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giovedì 29 novembre 2018

Santo chi e dove?

Paolo VI e la riforma liturgica: una schiacciante responsabilità.




Il nome di Paolo VI è legato alla riforma liturgica. A partire dal febbraio 1964, sotto il controllo di Annibale Bugnini, un Consilium per l’attuazione della riforma liturgica si incaricò di applicare la Costituzione conciliare sulla liturgia, Sacrosanctum Concilium, promulgata il 4 dicembre precedente.

Una valanga di decreti modificherà allora la liturgia tradizionale: tra il 1965 e il 1969, si sostituisce il latino, si girano gli altari, si introduce la concelebrazione, vengono composti tre canoni eucaristici, si diffonde la Comunione sulla mano, mentre vengono soppresse le preghiere ai piedi dell’altare, le preghiere leonine, l’offertorio, l’ultimo Vangelo.
Da allora, la Messa di Paolo VI divenne una liturgia in continua riforma.

Infine, una revisione prende atto di queste modifiche e il 3 aprile 1969 viene promulgato il Novus Ordo Missae (NOM): quella che è comunemente chiamata la «Messa di Paolo VI», al suo stadio definitivo e obbligatorio.


Che ruolo ha svolto Paolo VI in questa riforma?

«Papa Paolo VI tutti i giorni dice la Messa di San Pio V nel suo oratorio privato.»
Oggi, l’ingenuità di tale affermazione sembra ovvia, ma non per coloro che la ripetevano negli anni ’70, volendo credere ad un papa manovrato dal segretario del Consilium. Peraltro, come testimonia Mons. Lefebvre, Amleto Cicognani, Segretario di Stato nel febbraio 1969, un giorno ebbe ad esclamare: «Padre Bugnini può entrare nell’ufficio del Santo Padre e fargli firmare tutto quello che vuole!». Segno che il Papa sarebbe stato manipolato?

Io non credo. Al contrario: Paolo VI seguì da vicino i lavori del Consilium: dava i suoi pareri, annotava i progetti, manifestava le sue preferenze. Egli promulgò volentieri tutti i decreti liturgici e davanti ai cardinali riuniti in concistoro, il 24 maggio 1976, nel bel mezzo della «battaglia per la Messa» (Jean Madiran), il Papa interdisse il Messale di San Pio V, a favore esclusivo della nuova liturgia.
La Messa di Paolo VI è proprio la sua.

Due caratteristiche della nuova pratica liturgica

La riflessione del Cardinale Cicognani è molto istruttiva. Egli vede le riforme talmente divergenti dalla lettera e dallo spirito liturgici della Chiesa, da concludere che il Papa non può veramente volerle liberamente. E qui egli condivide l’«ingenuità» dell’opinione popolare che vede il Papa imbronciato per il Novus Ordo. In effetti, bisogna riconoscere oggettivamente che la pratica quotidiana della Messa di Paolo VI ha di che far rimanere stupiti.
Dalla pratica liturgica post-conciliare emergono due costatazioni:

- le differenze tra le diverse celebrazioni, divenute «a piacere»: preti, animatori liturgici e semplici fedeli reinventano la Messa con delle continue modifiche ai testi ed ai riti, al punto che Paolo VI, nell’udienza del 3 settembre 1969, afferma che «Non sarebbe più pluralismo nel campo del lecito, ma difformità, e talvolta non solo rituale, ma sostanziale … reca pregiudizio grave alla Chiesa: per l’ostacolo che oppone alla disciplinata riforma … per il criterio religioso soggettivista, … per la confusione e la debolezza che genera …»

- la sparizione del sacro e l’estinzione dello spirito religioso, vera «secolarizzazione» secondo Jacques Maritain: una tavola spoglia a posto dell’altare, pane ordinario, lettori, animatori, commentatori e accoliti senza abito liturgico, preti che girano nella navata, generale clamore di testimonianze, chiacchiericci, canti profani con le chitarre (talvolta elettriche), tam-tam e batterie, uso delle canzoni alla moda, fedeli seduti o in piedi, raramente in ginocchio, abbracci appena prima della Comunione, distribuita da laici e ricevuta in fretta e furia sulla mano…

Come accordare tutto questo con l’atto più sublime della virtù di religione in cui Gesù Cristo si sacrifica sull’altare come già sulla Croce? Nei decreti firmati da Paolo VI, Amleto Cicognani forse intravedeva questi spettacoli divenuti abituali nelle chiese cattoliche… così che il suo sgomento è comprensibile.

Semplici abusi o conseguenze di una dinamica costitutiva del nuovo rito?

Si dirà: «Si tratta di abusi e di eccessi che non corrispondono all’edizione tipica, la sola promulgata dal Papa». Certo, ne conveniamo, ma bisogna notare che questi abusi e questi eccessi sono diffusi universalmente, come una proprietà del Novus Ordo, come se la «Messa di Paolo VI» si prestasse, per la sua stessa natura, a tali disordini; dal momento che appaiono come appartenenti alla linea stessa della liturgia di Paolo VI, al suo dinamismo.

In effetti, la diversità è un voluto parametro della riforma. Il concilio Vaticano II ha previsto di integrare nella liturgia «le qualità e le doti di animo delle varie razze e dei vari popoli», ed anche le «legittime diversità e i legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli, soprattutto nelle missioni» e questo a partire «dalle tradizioni e dall’indole dei vari popoli» (Sacrosanctum Concilium, nn° 37-40). E il Concilio ha deciso di costituire dei «rituali particolari adattati alle necessità delle singole regioni» (n° 63), e di ripristinare la «“orazione comune” detta anche “dei fedeli”» (n° 53), universale, composta ed inventata per ogni Messa. Il Concilio conferisce anche il potere alle Conferenze episcopali e ai singoli vescovi diocesani di adattare i riti alle culture locali, avviando così il bisogno delle sperimentazioni (nn° 22, 40, 57). Lo stesso Novus Ordo Missae contiene quattro, e poi cinque canoni, aggiunti nel 1975, e lascia ai celebranti la possibilità di scelta per altre preghiere e riti.

Una liturgia desacralizzata

Quanto alla perdita del sacro, è da iscrivere anch’essa nell’Ordo Missae di Paolo VI. Così, la Presenza Reale del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo è stata letteralmente cancellata per mezzo della soppressione di tutti gli atti di adorazione (genuflessioni dei fedeli e del prete… ne restano solo tre in tutto), della scelta facoltativa  della purificazione dei ciborii, dei calici, delle patene e delle dita che hanno toccato il Corpo di Cristo, dell’assenza della doratura dei vasi sacri, della sparizione del piattino per la Comunione, della comunione e dell’azione di grazie in ginocchio, delle prescrizioni per quando cadesse a terra l’Ostia o si versasse il Sangue, del permesso di usare del pane comune e non del pane ázzimo, dell’assenza della benedizione degli ornamenti e delle sacre tovaglie, ecc.
Tutto concorre alla volgarizzazione e alla cancellazione del carattere sacro della liturgia.

Paolo VI voleva la semplificazione dei riti per accrescerne la chiarezza; e per far questo disconobbe completamente il principio liturgico richiamato nel Catechismo del Concilio di Trento (cap. 20, § 9): «nessuna disposizione è inutile e superflua, ma tutte hanno lo scopo di far brillare meglio la maestà di questo grande sacrificio e di portare i fedeli, per mezzo di segni salutari e misteriosi che colpiscono la vista, alla contemplazione delle cose divine velate nel sacrificio».
I risultati lasciano credere che, per lo meno, si sia trattato di un’estrema imprudenza e di una tragica incoerenza.

Bisogna concluderne che gli eccessi e gli abusi sono solo la conseguenza dell’oblio dei princípi liturgici e del dinamismo intrinseco nella moderna pratica della liturgia. Essi hanno il loro fondamento nelle prescrizioni contenute nel Novus Ordo Missae.

Ma c’è di più.

Attacco al cuore della Messa

L’esame del rito di Paolo VI dimostra anche che l’essenza della Messa è stata gravemente violata.
Innanzi tutto, l’Institutio Generalis (introduzione al nuovo Messale), nella sua prima versione, definisce la Messa come «La cena del Signore, altrimenti detta messa, è una sacra riunione e cioè l’assemblea del popolo di Dio che si riunisce, sotto la presidenza del sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore
Una tale definizione comporta:
Una doppia omissione: 1) l’identità fra la Croce e la Messa, che riattualizza la morte di Cristo in maniera incruenta; 2) la natura sacrificale della Messa, realizzata con la separazione sacramentale del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo nelle due consacrazioni pronunciate dal celebrante. Il Concilio di Trento dice che la Messa è «veramente e propriamente» sacrificio, che applica i meriti della Croce per quattro scopi, fra cui in modo particolare la gloria di Dio e la cancellazione dei peccati degli uomini (propiziazione). In tal modo, la Messa rende manifesto che la morte di Cristo è l’unico sacrificio che salva gli uomini. Queste due omissioni sono gravi.

Una doppia affermazione: la Messa è 1) una cena e 2) un memoriale, il che è in contraddizione con la nozione di sacrificio sacramentale. Prima, perché un memoriale presuppone l’assenza reale della persona di cui si fa memoria, mentre invece il sacramento è il segno efficace e produttore di una persona o di una cosa realmente presente e attiva. Poi, perché la Messa non è una cena:  anche la stessa Comunione, con la quale si consumano il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, ha solo una lontana somiglianza con una cena, poiché la Comunione è il compimento del sacrificio per mezzo della distruzione della vittima compiuta con la manducazione. Se la liturgia parla di sacro banchetto, non è per ridurre la Messa ad una semplice cena.

Questa definizione errata dell’Institutio Generalis è estremamente grave.
Con le sue omissioni e le sue contraddizioni, la nuova Messa rende incomprensibile ciò che fa il celebrante all’altare. Da qui tutte le insensatezze sono possibili.

Una falsa definizione incarnata nel Novus Ordo

Questa falsa definizione della Messa la si verifica nei riti del Novus Ordo Missae.
Infatti, in essi è sparita ogni precisa allusione al sacrificio: a cominciare dalla sparizione della prima parte essenziale per il sacrificio: l’Offertorio, che mette la Vittima a disposizione di Dio prima che sia sacrificata. Il nuovo rito ha sostituito l’Offertorio con delle semplici lodi a Dio per i Suoi benefici, utilizzando delle formule di benedizione in uso nella sinagoga. Questa sparizione pone un sicuro problema teologico.

Lo stesso dicasi per altre parti del rito in cui sono sparite le tantissime espressioni del sacrificio: il crocifisso d’altare, i segni di croce, le parole “ostia”, “vittima”, “sangue versato”, ecc. E’ in forza di questo occultamento del carattere sacrificale della Messa che frate Thurian di Taizé (la comunità protestante con sede a Bougogne) ha potuto dire che ormai più niente impedisce a cattolici e protestanti di poter celebrare insieme (La Croix del 30 maggio1969).
Il Novus Ordo Missae favorisce così l’ecumenismo, che ne è una dimensione essenziale (1).

Da questo si comprende la conclusione a cui arrivarono i Cardinali Ottaviani e Bacci nel 1969, presentando il Breve esame critico del Novus Ordo Missae: «… il Novu Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino».

La liturgia romana era stata riformata da Pio V per esporre i dogmi definiti a Trento; Concilio e Messa erano intrinsecamente connessi dal principio Lex orandi lex credenti: La regola della fede norma la regola della preghiera. Attentare al rito della Messa romana antica non può che corrompere la fede della Chiesa…

Al principio della riforma liturgica del Vaticano II

Rimane da sapere perché fu intrapresa una tale riforma. La risposta è data dal concilio Vaticano II, citato dalla Costituzione Missale Romanum che istituisce la nuova Messa: «A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della liturgia» (Sacrosanctum Concilium n° 14). Da qui la lingua vernacolare, capita da tutti, i riti semplificati che esprimano più chiaramente «le sante realtà che essi significano», la moltiplicazione delle letture dalla Bibbia (SC n° 21), ecc. Questa riforma è stata intrapresa in nome della «partecipazione attiva dei fedeli». Che significa questa espressione?

Non si tratta solo della moltiplicazione dei canti e delle preghiere dei fedeli, si tratta piuttosto di un’attività propria dei fedeli: «i fedeli costituiscono il Popolo Santo (…) per rendere grazie a Dio e per offrire la vittima senza macchia» (Institutio Generalis n° 62), tale che i celebrante viene ridotto ad essere il presidente dell’assemblea. Siamo qui di fronte ad una completa inversione: non sono i fedeli che si uniscono al sacrificio sacerdotale, ma è il celebrante che presenta a Dio il culto offerto dai battezzati (SC n° 48). A questo proposito il Concilio parla di «sacerdozio comune» dei fedeli che «partecipa dell’unico sacerdozio di Cristo» (Costituzione Lumen gentium, n° 109.  

La liturgia di Paolo VI si adatta alla teologia del Concilio, che concepisce il culto come derivante dal cuore dei fedeli, in cui la gerarchia esercita solo una forma di controllo, vegliando all’organizzazione del culto e adattandosi alle culture dei credenti e alle iniziative lasciate ai laici che «vivono la loro fede».
Questa è la ragione teologica del capovolgimento liturgico.

Paolo VI ha fatto sua questa teologia fin dalla sua vocazione, nel 1913 presso i benedettini di Chiari. Dal 1931 al 1932, egli semplificò la liturgia della Settimana Santa per favorire la «partecipazione attiva» degli studenti della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana). Egli aderì al movimento liturgico di Dom Beauduin e prese come confessore e maestro il Padre Giulio Bevilacqua (1881-1965), uno dei suoi simpatizzanti, che prima della sua morte nominerà al Concilium e che fu uno dei principali artefici delle riforme.
Al momento del Concilio, l’11 novembre 1962, il futuro papa Paolo VI intervenne solo per approvare lo schema sulla liturgia…

Constatando, a partire dal 1966, lo spaventoso caos liturgico in cui piombò la Chiesa, non si può evitare di chiamare in causa i princípi che ne furono la causa.
Paolo VI, come ha potuto farlo? E’ che si trattava dei princípi suoi proprii, quelli del «culto dell’uomo» e dell’«umanesimo integrale» (2), che coincidono con i princípi della nuova liturgia.


Bibliografia:

Le Rôle de G. B. Montini-Paul VI dans la réforme liturgique, Instituto Paolo VI, Brescia-Rome, 1987, XI-86 pages.

La messe en question. Autour du problème de la réforme liturgique, Actes du Ve congrès théologique de Si si No no, Paris, 2002, 505 pages (sur les principaux problèmes du NOM).

Fraternité Sacerdotale Saint-Pie X, Le problème de la réforme liturgique. La messe de Vatican II et de Paul VI, s. l., 2001, 125 pages (sur la théologie nouvelle de la messe).

Cardinaux Ottaviani et Bacci, Bref examen critique de la Nouvelle Messe (première analyse donnant le détail des modifications des rites ; multiples éditions depuis 1971).

Yves Chiron, Paul VI, Paris, 2008, 325 pages (pour les notations historiques).

Philippe Chenaux, Paul VI, le souverain éclaté, Paris, 2015, 346 pages (rédigé en vue de la canonisation).

NOTE

1 - Cf. Grégoire Celier, La dimension œcuménique de la réforme liturgique, Fideliter, 1987.
2 - Paul VI, discours de clôture du Concile, 8 décembre 1965 ; Lettre encyclique Populorum progressio, 1967.

di Don Nicolas Portail, FSSPX

Pubblicato su FSSPX News



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