ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 15 gennaio 2019

L'infausto centenario

Caro Paolo VI: la messa nuova fu davvero scelta infausta… tradimento.



Ringraziamo il sito – Tradidi quod et accepi – vedi qui, per aver pubblicato una Lettera che è di fondamentale importanza per noi, molto famosa per la verità, e che dovremo riscoprire in questo infausto centenario, quando nel 1969 veniva imposta alla Chiesa intera una Messa di stampo protestante… E ringraziamo per il commento che ne segue e che facciamo completamente nostro….  Per una buona Catechesi del tema affrontato con una attenta lettura sulla situazione attuale, consigliamo di ascoltare questo video.
Buona meditazione.
Il 3 aprile 1969, con la costituzione apostolica “Missale Romanum” di Paolo VI, veniva promulgato il Novus Ordo Missae, il nuovo Messale Romano, alla cui composizione collaborarono più o meno attivamente sei pastori riformati (eretici protestanti). Immediatamente dopo, un gruppo di dodici teologi cattolici approntò un saggio critico: il Bref examen critique du Nouvel Ordo Missae, poi tradotto in italiano dalla scrittrice Cristina Campo. Il testo fu sottoposto al Cardinale Alfredo Ottaviani, già Segretario del Sant’Offizio, che assieme al Cardinale Antonio Bacci, illustre latinista, lo presenterà al Papa il 25 settembre 1969. Il documento, che richiedeva il ritiro del nuovo rito perché discordante coi decreti dommatici del Concilio Tridentino, fu ahinoi respinto.

Lettera di presentazione a Paolo VI
Beatissimo Padre,
esaminato e fatto esaminare il Novus Ordo preparato dagli esperti delConsilium ad exquendam Constitutionem de Sacra Liturgia, dopo una lunga riflessione e preghiera sentiamo il dovere, dinanzi a Dio ed alla Santità Vostra, di esprimere le considerazioni seguenti:
1) Come dimostra sufficientemente il pur breve esame critico allegato – opera di uno scelto gruppo di teologi, liturgisti e pastori d’anime – il Novus Ordo Missæ, considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero.
2) La ragioni pastorali addotte a sostegno di tale gravissima frattura – anche se di fronte alle ragioni dottrinali avessero diritto di sussistere – non appaiono sufficienti. Quanto di nuovo appare nel Novus Ordo Missæ e, per contro, quanto di perenne vi trova soltanto un posto minore o diverso, se pure ancora ve lo trova, potrebbe dar forza di certezza al dubbio – già serpeggiante purtroppo in numerosi ambienti – che verità sempre credute dal popolo cristiano possano mutarsi o tacersi senza infedeltà al sacro deposito dottrinale cui la fede cattolica è vincolata in eterno. Le recenti riforme hanno dimostrato a sufficienza che nuovi mutamenti nella liturgia non porterebbero se non al totale disorientamento dei fedeli che già danno segni di insofferenza e di inequivocabile diminuzione di fede. Nella parte migliore del Clero ciò si concreta in una torturante crisi di coscienza di cui abbiamo innumerevoli e quotidiane testimonianze.
3) Siamo certi che questa considerazioni, che possono giungere soltanto dalla viva voce dei pastori e del gregge, non potranno non trovare un’eco nel cuore paterno di Vostra Santità, sempre così profondamente sollecito dei bisogni spirituali dei figli della Chiesa. Sempre i sudditi, al cui bene è intesa una legge, laddove questa si dimostri viceversa nociva, hanno avuto, più che il diritto, il dovere di chiedere con filiale fiducia al legislatore l’abrogazione della legge stessa.
Supplichiamo perciò istantemente la Santità Vostra di non volerci togliere – in un momento di così dolorose lacerazioni e di sempre maggiori pericoli per la purezza della Fede e l’unità della Chiesa, che trovano eco quotidiana e dolente nella voce del Padre comune – la possibilità di continuare a ricorrere alla integrità feconda di quel Missale Romanum di San Pio V dalla Santità Vostra così altamente lodato e dall’intero mondo cattolico cosí profondamente venerato ed amato.
  1. Card. Ottaviani
  2. Card. Bacci


Breve esame critico del Novus Ordo Missae
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Paolo VI celebra la prima messa in italiano il 7 marzo 1965 nella parrocchia romana di Ognissanti. Si noti la sostituzione dell’altare cattolico, contro cui è posta la sede, con il tavolo rivolto all’assemblea e posto oltre le balaustre del presbiterio.
I –  Nell’ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a Roma, fu chiesto un giudizio sulla celebrazione sperimentale di una cosiddetta «messa normativa», ideata dal Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.  Tale messa suscitò le più gravi perplessità tra i presenti al Sinodo, con una forte opposizione (43 non placet), moltissime e sostanziali riserve (62juxta modum) e 4 astensioni, su 187 votanti. La stampa internazionale di informazione parlò di «rifiuto», da parte del Sinodo, della messa proposta. Quella di tendenze innovatrici ne tacque. E un noto periodico, destinato ai Vescovi ed espressione del loro insegnamento, così sintetizzò il nuovo rito: «[vi] si vuol fare tabula rasa di tutta la teologia della Messa. In sostanza ci si avvicina alla teologia protestante che ha distrutto il sacrificio della Messa». Nel Novus Ordo Missæ, testé promulgato dalla Costituzione Apostolica Missale romanum, ritroviamo purtroppo, identica nella sua sostanza, la stessa «messa normativa». Né sembra che le Conferenze Episcopali, almeno in quanto tali, siano mai state nel frattempo interpellate al riguardo. Nella Costituzione Apostolica si afferma che l’antico messale, promulgato da S. Pio V il 19 luglio 1570 ma risalente in gran parte a Gregorio Magno e ad ancor più remota antichità[1] fu per quattro secoli la norma della celebrazione del Sacrificio per i sacerdoti di rito latino, e, portato in ogni terra, «innumeri præterea sanctissimi viri animorum suorum erga Deum pietatem, haustis ex eo… copiosus aluerunt». E tuttavia questa riforma, che lo pone definitivamente fuori uso, si sarebbe resa necessaria «ex quo tempore latius in christiana plebe increbescere et invalescere cœpit sacræ fovendæ liturgiæ studium».  Ci sembra evidente, in questa affermazione, un grave equivoco. Perché il desiderio del popolo, se fu espresso, lo fu quando – soprattutto per merito del grande S. Pio X – esso cominciò a scoprire gli autentici ed eterni tesori della sua liturgia. Il popolo non chiese assolutamente mai, onde meglio comprenderla, una liturgia mutata o mutilata. Chiese di meglio comprendere una liturgia immutabile e che mai avrebbe voluto si mutasse. Il Messale Romano di San Pio V era religiosamente venerato e carissimo al cuore dei cattolici, sacerdoti e laici. Non si vede in che cosa l’uso di esso, con l’opportuna catechesi, potesse impedire una più piena partecipazione e una maggiore conoscenza della sacra liturgia e perché, con tanti eccelsi pregi che gli sono riconosciuti, non lo si sia stimato degno di continuare a nutrire la pietà liturgica del popolo cristiano. Sostanzialmente rifiutata dal Sinodo Episcopale, quella stessa «messa normativa» oggi si ripresenta e si impone come Novus Ordo Missæ; il quale non è stato mai sottoposto al giudizio collegiale delle Conferenze; né è stata mai voluta dal popolo (e men che meno nelle missioni) una qualsiasi riforma della Santa Messa. Non si riesce dunque a comprendere i motivi della nuova legislazione, che sovverte una tradizione immutata nella Chiesa dal IV-V secolo, come la stessa Costituzione Missale Romanum riconosce. Non sussistendo dunque i motivi per appoggiare questa riforma, la riforma stessa appare priva di un fondamento razionale, che, giustificandola, la renda accettabile al popolo cattolico. Il Concilio aveva espresso bensì, con il par. 50 della CostituzioneSacrosanctum Concilium, il desiderio che le varie parti della Messa fossero riordinate, «ut singularum partium propria ratio necnon mutua connexio clarius pateant». Vedremo subito come l’Ordo testé promulgato risponda a questi auspici, dei quali possiamo dire non resti, nel risultato, neppure la memoria. Un esame particolareggiato del Novus Ordo rivela mutamenti di portata tale da giustificare per esso lo stesso giudizio dato per la «messa normativa». Quello, come questa, è tale da contentare, in molti punti, i protestanti più modernisti. 
II –  Cominciamo dalla definizione di Messa che si presenta al par. 7, vale a dire in apertura al secondo capitolo del Novus Ordo: «De structura Missæ».
«Cena dominica sive Missa est sacra synaxis seu congregatio populi Dei in unum convenientis, sacerdote præside, ad memoriale Domini celebrandum[2]Quare de sanctæ Ecclesiæ locali congregatione eminenter valet promissio Christi “Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum” (Mt. 18, 20)».
La definizione di Messa è dunque limitata a quella di «cena», il che è poi continuamente ripetuto (n. 8, 48, 55d, 56); tale «cena» è inoltre caratterizzata dalla assemblea, presieduta dal sacerdote, e dal compiersi il memoriale del Signore, ricordando quel che Egli fece il Giovedì Santo.  Tutto ciò non implica: né la Presenza Reale, né la realtà del Sacrificio, né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né il valore intrinseco del Sacrificio eucaristico indipendentemente dalla presenza dell’assemblea[3]. Non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici essenziali della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera definizione. Qui l’omissione volontaria equivale al loro «superamento», quindi, almeno in pratica, alla loro negazione[4]. Nella seconda parte dello stesso paragrafo si afferma – aggravando il già gravissimo equivoco – che vale «eminenter» per questa assemblea la promessa del Cristo: «Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum» (Mt. 18, 20). Tale promessa, che riguarda soltanto la presenza spirituale del Cristo con la sua grazia, viene posta sullo stesso piano qualitativo, salvo la maggiore intensità, di quello sostanziale e fisico della presenza sacramentale eucaristica.
Segue immediatamente (n. 8) una suddivisione della Messa in liturgia della parola e liturgia eucaristica, con l’affermazione che nella Messa è preparata la mensa della parola di Dio come del Corpo di Cristo, affinché i fedeli «instituantur et reficiantur»: assimilazione paritetica del tutto illegittima delle due parti della liturgia, quasi tra due segni di eguale valore simbolico, sulla quale torneremo più tardi. Di denominazioni della Messa ve ne sono innumerevoli: tutte accettabili relativamente, tutte da respingere se usate, come lo sono, separatamente e in assoluto. Ne citiamo alcune: Actio Christi et populi Dei, Cena dominica sive Missa, Convivium Paschale, Communis participatio mensæ Domini, Memoriale Domini, Precatio Eucharistica, Liturgia verbi et liturgia eucharistica, ecc.  Come è fin troppo evidente, l’accento è posto ossessivamente sulla cena e sul memoriale anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario. Anche la formula «Memoriale Passionis et Resurrectionis Domini»  è inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo Sacrificio, che è redentivo in sé stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto conseguente[5]. Vedremo più avanti con quale coerenza, nella stessa formula consacratoria e in generale in tutto il Novus Ordo, tali equivoci siano rinnovati e ribaditi.
III –  E veniamo alle finalità della Messa.
1) Finalità ultima.
È il sacrificio di lode alla Santissima Trinità, secondo l’esplicita dichiarazione di Cristo nella intenzione primordiale della sua stessa Incarnazione: «Ingrediens mundum dicit: “Hostiam et oblationem noluisti: corpus autem aptasti mihi”» (Ps. XL, 7-9, in: Hebr. 10, 5).
Questa finalità è scomparsa:
– dall’Offertorio, con la preghiera Suscipe, Sancta Trinitas;
– dalla conclusione della Messa con il Placeat tibi, Sancta Trinitas;
– e dal Prefazio, che nel ciclo domenicale non sarà più quello della Santissima Trinità, riservato ora alla sola festa e che quindi sarà pronunziato una sola volta l’anno.
2) Finalità ordinaria.
È il Sacrificio propiziatorio. Anch’essa è deviata, perché anziché mettere l’accento sulla remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si mette sulla nutrizione e santificazione dei presenti (n. 54). Certo Cristo istituì il Sacramento nell’ultima Cena e si pose in stato di vittima per unirci al suo stato vittimale; questo però precede la manducazione e ha un antecedente e pieno valore redentivo, applicativo della immolazione cruenta, tanto è vero che il popolo assistendo alla Messa non è tenuto a comunicarsi sacramentalmente[6].
3) Finalità immanente.
Qualunque sia la natura del sacrificio è essenziale che sia gradito a Dio e da lui accettabile ed accettato. Nello stato di peccato originale nessun sacrificio avrebbe diritto di essere accettabile. Il solo sacrificio che ha diritto di essere accettato è quello di Cristo. Nel Novus Ordo si snatura l’offerta in una specie di scambio di doni tra l’uomo e Dio; l’uomo porta il pane e Dio lo cambia in «pane di vita»; l’uomo porta il vino e Dio lo cambia in «bevanda spirituale»: «Benedictus es, Domine, Deus universi, quia de tua largitate accepimus panem (o: vinumquem tibi offerimus, fructum terræ (o: vitiset manuum hominum, ex quo nobis fiet panis vitæ (o: potus spiritualis[7]. Superfluo notare l’assoluta indeterminatezza delle due formule «panis vitæ» e «potus spiritualis», che possono significare qualunque cosa. Ritroviamo qui l’identico e capitale equivoco della definizione della Messa: là il Cristo presente solo spiritualmente tra i suoi; qui pane e vino «spiritualmente» (e non sostanzialmente) mutati[8].
Nella preparazione dell’offerta, un consimile gioco di equivoci è attuato con la soppressione delle due stupende preghiere. Il «Deus, qui humanæ substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti et mirabilius reformasti», era un richiamo all’antica condizione di innocenza dell’uomo e alla sua attuale condizione di riscattato dal sangue di Cristo: ricapitolazione discreta e rapida di tutta l’economia del Sacrificio, da Adamo all’attimo presente. La finale offerta propiziatoria del calice, affinché ascendesse «cum odore suavitatis» al cospetto della maestà divina, di cui si implorava la clemenza, ribadiva mirabilmente questa economia. Sopprimendo il continuo riferimento a Dio della prece eucaristica, non vi è più distinzione alcuna tra sacrificio divino e umano. Eliminando la chiave di volta bisogna costruire delle impalcature; sopprimendo le finalità reali se ne devono inventare di fittizie. Ed ecco i gesti che dovrebbero sottolineare l’unione tra sacerdote e fedeli, tra fedeli e fedeli; ecco la sovrapposizione, che immediatamente crollerà nel ridicolo, delle offerte per i poveri e per la chiesa all’offerta dell’Ostia da immolare. L’unicità primordiale di questa verrà del tutto obliterata: la partecipazione all’immolazione della Vittima diverrà una riunione di filantropi e un banchetto di beneficenza.
IV –  Passiamo all’essenza del Sacrificio.
Il mistero della Croce non vi è più espresso esplicitamente, ma in modo oscuro, velato, impercepibile dal popolo[9]. Eccone le ragioni:
1) Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta «Prex eucharistica» è: «ut tota congregatio fidelium se cum Christo coniungat in confessione magnalium Dei et in oblatione sacrificii». (n. 54, fine).  Di quale sacrificio si tratta? Chi è l’offerente? Nessuna risposta a questi interrogativi.  La definizione in limine della «Prex eucharistica» è questa: «Nunc centrum et culmen totius celebrationis initium habet, ipsa nempe Prex eucharistica, prex scilicet gratiarum actionis et sanctificationis» (n. 54, pr.).  Gli effetti sono dunque sostituiti alle cause, di cui non si dice una sola parola. La menzione esplicita del fine dell’offerta, che era nel Suscipe, non è sostituita da nulla. Il mutamento di formulazione rivela il mutamento di dottrina.
2) La causa di questa non-esplicitazione del Sacrificio è, né più né meno, la soppressione del ruolo centrale della Presenza Reale, così lampante prima nella liturgia eucaristica. Ve ne è una sola menzione – unica citazione, in nota, dal Concilio di Trento – ed è quella che si riferisce alla Presenza Reale come nutrimento (n. 241, nota 63). Alla Presenza Reale e permanente di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità nelle Specie transustanziate non si allude mai. La stessa parola transustanziazione è totalmente ignorata.  La soppressione della invocazione alla terza Persona della SS.ma Trinità (Veni sanctificator), onde scendesse sopra le oblate come già discese nel grembo della Vergine a compiervi il miracolo della Divina Presenza, si inserisce in questo sistema di tacite negazioni, di degradazioni a catena della Presenza Reale.
L’eliminazione poi: 
– delle genuflessioni (non ne restano che tre del sacerdote e una, con eccezioni, del popolo, alla Consacrazione); 
– della purificazione delle dita del sacerdote nel calice; 
– della preservazione delle stesse dita da ogni contatto profano dopo la Consacrazione; 
– della purificazione dei vasi, che può essere non immediata, e non fatta sul corporale; 
– della palla a protezione del calice; 
– della doratura interna dei vasi sacri;
– della consacrazione dell’altare mobile; 
– della pietra sacra e delle reliquie nell’altare mobile e sulla «mensa», quando la celebrazione non avvenga in  luogo sacro (la distinzione ci porta diritti alle «cene eucaristiche» in case private); 
– delle tre tovaglie d’altare, ridotte a una sola; 
– del ringraziamento in ginocchio (sostituito da un grottesco ringraziamento di preti e fedeli seduti, in cui la  Comunione in piedi ha il suo aberrante compimento); 
– di tutte le antiche prescrizioni nel caso di caduta dell’Ostia consacrata, ridotte a un quasi sarcastico  «reverenter accipiatur» (n. 239);
tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l’implicito ripudio della fede nel dogma della Presenza Reale.
3) La funzione assegnata all’altare (n. 262).
L’altare è quasi costantemente chiamato mensa[10]. «Altare, seu mensa dominica, quæ centrum est totius liturgiæ eucharisticæ» n. 49, (cfr. 262). Si specifica che l’altare deve essere staccato dalle pareti perché vi si possa girare intorno e la celebrazione possa farsi verso il popolo (n. 262); si precisa che esso deve essere il centro della congregazione dei fedeli così che l’attenzione si volga spontaneamente ad esso (ibid.).  Ma il confronto fra i nn. 262 e 276 sembra escludere nettamente che il SS.mo Sacramento possa essere conservato su questo altare. Ciò segnerà una dicotomia irreparabile tra la presenza, nel celebrante, del Sommo ed Eterno Sacerdote e quella stessa Presenza realizzata sacramentalmente. Prima esse erano un’unica presenza[11].  Ora si raccomanda di conservare il SS.mo in un luogo appartato, ove possa esplicarsi la devozione privata dei fedeli, quasi si trattasse di una qualsiasi reliquia, sicché entrando in chiesa non sarà più il Tabernacolo ad attirare immediatamente gli sguardi ma una mensa spoglia e nuda. Si oppone ancora una volta pietà privata a pietà liturgica, si drizza altare contro altare.  Nella raccomandazione insistente di distribuire nella comunione le Specie Consacrate nella stessa Messa, anzi di consacrare un pane di grandi dimensioni[12], così che il sacerdote possa dividerlo con una parte almeno dei fedeli, è ribadito lo sprezzante atteggiamento verso il Tabernacolo come verso tutta la pietà eucaristica fuori della Messa: altro strappo violento alla fede nella Presenza Reale sinché durino le Specie consacrate[13].
4) Le formule consacratorie.
L’antica formula della Consacrazione era una formula propriamente sacramentale, e non narrativa, indicata soprattutto da tre cose:
  1. a) il testo della Scrittura, non ripreso alla lettera; l’inserto paolino «mysterium fidei» era una confessione immediata di fede del sacerdote nel mistero realizzato dalla Chiesa per mezzo del suo sacerdozio gerarchico;
  2. b) la punteggiatura e il carattere tipografico; vale a dire il punto fermo e daccapo, che segnava il passaggio dal modo narrativo al modo sacramentale e affermativo, e le parole sacramentali in carattere piú grande, al centro della pagina e spesso di diverso colore, nettamente staccate dal contesto storico. Il tutto dava sapientemente alla formula un valore proprio, un valore autonomo;
  3. c) l’anamnesi («Haec quotiescumque feceritis in mei memoriam facietis», che in greco suona: «eis ten emou anamnesin» – «volti alla mia memoria»). Essa si riferiva al Cristo operante e non alla semplice memoria di lui o dell’evento: un invito a ricordare ciò che Egli fece («hæc … in mei memoriam facietis») e come Egli lo fece, e non soltanto la sua persona o la cena.
La formula paolina oggi sostituita all’antica («Hoc facite in meam commemorationem») – proclamata come sarà quotidianamente nelle lingue volgari – sposterà irrimediabilmente, nella mente degli ascoltatori, l’accento sulla memoria del Cristo come termine dell’azione eucaristica, mentre essa ne è il principio. L’idea finale di commemorazione prenderà ben presto il posto dell’idea di azione sacramentale[14].  Il modo narrativo è ora sottolineato dalla formula: «narratio institutionis» (n. 55d), e ribadito dalla definizione della anamnesi, dove si dice che «Ecclesia memoriam ipsius Christi agit» (n. 55c). In breve: la teoria proposta per l’epiclesi, la modificazione delle parole della Consacrazione e dell’anamnesi, hanno come effetto di modificare il modus significandi delle parole della Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal sacerdote come costituenti una narrazione storica e non piú enunciate come esprimenti un giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona egli agisce: «Hoc est Corpus meum» (e non: «Hoc est Corpus Christi»)[15]. L’acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: («Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc .… donec venias») introduce, travestita di escatologismo, l’ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l’attesa della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull’altare: quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta. Ciò è ancor più accentuato nella formula di acclamazione facoltativa n. 2 (Appendix): «Quotiescumque manducamus panem hunc, et calicem bibimus, mortem tuam annuntiamus, Domine, donec venias»; dove le diverse realtà di immolazione e manducazione, e quelle di Presenza Reale e secondo avvento del Cristo, raggiungono il massimo di ambiguità[16].
V –  Veniamo ora alla realizzazione del Sacrificio.
I quattro elementi di esso erano, nell’ordine:
1) il Cristo.
2) il sacerdote;
3) la Chiesa;
4) i fedeli.
  1. Nel Novus Ordo, la posizione attribuita ai fedeli è autonoma (ab-soluta), quindi totalmente falsa: dalla definizione iniziale: «Missa est sacra synaxis seu congregatio populi», al saluto del sacerdote al popolo, che esprimerebbe alla comunità riunita la «presenza» del Signore (n. 28): «Qua salutatione et populi responsione manifestatur ecclesiæ congregatæ mysterium». Dunque vera presenza di Cristo, ma solo spirituale, e mistero della Chiesa, ma come pura assemblea che manifesta e sollecita tale presenza. Ciò si ripete ovunque:
– il carattere comunitario della Messa ossessivamente ribadito (nn. 74-152);
– l’inaudita distinzione tra «Missa cum populo» e «Missa sine populo» (nn. 203-231);
– la definizione della «oratio universalis seu fidelium» (n. 45), ove si sottolinea ancora una volta l’«ufficio sacerdotale» del popolo («populus sui sacerdotii munus exercens») presentato in modo equivoco perché ne viene taciuta la subordinazione a quello del sacerdote; tanto più che questi si fa interprete, nella sua qualità di mediatore consacrato, di tutte le intenzioni del popolo nelTe igitur e nei  due Memento.
Nella «Prex eucharistica III» («Vere sanctus», p. 123) è addirittura detto al Signore: «populum tibi congregare non desinis, ut a solis ortu usque ad occasum oblatio munda offeratur nomini tuo»: ove l’affinché fa pensare che l’elemento indispensabile alla celebrazione sia il popolo anziché il sacerdote; e poiché non è precisato neppure qui chi sia l’offerente[17] il popolo stesso appare investito di poteri sacerdotali autonomi. Di questo passo non stupirebbe l’autorizzazione al popolo, tra qualche tempo, di congiungersi al sacerdote nella pronuncia delle formule consacratorie (ciò che del resto sembra già accada, qua e là).
  1. La posizione del sacerdote è minimizzata, alterata, falsata.
Prima in funzione del popolo di cui egli è caratterizzato per lo più come mero presidente o fratello anziché come ministro consacrato che celebra in persona Christi.  Poi in funzione della Chiesa come un «quidam de populo». Nella definizione della epiclesi (n. 55c) le invocazioni sono attribuite anonimamente alla Chiesa: il ruolo del sacerdote è dissolto.  Nel Confiteor divenuto collettivo egli non è più giudice, testimone e intercessore presso Dio; è logico dunque che non gli sia più dato di impartire l’assoluzione, che è stata infatti soppressa. Egli è «integrato» ai fratres. Persino il chierichetto lo chiama così nel Confiteor della «Missa sine populo». Già prima di quest’ultima riforma era stata soppressa la significativa distinzione tra la Comunione del sacerdote – il momento in cui, per cosí dire, il Sommo ed Eterno Sacerdote e colui che agiva in sua persona si fondevano in intimissima unione (nella quale era il compimento del Sacrificio) – e quella dei fedeli.  Non più una parola ormai sul suo potere di sacrificatore, sul suo atto consacratorio, sulla realizzazione per suo mezzo della Presenza eucaristica. Egli appare nulla piú che un ministro protestante.  La sparizione o l’uso facoltativo di molti paramenti (in certi casi alba e stola bastano – n. 298) vanificano ancor più l’originale conformazione al Cristo: il sacerdote non è più rivestito di tutte le virtú di Lui; egli è un semplice «graduato» che uno o due segni distinguono appena dalla massa[18]: («un po’ più uomo degli altri» per citare la formula involontariamente umoristica di un moderno predicatore[19]).  Di nuovo, come nella opposizione degli altari, si separa ciò che Dio ha unito: l’unico Sacerdozio del Verbo di Dio.
  1. Infine la posizione della Chiesa di fronte al Cristo.
In un solo caso, quello della «Missa sine populo» ci si degna di ammettere che la Messa è «Actio Christi et Ecclesiæ» (n. 4, cfr. Presb. Ord. n. 13), mentre nel caso della «Missa cum populo» non si accenna che allo scopo di «far memoria di Cristo» e santificare i presenti. «Presbyter celebrans … populum … sibi sociat in offerendo sacrificio per Christum in Spiritu Sancto Deo Patri» (n. 60), anziché associare il popolo a Cristo che offre sé stesso «per Spiritum Sanctum Deo Patri».
S’inseriscono in questo contesto:
– la gravissima omissione delle clausole «Per Christum Dominum nostrum», garanzia di esaudimento data alla Chiesa di tutti i tempi (Io. 14, 13-14,. 15, 16; 16, 23-24);
– l’ossessivo «paschalismo»: quasi che la comunicazione della grazia non presentasse altri aspetti altrettanto importanti;
– l’escatologismo dubbio e maniaco, in cui la comunicazione di una realtà, la grazia, che è permanente ed eterna, è ricondotta alla dimensione del tempo: popolo in marcia, chiesa peregrinante – non più militante, si badi, contro laPotestas tenebrarum – verso un futuro che non è più vincolato all’eterno (quindi anche all’eterno presente) ma a un vero e proprio avvenire temporale.
 La Chiesa – Una, Santa, Cattolica, Apostolica – è umiliata come tale nella formula che, nella «Prex eucharistica IV», ha sostituito la preghiera del Canone romano «pro omnibus orthodoxis atque catholicæ et apostolicæ fidei cultoribus». Ora essi sono, né più né meno: «omnium qui te quærunt corde sincero». Così, nel Memento dei morti, questi non sono più trapassati «cum signo fidei et dormiunt in somno pacis» ma semplicemente «obierunt in pace Christi tui»; ad essi si aggiunge, con nuovo e patente scapito del concetto di unitarietà e visibilità, la turba di «omnium defunctorum quorum fidem tu solus cognovisti».  In nessuna delle tre nuove preci, poi, vi è il minimo cenno, come già si è detto, allo stato di sofferenza dei trapassati, in nessuna la possibilità di un Memento particolare: il che, ancora una volta, snerva la fede nella natura propiziatoria e redentiva del Sacrificio[20].
Omissioni dissacranti avviliscono ovunque il Mistero della Chiesa.
– Esso è misconosciuto innanzi tutto come gerarchia sacra: Angeli e Santi sono ridotti all’anonimato nella seconda parte del Confiteor collettivo: sono scomparsi come testimoni e giudici, nella persona di Michele, dalla prima[21].
– Scomparse anche le varie Gerarchie Angeliche (e ciò è senza precedenti) dal nuovo Prefazio della «Prex II».
– Soppressa nel Communicantes la memoria dei Pontefici e dei Santi Martiri su cui la Chiesa di Roma è fondata, che furono senza dubbio i trasmettitori delle tradizioni apostoliche e le completarono in ciò che divenne, con S. Gregorio, la Messa  romana.
– Soppressa, nel Libera nos, la menzione della B. Vergine, degli Apostoli e di tutti i Santi: la sua e loro intercessione non è quindi più chiesta neppure nel momento del pericolo.
– L’unità della Chiesa è compromessa fino all’intollerabile omissione, nell’intero Ordo, comprese le tre nuove «Preces» (e con la sola eccezione delCommunicantes del Canone romano), dei nomi degli Apostoli Pietro e Paolo, fondatori della Chiesa di Roma, nonché dei nomi degli altri Apostoli, fondamento e segno della Chiesa unica e universale.
– Chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi: la soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente, di tutte le salutationes e della benedizione finale; dell’Ite Missa est[22], poi, persino nella messa celebrata con l’inserviente.
– Il doppio Confiteor mostrava come il prete, in veste di ministro di Cristo e in profonda inclinazione, riconoscendosi  indegno dell’alta missione, del «tremendum mysterium» che andava a celebrare, e addirittura (nell’Aufer a nobis) di entrare nel Santo dei Santi, invocava ad intercessione (nell’Oramus te, Domine) i meriti dei martiri di cui l’altare racchiudeva le reliquie. Entrambe le preghiere sono state soppresse. Vale qui ciò che già è stato detto per il doppio  Confiteor e la doppia Comunione.
– Sono profanate le condizioni del Sacrificio come segno di una cosa sacra: vedi ad esempio la celebrazione fuori del sacro nel qual caso l’altare può essere sostituito da una semplice «mensa» senza pietra consacrata né reliquie, con una sola  tovaglia (nn. 260, 265). Anche qui vale quanto già detto a proposito della Presenza Reale: dissociazione del «convivium» e  sacrificio della cena, dalla stessa Presenza Reale.
La desacralizzazione è perfezionata grazie alle nuove, grottesche modalità dell’offerta;
– l’accenno al pane anziché all’azzimo;
– la facoltà, data persino ai chierichetti (nonché ai laici nella comunione sub utraque specie) di toccare i vasi sacri (n. 244d);
– la inverosimile atmosfera che si creerà nella chiesa ove si alterneranno senza tregua sacerdote, diacono, suddiacono, salmista, commentatore (il sacerdote stesso par divenuto tale, continuamente incoraggiato com’è a «spiegare» ciò che sta per compiere), lettori (uomini e donne) chierici o laici che accolgono i fedeli alla porta e li accompagnano ai loro posti, fanno la  colletta, portano e smistano offerte;
– e, in tanto delirio scritturistico, la presenza antiveterotestamentaria, antipaolina della «mulier idonea» che, per la prima volta nella tradizione della Chiesa, sarà autorizzata a leggere le lezioni e adempiere anche ad altri «ministeria quae extra  presbyterium peraguntur» (n. 70).
– Infine la mania concelebratoria, che finirà di distruggere la pietà eucaristica del sacerdote e di obnubilare la figura centrale del Cristo, unico Sacerdote e Vittima, e dissolverla nella presenza collettiva dei concelebranti[23].
VI –  Ci siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo, nelle sue deviazioni più gravi dalla teologia della Messa cattolica. Le osservazioni fatte sono soltanto quelle che hanno un carattere tipico. Una valutazione completa delle insidie, dei pericoli, degli elementi spiritualmente e psicologicamente distruttivi che il documento contiene, sia nei testi come nelle rubriche e nelle istruzioni, richiederebbe ben altra mole di lavoro. Poiché furono criticati ripetutamente e autorevolmente nella loro forma e sostanza, abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il secondo[24] ha immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità. Di esso si è potuto scrivere, tra molte altre cose, che può essere celebrato in piena tranquillità di coscienza da un prete che non creda piú né alla transustanziazione né alla natura sacrificale della Messa, e che quindi si presterebbe benissimo anche alla celebrazione da parte di un ministro protestante. Il nuovo Messale fu presentato a Roma come «ampio materiale pastorale», «testo più pastorale che giuridico» su cui le Conferenze Episcopali avrebbero potuto operare secondo le circostanze e il genio dei vari popoli. Del resto, la I sezione della nuova Congregazione per il Culto Divino sarà responsabile «dell’edizione e della costante revisione dei libri liturgici».  Scrive l’ultimo bollettino ufficiale degli Istituti Liturgici di Germania, Svizzera, Austria[25]: «i testi latini dovranno ora esser tradotti nelle lingue dei vari popoli; lo stile “romano” dovrà essere adattato all’individualità delle Chiese locali; ciò che fu concepito al di fuori del tempo deve essere trasposto nel mutevole contesto di situazioni concrete, nel flusso costante della Chiesa universale e delle sue miriadi di congregazioni».La Costituzione Apostolica stessa dà il colpo di grazia alla lingua universale (in contrasto con la volontà espressa nel Concilio Vaticano II) affermando senza equivoci che «in tot varietate linguarum una (?) eademque cunctorum precatio … quovis ture fragrantior ascendat».
La morte del latino è data dunque per scontata; quella del gregoriano, che pure il Concilio riconobbe «liturgiæ romanæ proprium» (Sacros. Conc. n. 116), ordinando che «principem locum obtineat» (ibid.), ne consegue logicamente, con la libera scelta, tra l’altro, dei testi dell’Introito e del Graduale. Il nuovo rito è dato quindi in partenza come pluralistico e sperimentale, legato al tempo e al luogo.  Spezzata così per sempre l’unità di culto, in che cosa consisterà ormai quell’unità di fede che ne conseguiva e di cui sempre si parla come della sostanza da difendere senza compromissioni? È evidente che il Novus Ordo non vuole piú rappresentare la fede di Trento. A questa fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno.  Il vero cattolico è dunque posto, dalla promulgazione del Novus Ordo, in una tragica necessità di opzione.
VII  –  La Costituzione accenna esplicitamente a una ricchezza di pietà e di dottrina mutuata nel Novus Ordo dalle Chiese di Oriente. Il risultato appare tale da respingere inorridito il fedele di rito orientale, tanto lo spirito ne è, più che remoto, addirittura opposto.  A che si riducono queste scelte ecumeniche?
In sostanza
– alla molteplicità delle anafore (non certo alla loro bellezza e complessità),
– alla presenza del diacono e alla comunione sub utraque specie.
Per contro, pare si sia voluto eliminare deliberatamente tutto quanto, nella liturgia romana, era più prossimo all’orientale[26] e, rinnegando l’inconfondibile ed immemorabile carattere romano, abdicare a ciò che piú gli era proprio e spiritualmente prezioso. Lo si è sostituito con elementi che soltanto a certi riti riformati (e nemmeno a quelli più prossimi al cattolicesimo) lo avvicinano degradandolo, mentre viepiù ne allontaneranno l’Oriente, come l’hanno già allontanato le ultime riforme.  In compenso, esso piacerà sommamente a tutti quei gruppi, vicini alla apostasia, che devastano la Chiesa inquinandone l’organismo, intaccandone l’unità dottrinale, liturgica, morale e disciplinare in una crisi spirituale senza precedenti.
VIII –  S. Pio V curò l’edizione del Missale romanum affinché (come la stessa Costituzione ricorda) fosse strumento di unità tra i cattolici. In conformità alle prescrizioni del Concilio Tridentino esso doveva escludere ogni pericolo, nel culto, di errori contro la fede, insidiata allora dalla Riforma protestante. Cosi gravi erano i motivi del Santo Pontefice che mai come in questo caso appare giustificata, quasi profetica, la sacra formula che chiude la Bolla di promulgazione del suo Messale: «Si quis autem hoc attentare praesumpserit, indignationem Omnipotenti Dei ac beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit incursurum» (Quo primum, 19 luglio 1570)[27]. Si è avuto l’ardire di affermare, presentando ufficialmente il Novus Ordo alla Sala Stampa del Vaticano, che le ragioni del Tridentino non sussistono più. Non solo esse sussistono ancora, ma ne esistono oggi, non esitiamo a dirlo, di infinitamente più gravi. Proprio facendo fronte alle insidie che minacciavano di secolo in secolo la purezza del deposito ricevuto («depositum custodi, devitans profanas vocum novitates», I Tim. 6, 20), la Chiesa dovette erigergli intorno le difese ispirate delle sue definizioni dogmatiche e dei suoi pronunciamenti dottrinali. Essi ebbero ripercussione immediata nel culto, che divenne il monumento più completo della sua fede.  Volere ad ogni costo riportare questo culto all’antico, rifacendo freddamente, in vitro, quel che in antico ebbe la grazia della spontaneità primigenia, secondo quell’«insano archeologismo» cosí tempestivamente e lucidamente condannato da Pio XII[28], significa – come purtroppo si è visto – smantellarlo di tutte le sue difese teologiche oltre che di tutte le bellezze accumulate nei secoli[29], e proprio in uno dei momenti più critici, forse il più critico che la storia della Chiesa ricordi. Oggi, non più all’esterno, ma all’interno stesso della cattolicità l’esistenza di divisioni e scismi è ufficialmente riconosciuta[30]; l’unità della Chiesa è non più soltanto minacciata ma già tragicamente compromessa[31]  e gli errori contro la fede s’impongono, più che insinuarsi, attraverso abusi ed aberrazioni liturgiche ugualmente riconosciute[32].  L’abbandono di una tradizione liturgica che fu per quattro secoli segno e pegno di unità di culto (per sostituirla con un’altra, che non potrà non essere segno di divisione per le licenze innumerevoli che implicitamente autorizza, e che pullula essa stessa di insinuazioni o di errori palesi contro la purezza della fede cattolica) appare, volendo definirlo nel modo più mite, un incalcolabile errore.
Corpus Domini 1969
NOTE
[1] «Le preghiere del nostro Canone si trovano nel trattato De Sacramentis (fine del IV-V secolo) … La nostra Messa risale, senza mutamento essenziale, all’epoca in cui si sviluppava per la prima volta dalla più antica liturgia comune.  Essa serba ancora il profumo di quella liturgia primitiva, nei giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava di poter spegnere la fede cristiana; i giorni in cui i nostri padri si riunivano avanti l’aurora per cantare un inno a Cristo come a loro Dio [cfr. Pl. jr., Ep. 96] … Non vi è, in tutta la cristianità, rito altrettanto venerabile quanto la Messa romana» (A. Fortescue). «Il Canone romano risale, tale e quale è oggi, a San Gregorio Magno. Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità! Agli occhi non solo degli ortodossi, ma degli anglicani e persino dei protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della tradizione, gettarlo a mare equivarrebbe, da parte della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai più la vera  Chiesa Cattolica» (P. Louis Bouyer).
[2] In nota, per una tale definizione, si rimanda a due testi del Concilio Vaticano II. Ma a leggere quei due testi non si trova nulla che giustifichi tale definizione. Il primo testo (decreto Presbyterorum Ordinis, n. 5) suona così: «I presbiteri sono consacrati a Dio mediante il ministero del vescovo, in modo che … nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di Colui che ininterrottamente esercita la funzione sacerdotale in favore nostro nella Liturgia … E soprattutto con la celebrazione della Messa offrono sacramentalmente il Sacrificio di Cristo». Ed ecco l’altro testo cui si rimanda (Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 33): «Nella Liturgia Dio parla al suo popolo. Cristo annunzia ancora il suo Vangelo. Il popolo a sua volta risponde a Dio con i canti e con la preghiera. Anzi, le preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che presiede l’assemblea nella persona di Cristo vengono dette a nome di tutto il popolo santo e di tutti gli astanti». Non si spiega come da tali testi si sia potuto trarre la suddetta definizione. Notiamo poi l’alterazione radicale, in questa definizione della Messa, di quella del Vaticano II (Presbyterorum Ordinis, 1254): «Est ergo Eucharistica Synaxis centrum congregationis fidelium…». Fatto sparire fraudolentemente il centrum, nelNovus Ordo la congregatio stessa ne ha usurpato il posto.
[3] così il Tridentino sancisce la Presenza Reale: «Principio docet Sancta Synodus et aperte et simpliciter profitetur in almo Sanctæ Eucharestiæ sacramento post panis et vini consacrationem Dominum nostrum Iesum Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac substantialiter [can. 1] sub specie illarum rerum sensibilium contineri». (DB, 874). Nella Sessione XXII, che ci interessa qui direttamente (De sanctissimo Missæ Sacrificio), la dottrina sancita (DB, nn. 937a fino a 956) e chiaramente sintetizzata in nove canoni:
  1. La Messa è vero, visibile sacrificio – non simbolica rappresentazione – «quo cruentum illud semel in cruce peragendum repræsentaretur atque illius salutaris virtus in remissionem eorum, quæ a nobis quotidie committuntur peccatorum applicaretur» (DB, 938).
  2. Gesù Cristo Nostro Signore «sacerdotem secundum ordinem Mechisedech se in æternum[Ps. 109, 4]constitutum declarans, corpus et sanguinem suum sub specibus panis et vini Deo Patri obtulit ac sub earundem rerum symbolis Apostolis (quos tunc Novi Testamenti sacerdotes constituebat), ut sumerent, tradidit, et eisdem eorumque in sacerdotio successoribus, ut offerent, præcepit per hæc verba: “Hoc facite in meam commemorationem” [Lc. 22, 19; I Cor. 11, 24] uti semper catholica Ecclesia intellexit et docuit». (DB, ibid.).
Il celebrante, l’offerente, il sacrificatore è il sacerdote, a ciò consacrato, non il popolo di Dio, l’assemblea. «Si quis dixerit, illis verbis: “Hoc facite” etc. Christum non instituisse Apostolos sacerdotes, aut non ordinasse, ut ipsi aliique sacerdotes offerent corpus et sanguinem suum: anathema sit» (Can. 2; DB, 949).
  1. Il Sacrificio della Messa è un vero sacrificio propiziatorio e NON una «nuda commemorazione del sacrificio compiuto sulla croce». «Si quis dixerit; Missæ sacrificium tantum esse laudis et gratiarum actiones aut nudam commemorationem sacrificii in cruce peracti, non autem propitiatorium; vel soli prodesse sumenti, neque pro vivis et defunctis, pro peccatis, pœnis, satisfactionibus et aliis necessitatibus offeri debere, a.s.» (Can. 3; DB, 950).
Si ricorda inoltre il can. 6: «Si quis dixerit Canon Missæ errores continere ideoque abrogandum esse, a.s.»; (DB, 953) e il canone 8: «Si quis dixerit Missæ, in quibus solus sacerdos sacramentaliter communicat, illicitas esse, ideoque abrogandas, a.s.» (DB, 955).
[4] Ora è superfluo asserire che, se venisse negato un solo dogma definito, crollerebbero ipso facto tutti i dogmi, in quanto crollerebbe il principio stesso della infallibilità del supremo solenne Magistero Gerarchico, papale o conciliare che sia.
[5]  Si dovrebbe aggiungere anche l’Ascensione ove si volesse riprendere l’Unde et memores, che d’altronde non accomuna ma nettamente e finemente distingue: «tam beatæ Passioni, nec non ab inferis Resurrectionis, sed et in cœlum gloriosæ Ascensionis».
[6] Tale spostamento di accento è riscontrabile anche nella sorprendente eliminazione, nei tre nuovi canoni, del Memento dei morti e della menzione della sofferenza delle anime purganti, alle quali il Sacrificio satisfattorio era applicato.
[7] Cfr. Mysterium Fidei, ove Paolo VI condanna sia gli errori del simbolismo che le nuove teorie della «transignificazione» e «transfinalizzazione». «aut ratione signi … ita instare quasi symbolismus, qui nullo diffitente sanctissimæ Eucharistiæ certissime inest, totam exprimat et exhauriat rationem presentiæ Christi in hoc Sacramento … aut de transubstantiationis mysterio disserere quin de mirabili conversione totius  substantiæ panis in corpus et totius substantiæ vini in sanguinem Christi, de qua lonquitur Concilium Tridentinum, mentio fiat, ita ut in sola “transignificatione” et “transfinalizatione”, ut aiunt, consistant» (A.A.S. LVII, 1965, p. 755).
[8] L’introduzione di nuove formule, o di espressioni che, pur ricorrendo nei testi dei Padri e dei Concili e nei documenti del Magistero, vengono usate in senso univoco, non subordinato alla dottrina sostanziale con cui formano una inscindibile unità (p. es. «spiritualis alimonia», «cibus spiritualis», «potus spiritualis», ecc.) è ampiamente denunciata e  condannata nella Mysterium Fidei. Paolo VI premette che: «servata Fidei integritate, aptus quoque modus loquendi servetur oportet, ne indisciplinatis verbis utentibus nobis falsæ, quod absit, de Fide  altissimarum rerum suboriantur opiniones»; cita Sant’Agostino: «Nobis tamen ad certam regulam loqui  fas est, ne verborum licentia etiam de rebus, quæ significantur impiam gignant opinionem» (De Civ. Dei, X, 23. PL, 41, 300); continua: «Regula ergo loquendi, quem Ecclesia longo sæculorum labore non sine Spiritus Sancti munimine induxit et Conciliorum auctoritate firmavit, quæque non semel tessera et vexillum Fidei orthodoxæ facta est, sancte servetur, neque eam quisquam pro lubitu vel prætextu  novæ scientiæ immutare præsumat … Eodem modo ferendus non est quisquis formulis, Concilium Tridentinum Mysterium Eucharisticum ad credendum proposuit, suo marte derogare velit»  (A. A. S. LVII, 1965, p. 758).
[9] In netta contraddizione con quanto prescrive (Sacros. Conc., n. 48) il Vaticano II.
[10] Una volta (n. 259) è riconosciuta la sua funzione primaria: «Altare, in quo sacrificium crucis sub signis sacramentalibus præsens efficitur». Non sembra molto per eliminare gli equivoci dell’altra costante  denominazione.
[11] «Separare il Tabernacolo dall’altare equivale a separare due cose che in forza della loro natura debbono restare unite»  (Pio XII, Allocuzione al Congresso Internazionale di Liturgia, Assisi – Roma 18-23 settembre 1956). Cfr. anche Mediator Dei, I, 5.
[12] Raramente è usata, nel Novus Ordo, la parola «hostia», tradizionale nei libri liturgici con il suo preciso significato di «vittima». Ciò rientra nel sistema inteso a mettere in evidenza esclusivamente gli aspetti di «cena» e di «cibo».
[13] Per il consueto fenomeno di sostituzione e di scambio di una cosa per l’altra, la Presenza Reale viene equiparata alla  presenza nella parola (n. 7, 54). Ma questa è in verità di tutt’altra natura perché non ha realtà che in usu, mentre quella è, in modo stabile, obbiettivamente, indipendentemente dalla comunicazione che se ne fa nel Sacramento. Tipicamente protestanti le formule: «Deus populum suum alloquitur … Christus per verbum suum in medio fidelium præsens adest» (n. 33, , cfr. Sacros. Conc., nn. 33 e 7), cosa che, strettamente parlando, non ha senso perché la presenza di Dio nella parola è mediata, legata a un atto dello spirito, alla condizione spirituale  dell’individuo e limitata nel tempo.  L’errore non è senza la più tragica conseguenza: l’affermazione, o l’insinuazione, che la Presenza Reale sia legata all’usus e finisca insieme con esso.
[14] L’azione sacramentale della istituzione è puntualizzata come avvenuta nel dare Gesú agli Apostoli «a mangiare» il suo Corpo e Sangue sotto le specie del pane e del vino, e non nella azione della consacrazione e nella mistica separazione in  essa compiuta del Corpo e del Sangue, essenza del Sacrificio eucaristico (cfr. l’intero capitolo I della Parte II – «Il Culto         Eucaristico» – della Mediator Dei).
[15] Le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel contesto del Novus Ordo, possono essere valide in virtù dell’intenzione del ministro. Possono non esserlo perché non lo sono più ex vi verborum o piú precisamente in virtù del modus significandi che avevano finora nella Messa. I sacerdoti, che, in un prossimo avvenire, non avranno  ricevuto la formazione tradizionale e che si affideranno alNovus Ordo al fine di «fare ciò che fa la Chiesa» consacreranno validamente? È lecito dubitarne.
[16] Non si dica, secondo il noto procedimento della critica protestante, che queste espressioni appartengono a quello stesso  contesto scritturistico. La Chiesa ne ha sempre evitato la giustapposizione e sovrapposizione per rimuovere appunto la confusione delle diverse realtà che detti testi esprimono.
[17] Di contro a luterani e calvinisti che affermavano come tutti i cristiani siano sacerdoti e perciò offerenti della cena, v. A.  Tanquerey: Synopsis theologiæ dogmaticæ, t. III, Desclee 1930: «Omnes et soli sacerdotes sunt, proprie  loquendo, ministri secundarii sacrificii missæ. Christus est uidem principalis minister. Fideles  mediate, non autem sensu stricto, per sacerdotes offerunt ». (Cfr. Cons. Trid. Sess. XXII, Can. 2).
[18] Notiamo una innovazione impensabile e che sarà psicologicamente disastrosa: il Venerdí Santo in paramenti rossi anziché neri (n. 308b): la commemorazione cioè di un qualsiasi martire anziché il lutto della Chiesa tutta per il suo Fondatore. Cfr. Mediator Dei, I, 5 (v. p. 36, nota 28).
[19] P. Roquet, O.P., alle Domenicane di Betania a Plesschenet
[20] In alcune traduzioni del Canone romano, il «locus refrigerii, lucis et pacis» veniva reso come un semplice stato  («beatitudine, luce, pace»). Che dire, ora, della sparizione di ogni esplicito accenno alla Chiesa purgante?
[21] In tanta febbre di decurtazione, un solo arricchimento: l’omissione, menzionata nell’accusa dei peccati al Confiteor
[22] Alla conferenza stampa in cui fu presentato l’Ordo, il P. Lecuyer, in una professione di pura fede razionalistica, parlò di convertire in «Dominus tecum», «Ora, frater», etc. le salutationes nella «Missa sine populo», «perché non vi sia nulla che non corrisponda a verità»
[23] A questo proposito noteremo marginalmente che appare lecito, ai sacerdoti che siano costretti a celebrare da soli prima o dopo la concelebrazione, di comunicarsi di nuovo sub utraque specie durante questa.
[24] Che si è voluto presentare come «canone di Ippolito» mentre di quel canone serba appena qualche reminiscenza  verbale.
[25] Gottesdienst, n. 9, 14 maggio 1969.
[26] Si pensi, per ricordare solo la bizantina, alle preghiere penitenziali, lunghissime, istanti, ripetute; ai solenni riti vestizione del celebrante e del diacono; alla preparazione, che è già un rito completo in sé stessa, delle offerte alla proscomidia; alla presenza costante, nelle orazioni e persino nelle offerte, della Beata Vergine, dei Santi e delle  Gerarchie Angeliche (che, nell’Entrata col Vangelo sono addirittura evocate come invisibilmente concelebranti e con le quali si identifica il coro nel Cherubicon); alla iconostasi che nettamente separa santuario da tempio, clero da popolo; alla consacrazione celata, evidente simbolo dell’Inconoscibile a cui l’intera Liturgia allude; alla posizione del celebrante versus ad Deum e mai versus ad populum; alla comunione amministrata sempre e solo dal celebrante; ai continui e  profondi segni di adorazione di cui sono fatte segno le Specie; all’atteggiamento essenzialmente contemplativo del  popolo. Il fatto che tali liturgie, anche nelle forme meno solenni, durino più di un’ora, e le costanti definizioni che vi si trovano («tremenda e inenarrabile liturgia», «tremendi, celesti, vivificanti misteri», ecc.) bastino a dir tutto.  Notiamo infine, sia nella Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo che in quella di San Basilio, come il concetto di «cena» o di «banchetto» appaia chiaramente subordinato a quello di sacrificio, così come lo era nella Messa romana.
[27] Nella Sessione XIII (decreto sulla SS.ma Eucarestia), il Concilio di Trento manifesta la sua intenzione «ut stirpitus convelleret zizania execrabilium errorum et schismatum, quæ inimicus homo … in doctrina fidei usu et cultu Sacrosanctæ Eucharestiæ superseminavit (Mt. 13, 25 ss.) …  quam alioqui Salvator noster in Ecclesia sua tamquam symbolum reliquit eius unitatis et caritatis, qua Christianos omnes inter se coniunctos et copulatos, esse voluit» (DB, 873).
[28] «Ad sacræ liturgiæ fontes mente animoque redire sapiens perfecto ac laudabilissima res est, cum disciplinæ huius studium, ad eius origines remigrans, haud parum conferat ad festorum dierum significationem et ad formularum, quæ usurpantur, sacrarumque cæremoniarum sententiam altius  dividentiusque pervestigandam: non sapiens tamen, non laudabile est omnia ad antiquitatem quovis modo reducere. Itaque, ut exemplis utamur, is ex recto aberret itinere, qui priscam altari velit  mensæ formam restituere; qui liturgicas vestes velit nigro semper carere colore; qui sacras  imagines ac statuas e templis prohibeat; qui divini Redemptoris in Crucem acti effigies ita  conformari iubeat, ut corpus eius acerrimos non referat, quos passus est, cruciatus… Hæc enim  cogitandi agendique ratio nimiam illam reviscere iubet atque insanam antiquitatum cupidinem,  quam illegitimum excitavit Pistoriense concilium, itemque multiplices illos restituere enititur  errores, qui in causa fuere, cur conciliabulum idem cogeretur, quique inde non sine magno  animorum detrimento consecuti sunt, quosque Ecclesia, cum evigilans semper evistat “fidei  depositi” custos sibi a Divino Conditore concrediti, iure meritoque reprobavit» (Mediator Dei, I, 5).
[29] «Non ci illuda il criterio di ridurre l’edificio della Chiesa, diventato largo e maestoso per la gloria di Dio, come un suo tempio magnifico, alle sue iniziali e minime proporzioni, quasi che quelle siano solo le vere, solo le buone» (Paolo VI,  Ecclesiam suam).
[30] «Un fermento praticamente scismatico divide, suddivide, spezza la Chiesa» (Paolo VI, Omelia in Cena Domini, 1969).
[31] «Vi sono anche tra noi quegli «schismata», quelle «scissuræ» che la prima lettera ai Corinzi di San Paolo, oggi nostra ammaestrante lettura, dolorosamente denuncia» (cfr. Paolo VI, ibid.).
[32] È noto a tutti come il Concilio Vaticano II venga oggi rinnegato proprio da coloro che si vantarono di esserne i padri;  coloro che – mentre il Sommo Pontefice, chiudendolo, dichiarava non aver esso mutato nulla – ne partirono decisi a  «farne esplodere» il contenuto in sede di applicazione. Purtroppo la Santa Sede, con una fretta che ai più parve  inesplicabile, ha consentito e quasi incoraggiato, attraverso il Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, una sempre crescente infedeltà al Concilio; che va dagli aspetti solo apparentemente formali (latino,      gregoriano, soppressione di riti venerandi, ecc.) a quelli sostanziali consacrati dal Novus Ordo. Le terribili  conseguenze, che abbiamo tentato di illustrare, si sono ripercosse, in modo psicologicamente forse ancora più  catastrofico, nei campi della disciplina e del magistero ecclesiastico, scuotendo paurosamente, insieme con il prestigio, la docilità dovuta alla Sede Apostolica.

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