e s’impiccava un maiale che, grufolando per l’aia, aveva trovato un bambino nella culla e lo aveva divorato: ma tale “giustizia” aveva lo scopo di imporre alla natura, dall’esterno e quindi artificialmente, un ordine che essa, di per sé, non possiede, perché l’ordine della natura esiste, ma riguarda le specie e non gli individui, i milioni di anni e non i minuti: in altre parole, è impossibile giudicarlo con gli abituali criteri umani. L’atto del maiale che divora il bambino non è intrinsecamente disordinato, ma ordinato, perché l’animale cerca il cibo di cui ha bisogno; il disordine deriva dal fatto che la madre aveva lasciato incustodito il suo bambino in un luogo dove era esposto a dei pericoli. La disgrazia è stata il risultato di un disordine sia intellettuale (errore di valutazione del pericolo) che morale (insufficiente protezione di un bambino indifeso); l’animale non c’entra nulla. Al contrario, vi è una responsabilità umana: è l’uomo che non ha agito in maniera ordinata, facendo buon uso della sua intelligenza e della sua sensibilità. Se, viceversa, l’uomo fosse soltanto un prodotto della grazia, sarebbe simile a un angelo, con la sola differenza di possedere, per accidente, un corpo terreno. Ma tutti possono vedere e constatare facilmente che l’uomo non è un angelo: anche se esistono degli uomini molto buoni, l’uomo, in quanto tale, non è buono, ma un essere sospeso sull’abisso, fra il male e il bene, ed è capace di orientarsi sia verso l’uno che l’altro, appunto perché è libero. Libertà significa rischio: la libertà è un dono, ma un dono che richiede molta maturità da parte di colui che ne dispone. In breve, si tratta di arrivare a comprendere che la vera libertà non è la facoltà di agire in qualsiasi maniera, secondo il proprio arbitrio, bensì di uniformare i propri pensieri, le proprie parole e le proprie azioni a ciò che è bene in se stesso, e rifiutare ciò che è male. Un delfino, per quanto “intelligente” (o un cane, o un cavallo), non lo può fare: questo, almeno, è quello che si desume dalle osservazioni scientifiche, fatta la tara a ciò che il delfino apprende dall’uomo e che l’uomo gli trasmette, anche in maniera involontaria e indiretta, quando si relaziona con lui.
Ogni volta che la natura dell’uomo vuole avere il sopravvento e pretende di essere lei sola a dirigere i suoi atti e la sua vita – e l’intelligenza è frutto della natura, tanto quanto gli istinti – l’uomo va incontro a dei dolorosi fallimenti.
Ogni volta che l’uomo si dimentica di essere una creatura che nasce dalla sintesi di natura e grazia, va fuori strada e fa del male a se stesso e agli altri. Ogni volta che la natura dell’uomo vuole avere il sopravvento e pretende di essere lei sola a dirigere i suoi atti e la sua vita – e l’intelligenza è frutto della natura, tanto quanto gli istinti – l’uomo va incontro a dei dolorosi fallimenti, ad amarissime disillusioni, senza, peraltro, dar prova di avere imparato qualcosa. Non vi è nulla di più triste, anzi, dello spettacolo della natura umana che, delusa di sé, disgustata, amareggiata, si ripiega su se stessa e rinuncia a determinare attivamente il proprio destino, perché tanto “ogni sforzo, ogni fatica sono vani”. Così gli uomini passano da un eccesso all’altro: prima, si lasciano accecare dalle potenzialità insite nella natura; poi, si lasciano andare a uno scoraggiamento irragionevole e, in gran parte, ingiustificato. Il fatto che la ragione, ad esempio, non sia, di per sé, sufficiente a trarre gli uomini sul solido terreno della verità e, quindi, delle certezze, non implica che la ragione non valga nulla e che sia cosa da buttar via; significa solo che essa deve essere accompagnata, assistita e integrata da un qualcosa – la fede, frutto della grazia - che supplisca alle sue intrinseche debolezze. E il fatto che taluni istinti tendano a sviare gli uomini verso atti non belli, che li inducano a compiere scelte degradanti, le quali li abbrutiscono fino a renderli spregevoli perfino a se stessi, non dimostra che l’istinto, in sé e per sé, sia una cosa totalmente negativa; al contrario, è evidente che vi sono istinti, come quello di conservazione, o quello della riproduzione, che sono preziosi, perché proteggono e propagano la vita, anche superando la resistenza di ragionamenti troppo sofisticati e di timori e preoccupazioni non sempre ragionevoli. È certo, d’altra parte, che gli uomini non devono abbandonarsi interamente ai loro istinti, perché, se lo facessero, abdicherebbero alla loro stessa umanità:umano è disciplinare gli istinti, non lasciarsi trasportare ciecamente da essi. Gli istinti sono completamente amorali: e infatti il bambino piccolo, che vive di istinti, non fa alcuna distinzione fra azioni buone o cattive; o meglio: sono buone, per lui, tutte le azioni che gli portano un vantaggio o gli riescono gradite, cattive quelle di segno contrario.
E' la Grazia? Tutti, se non sono oscurati dai pregiudizi, possono vedere che esiste una differenza sostanziale fra l’uomo e l’animale più evoluto: non è solo questione d’intelligenza astratta; è anche questione di libertà degli atti morali.
C’è un passo della Divina Commedia (in Purg., XXII, 131 sgg.) ove Dante simboleggia in maniera chiarissima questo concetto: che la natura, senza la grazia, non può nulla, non è nulla, e non sarà mai nulla. Durante l’ascesa al monte del Purgatorio, Dante e Virgilio si imbattono in un grande albero dalla caratteristica straordinaria: si accresce verso l’alto e protende addirittura le sue radici verso il cielo. Il significato è evidente: la natura si alimenta dalla grazia, e non viceversa; perciò, tutto ciò che vive, tutti gli esseri creati, devono cercare le loro ”radici” nella grazia e non nella terra, perché è solo dal cielo che essi ricevono l’aiuto soprannaturale per trasformare la loro debolezza in forza, la il male in bene, il peccato in redenzione. La ragione, in particolare, deve esercitare una costante sorveglianza su se stessa, affinché non esca dai binari e non diventi strumento di perdizione: perché non corra che virtù nol guidi (è sempre Dante:Inf., XXVI, 22): perché la ragione illuminata dalla grazia è strumento di pienezza, di verità e quindi anche di salvezza; ma la ragione libera e spregiudicata, nel senso illuminista della parola, si trasforma nel mezzo più sicuro di autodistruzione dell’uomo. Ricordiamo le parole di San Paolo nella Epistola ai Romani, vero e proprio trattato di teologia morale (1, 20-23): Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili [di Dio] possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili Ma torniamo all’albero di Dante; ecco cosa scrivono Mario Zoli e Gilda Sbrilli a questo proposito (in: La Divina Commedia, antologia di canti, Firenze, Bulgarini, 1997, p. 511):
Nella cornice dei golosi c’è un albero straordinario. Ecco come Dante lo descrive nel canto precedente: un alber che trovammo in mezza strada, / con pomi a odorar soavi e buoni; / e come abete in alto si digrada / di ramo in ramo, così quello in giuso, / cred’io, perché persona sù non vada.
Sapremo poi che nella stessa cornice c’è almeno un altro albero dello stesso genere, se non più d’uno,. La sua funzione è quella di dare alle anime, insieme, tormento e ammaestramento:. I pomi profumati attirano i penitenti, che però non li toccano; la loro fame si fa, così, più aspra; vorrebbero dissetarsi bevendo l’acqua freschissima che irrora le fronde degli alberi, per placare l’ardente sete che li tortura, ma non possono farlo e ciò accresce la loro pena. È evidente il tema del contrappasso. Ma quest’albero ha qualcosa di speciale: le sue radici stanno in alto. Come mai? Qual è il significato di questa posizione capovolta?
Come in alcune tradizioni orientali, l’albero è capovolto a significare che la sua vita (radici) è alimentata dal cielo e non dalla terra. Infatti Forese dirà a Dante che dall’alto “cade vertù ne l’acqua e ne la pianta” (v. 62). È interessante richiamare la grande fortuna che ha avuto il simbolo dell’albero, dall’antichità più remota ad oggi, quanto nella letteratura quanto nell’iconografia. Nella sua figura si videro molti significati misteriosi: la pienezza della vita umana che, alimentata e sostenuta dalla terra (le radici), si realizza con la volontà e la forza (il tronco), si innalza verso il cielo, abbondante di frutti (i rami, le foglie, i fiori); l’altare naturale che, collegando terra e cielo è luogo di culto, sacrificio e preghiera; la perpetua rigenerazione che consente alla vita di trionfare sulla morte; la verticalità che richiama la positura dell’uomo e si associa a quella della colonna, e quindi della casa e del tempio; la sua estensione anche in direzione orizzontale, che allude all’abbondanza e alla fecondità dell’agire umano; la figura unitaria che sigilla l’armonia delle virtù dei moti e delle funzioni delle singole parti garantendone la distinzione e , insieme, l’unità.
Dante Alighieri ha simboleggiato in maniera chiarissima il concetto che la natura, senza la grazia, non può nulla, non è nulla, e non sarà mai nulla.
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