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venerdì 8 febbraio 2019

“Stili di vita”

Eluana, dieci anni dopo l'Italia ha già digerito l'eutanasia

Il caso di Eluana Englaro, uccisa il 9 febbraio 2009, è ancora vivo nella coscienza del Paese. Ma nel frattempo molte cose sono cambiate e quello che allora era un delitto oggi, con la nuova legge sulle Dat e sul consenso informato, è diventato un diritto. Ma nonostante questo non si levano voci di protesta, la coscienza collettiva si è trasformata in un'arida valle del silenzio.
- UN LIBRO CI SPIEGA PERCHÈ NON È "FINE VITA", di Riccardo Cascioli

                            Eluana Englaro

3.652. Sono i giorni passati da quel 9 febbraio 2009 in cui Eluana Englaro è stata uccisa. Dieci anni esatti. La memoria collettiva ha cancellato molti aspetti di quella vicenda: il padre di Eluana che per ben sei volte, ma senza successo, chiese ai giudici civili che la figlia potesse morire per fame e per sete; la Corte di Cassazione che chiuse la vertenza giudiziaria lunga 17 anni e diede ordine di uccidere Eluana ricostruendo la sua volontà eutanasica tramite gli “stili di vita” della ragazza e considerando la morte come suo best interest; le suore Misericordine della casa di cura Beato Luigi Talamoni di Lecco che per anni avevano prestato assistenza amorevole ad Eluana, rifocillandola e idratandola in modo massiccio nell’ultimo suo giorno di degenza, prima che fosse trasferita ad Udine nella clinica La Quiete (nome omen), sapendo a quale morte avrebbe dovuto andare incontro; il decreto “Salva Eluana” voluto dal governo Berlusconi, ma non firmato dal Presidente della Repubblica Napolitano; ed infine la morte di Eluana in una stanza, così si mormora, in cui avevano alzato la temperatura per anticipare il suo decesso (in Parlamento si stava lavorando ancora ad un disegno di legge che potesse salvarla).


E da allora? Da quel giorno di dieci anni fa l’eutanasia, per paradosso, è viva e vegeta e gode di ottima salute. Da allora infatti abbiamo avuto la legge belga sull’eutanasia infantile (clicca qui e qui); un governo, quello canadese, che si sta muovendo nella stessa direzione (clicca qui);  l’Olanda, dove è legittima l’eutanasia sui minori ed anche su anziani non malati (clicca qui), che nel 2002 ha registrato 1.882 casi di eutanasia per arrivare a 6.585 nel 2017 (clicca qui); le vicende di Charlie Gard, Alfie Evans, Isaiah Haastrup, piccoli pazienti inglesi uccisi perché non potevano migliorare e che hanno portato alla luce una pratica comune e diffusa in Inghilterra e non solo (clicca qui); la pubblicazione di un articolo su rivista scientifica dei ricercatori Francesca Minerva e Alberto Giubilini favorevoli all’infanticidio (clicca qui), chiamato abort-post nascita, mettendo in evidenza che la specie morale tra aborto ed eutanasia è la medesima: l’assassinio, come ben hanno compreso i Democratici USA i quali non solo stanno spingendo per l’aborto al nono mese, ma anche per l’aborto al decimo mese cioè quando il bambino è già nato; il caso di DJ Fabo e quello connesso alla vicenda giudiziale del radicale Marco Cappato (clicca qui), la quale ha permesso di sollevare eccezione di incostituzionalità presso la Corte Costituzionale in merito al reato di aiuto al suicidio, reato che forse parzialmente verrà abrogato dal Parlamento (clicca qui) ; la recente proposta di legge sull’eutanasia presentata dai Radicali (clicca qui).

In questo elenco necessariamente incompleto, un posto di (dis)onore merita la  Legge 22 dicembre 2017, n. 219, chiamata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” (clicca qui). Questa legge permette l’eutanasia attiva ed omissiva sia su paziente cosciente che su persona non vigile e vieta l’obiezione di coscienza dei medici. Se si esclude il fatto che non consente l’eutanasia tramite iniezione letale e l’aiuto al suicidio, possiamo dire che tale normativa è la legge più libertaria al mondo in tema di eutanasia.

Questa legge permette l’eutanasia anche su persona incapace, come lo era Eluana. Ed è questo forse l’aspetto più tristemente rilevante dell’altrettanto triste anniversario della morte della giovane Englaro. Quello che era per legge nel 2009 un delitto, oggi per legge è diventato un diritto. Se allora l’eutanasia fu permessa dai giudici contra legem, oggi l’eutanasia è permessa dal Parlamento. Se fosse morta oggi Eluana, nulla quaestio:  i medici avrebbero applicato la legge. Eppure, a differenza del 2009, oggi non si muove foglia, quasi che l’assassinio non sia stato legittimato solo dalla legge, ma anche dalla coscienza collettiva.

Dieci anni fa per settimane, se non per mesi giornali, televisioni e web erano animati da un dibattito accesissimo sul caso Eluana e sul tema eutanasia. La politica si divideva, la Chiesa diceva la sua, uomini di cultura intervenivano (spesso rivelando che non erano per niente colti), anche al Bar Sport si parlava di Eluana. Oggi, con l’attuale legge, il quadro è peggiorato perché l’uccisione di persone come Eluana, o di malati di Alzheimer o con disabilità mentali gravi, per tacere dei minori, non è più una vergognosa eccezione giurisprudenziale, un atto isolato di follia giuridica, un raptus schizofrenico e momentaneo verificatosi in un’aula di tribunale, ma è diventato, l’assassinio, un bene giuridico, una condotta tutelata dalla legge, un diritto soggettivo. Ma nonostante questo la coscienza collettiva si è trasformata in un’arida valle del silenzio, resa volutamente così sterile da chi governa il mainstream culturale.

La gente non piange più perché anche una buona fetta di coloro i quali sono chiamati a difendere la vita non piange più. E così, varata la legge, a parte qualche lodevole eccezione, non un grido, non un sussulto, non un pianto su giornali o da parte di istituzioni laiche, ma illuminate, o religiose. Niente di tutto quello che invece era successo nei giorni che avevano preceduto il decesso di Eluana e nei giorni seguenti.  Qualcosa è morto in noi insieme a lei.

E fra altri 3652 giorni cosa accadrà?

Tommaso Scandroglio

http://www.lanuovabq.it/it/eluana-dieci-anni-dopo-litalia-ha-gia-digerito-leutanasia

Eutanasia, la logica perversa della legge dei radicaliVITA E BIOETICA

Alle Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera è iniziata la discussione sul progetto di legge sull'eutanasia proposto dall'associazione Luca Coscioni. Paradossalmente appare più restrittivo dell'attuale legge sulle Dat, ma lo scopo è avere una legge che parli esplicitamente di eutanasia e la incoraggi.
Una manifestazione pro-eutanasia dell'associazione Luca Coscioni
L’Associazione Luca Coscioni, dopo aver raccolto 130mila firme, ha presentato in Parlamento un progetto di legge denominato Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia (clicca qui). La proposta di legge di iniziativa popolare è attualmente all’esame delle Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera.
Il testo è molto snello, solo 4 articoli che, senza andare troppo nel dettaglio, potrebbero essere la sintesi della vigente legge del 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Quest’ultima legge, lo ricordiamo (clicca qui), permette già l’eutanasia, sia quella commissiva sia quella attiva, tramite il rifiuto di terapie salvavita o di alimentazione e idratazione assistita da iniziare o già poste in essere. Dunque questo disegno di legge mima il contenuto di una normativa che già legittima l’eutanasia ed esclude qualsiasi forma di obiezione di coscienza da parte dei medici.
Anzi a ben vedere e per paradosso è più restrittiva. Infatti la proposta di legge dei Radicali, a differenza dell’attuale legge, non permette l’eutanasia su persone minori, eccetto nel caso in cui il minore non abbia sottoscritto le Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat). Inoltre non permette l’eutanasia sugli incapaci, eccetto il caso, nuovamente, in cui l’incapace abbia sottoscritto anche lui le Dat, le quali Dat dunque scatterebbero nella loro validità appena sottoscritte, perché acquisterebbero efficacia nel caso in cui il soggetto non fosse capace di intendere e volere o di manifestare la propria volontà. Si potrà obiettare che le dichiarazioni di minori e incapaci non sono giuridicamente valide, ma questo non è specificato nell’art. 4 dedicato alle Dat ed invece è specificato per la richiesta di eutanasia da parte di soggetti maggiorenni e vigili (art 1). Dunque o è una dimenticanza oppure non lo si voleva specificare.
E’ più restrittiva della vigente normativa perché l’eutanasia è legittima solo se i parenti e il coniuge del paziente sono stati informati della richiesta di morire di quest’ultimo e abbiano avuto modo di parlare con lui (art. 3, n. 4). Vincolo questo assente nell’attuale legge. Così come sono assenti anche i seguenti requisiti per chiedere di morire: “la richiesta sia motivata dal fatto che il paziente è affetto da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a diciotto mesi” (art. 3, n. 5).
Nella vigente normativa sono vietate solo due metodiche per dare la morte:l’iniezione letale e l’aiuto al suicidio (ma su questo ultimo punto il Parlamento sta lavorando, clicca qui). Queste due pratiche eutanasiche sono presenti nella proposta di legge dei Radicali? Da una parte potremmo negarlo perché nell’art. 1 si indica esplicitamente solo il rifiuto dell’ “inizio o (del)la prosecuzione di trattamenti sanitari, nonché (di) ogni tipo di  trattamento di sostegno vitale e/o terapia nutrizionale”. L’art. 3, che riguarda le condizioni di non punibilità del medico, parla di eutanasia, ma dato che il suo contenuto rimanda all’art. 1 dobbiamo concludere che un paziente può morire solo rifiutando terapie o mezzi di sostentamento vitale. Più complessa invece l’esegesi dell’art. 4 dedicato alle Dat, dove si fa riferimento all’eutanasia, ma non mettendola in rapporto all’art. 1 in modo esplicito. Se il rimando all’art. 1 dunque fosse implicito, la sedazione letale sarebbero esclusa (l’aiuto al suicidio sarebbe pressochè escluso de facto perché la persona che si dovrebbe dare la morte non è vigile o incapace), in caso contrario invece sarebbe legittima. Da qui l’incongruenza manifesta: permettere alla persona non più vigile di ricevere l’iniezione letale e vietarla per la persona vigile. Insomma un testo di legge scritto male. E forse volutamente.
Proviamo a spiegarne il possibile motivo partendo da una domanda: perché i Radicali propongono una legge copia-incolla di quella già vigente e in alcuni punti, non certo secondari, addirittura più vincolante nell’accesso all’eutanasia? Di certo non perché vogliono fare un passo indietro. Il motivo potrebbe essere il seguente: nella percezione collettiva l’attuale legge non permette l’eutanasia – percezione fasulla –, occorre invece una legge che esplicitamente consenta l’eutanasia. L’attuale legge è stata interpretata dai più come una normativa sul consenso informato, non sull’eutanasia. Il motivo quindi è meramente ideologico.
Se chi siede nelle commissioni e in parlamento ha un minimo di preparazione giuridica, la legge non potrà essere varata perché andrebbe a sovrapporsi a quella vigente (ma in Italia può capitare anche questo). I Radicali lo sanno, ma a loro non importa ed ecco perché la bozza di legge è così confusa e scarna. L’importante, ed è questo il punto, è che si parli di eutanasia. I Radicali vivono di casi per montare sopra di essi una campagna e, se il caso non c’è, lo creano. Così è stato per la vicenda di Welby, di Eluana, di Dj Fabo, di Cappato che si è autodenunciato in modo tale da porre all’attenzione della Consulta il reato di aiuto al suicidio.

Ora si vuole che l’opinione pubblica pratichi l’eutanasia, non semplicemente che si avvalga della disciplina del consenso informato che comunque è già uno strumento eutanasico. Per i Radicali non basta che ci sia una legge sull’aborto, sul divorzio, sulla fecondazione artificiale e sull’eutanasia. Occorre che gli italiani vadano in massa ad abortire, a divorziare, a produrre bimbi in provetta e a farsi ammazzare nelle corsie degli ospedali. La rivoluzione non può rimanere sulla carta. La proposta di legge, perlomeno a noi così pare, è dunque solo un pretesto per continuare a soffiare sul fuoco.
Tommaso Scandroglio
  • FEDE E MORALE

Il Manifesto interreligioso e l’errore sul fine vita

Il 5 febbraio è stato sottoscritto da molte realtà religiose, cattoliche e non, il «Manifesto interreligioso dei diritti nei percorsi di fine vita», che ha il grande limite di non vietare esplicitamente l’eutanasia, pratica che non è mai rispettosa della dignità personale. Un secondo aspetto molto problematico di questo documento è il modo fuorviante in cui viene intesa la libertà religiosa.
Si chiama «Manifesto interreligioso dei diritti nei percorsi di fine vita» ed è stato elaborato da un gruppo promotore costituito dall’ASL Roma 1, dal Gemelli Medical Center dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e dal Tavolo interreligioso di Roma. Il Manifesto è stato sottoscritto il 5 febbraio da molte realtà religiose, cattoliche e non. Un manifesto che quindi trova concordi cristiani, ortodossi, protestanti, buddisti, islamici, ebrei, induisti.
Il Manifesto si sostanzia in nove diritti: diritto di disporre del tempo residuo; diritto al rispetto della propria religione; diritto a servizi orientati al rispetto della sfera religiosa, spirituale e culturale; diritto alla presenza del referente religioso o assistente spirituale; diritto all’assistenza di un mediatore interculturale; diritto a ricevere assistenza spirituale anche da parte di referenti di altre fedi; diritto al sostegno spirituale e al supporto relazionale per sé e per i propri familiari; diritto al rispetto delle pratiche pre e post mortem; diritto al rispetto reciproco. Ogni diritto trova nel documento una sua spiegazione più dettagliata.
Molti sarebbero i punti critici di questo Manifesto, ma, per amor di sintesi, ci soffermiamo su due aspetti. Nel Manifesto si legge che esiste un «diritto di disporre del tempo residuo […] affinché [ogni persona] possa gestire la propria vita in modo qualitativamente soddisfacente, anche in relazione alla propria spiritualità e fede religiosa». E se la «propria spiritualità e fede religiosa» fossero accondiscendenti verso pratiche eutanasiche? Ci troveremmo allora con credenti ed enti cattolici che hanno sottoscritto un documento che potrebbe aprire le porte all’eutanasia. Il problema di questo documento, relativamente alle pratiche connesse con la “dolce morte”, sta nel fatto che non vieta esplicitamente l’eutanasia, né, in modo subordinato, dichiara che qualsiasi intervento clinico terapeutico o qualsiasi decisione relativa all’ultima fase della vita deve essere sempre rispettosa della dignità personale. E l’eutanasia non è mai rispettosa di tale dignità.
Ulteriore aspetto assai problematico di questo documento. Il secondo diritto è denominato «Diritto al rispetto della propria religione». Da questo diritto germinano altri “diritti” sempre attinenti all’ambito religioso: «Diritto di comunicare la propria fede religiosa alla struttura sanitaria», «diritto a servizi orientati al rispetto della sfera religiosa, spirituale e culturale», «diritto alla presenza del Referente religioso o Assistente spirituale», «diritto al rispetto delle pratiche pre e post mortem previste dalla religione di appartenenza». Va da sé che «ogni diritto porta come conseguenza il dovere di ognuno di rispettare il credo religioso degli altri».
Ora ciò che ci apprestiamo a scrivere, lo sappiamo bene, suonerà urticante alle orecchie di molti, soprattutto in questa fase storica di forte spinta ecumenica. Mettendo sale sulle ferite occorre ricordare che non esiste un diritto a professare qualsiasi religione. Esiste il diritto a professare solo la religione cattolica, perché diritto e libertà sono concetti associabili solo alla verità, non all’errore. Non c’è il diritto all’errore o la libertà di professare l’errore. Dunque i diritti di cui sopra che si riferiscono all’ambito religioso non possono essere lecitamente predicabili.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda: «Tutti gli uomini sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che riguarda Dio e la sua Chiesa, e, una volta conosciuta, ad abbracciarla e custodirla» (2104). Ciascuno ha quindi un dovere morale di carattere naturale di cercare la verità. La verità in ambito religioso prende un nome: Gesù Cristo. Infatti Egli disse di sé: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Quindi tutti devono convertirsi a Cristo e dunque tutti devono convertirsi alla Chiesa cattolica da Lui fondata perché la religione cattolica è l’unica a essere vera (cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dominus Iesus, circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, 6 agosto 2000; Concilio Vaticano II, Dignitatis humanae, n. 1).
Il dovere di cercare la Verità, che è Cristo, è esercitabile ovviamente solo tramite la libera adesione alla Verità. Dunque se per “libertà religiosa” si intende il diritto all’immunità della coercizione fisica e psicologica tale espressione è accettabile (cfr. Paolo VI, Discorso al Sacro Collegio e alla Prelatura Romana, 20/12/1976; Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2005). Se invece per “libertà religiosa” si intende il diritto a professare una religione diversa da quella cattolica, tale espressione è da rigettare perché erronea. Come infatti dichiara il Catechismo della Chiesa Cattolica «il diritto alla libertà religiosa non è né la licenza morale di aderire all’errore, né un implicito diritto all’errore» (n. 2108). Troviamo il medesimo principio nelle seguenti parole di Giovanni Paolo II: «È ben chiaro che la libertà di coscienza e di religione non significa una relativizzazione della verità oggettiva che ogni essere umano è tenuto, per dovere morale, a ricercare» (Giovanni Paolo II, La libertà religiosa, condizione per la pacifica convivenza, 1/01/1988).
Leone XIII nell’enciclica Immortale dei condanna il seguente principio: «a ciascuno sarà lecito seguire la religione che preferisce, o anche nessuna, se nessuna gli aggrada. […] È diritto di ciascuno professare qualsiasi fede gli aggradi». Queste parole fanno eco a quelle del suo predecessore Pio IX, il quale nel Sillabo,contenuto nell’enciclica Quanta cura, condanna la seguente affermazione: «È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera» (XV) (cfr. altresì Gregorio XVI, Mirari vos). Non si può intendere la libertà religiosa come diritto soggettivo di professare una religione diversa da quella cattolica per consequenzialità logica. Il diritto soggettivo è una pretesa giuridicamente tutelata. È lecito pretendere solo il bene (ambito morale) e il vero (ambito teoretico). Ergo esiste solo il diritto alla verità (il diritto a cercare la verità), non il diritto all’errore (il diritto di professare l’errore). E dato che solo Cristo è la verità e tale verità per suo volere è custodita pienamente solo nella Chiesa cattolica, ne consegue che gli altri culti sono essenzialmente falsi. Ma se sono falsi non si può predicare un diritto alla falsità, all’errore dottrinale. E dunque non si può predicare una libertà di professare questi culti.
Inoltre, la libertà scaturisce solo dall’adesione al bene e al vero: «La libertà autentica e desiderabile è quella che, nella sfera privata, non permette all’individuo di essere schiavo degli errori e delle passioni» (Leone XIII, Immortale Dei). Sulla stessa frequenza d’onda si muove Paolo VI che nel 1965, nel pieno della discussione conciliare sulla libertà religiosa, vergò questo appunto: «Essa [la libertà religiosa] invece è da stabilirsi nel dovere della ricerca della verità; [nel] dovere della fedeltà alla verità; [nel] dovere dell’insegnamento della verità; [nel] dovere della professione e della difesa della verità religiosa, che è oggettivamente una sola e che nella sua pienezza è quella della rivelazione cristiana, custodita e insegnata dalla Santa Chiesa cattolica» (Paolo VI, Annotationes Manu ScriptaeDe libertate religiosa, 6/05/1965). In modo analogo si esprime Giovanni Paolo II: «La libertà, di cui l’uomo è dotato dal Creatore, è la capacità che gli è permanentemente data di cercare il vero con l’intelligenza e di aderire col cuore al bene a cui naturalmente egli aspira» (La libertà religiosa, condizione per la pacifica convivenza); «la libertà è pienamente valorizzata soltanto dall’accettazione della verità: in un mondo senza verità la libertà perde la sua consistenza» (Centesimus annusn. 46).
Ricordiamo anche le parole di Benedetto XVI: «La libertà religiosa va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità» (Libertà religiosa, via per la pace. Messaggio per la celebrazione della XLIV Giornata Mondiale per la pace, 1/01/2011); «La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali. Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità e della verità» (Caritas in veritaten. 55).
Da ultimo riportiamo un enunciato della Congregazione per la Dottrina della Fede: «il diritto alla libertà di coscienza e in special modo alla libertà religiosa […] si fonda sulla dignità ontologica della persona umana, e in nessun modo su di una inesistente uguaglianza tra le religioni e tra i sistemi culturali umani» (Nota circa l’impegno dei cattolici nella vita politica24/11/02, n. 8). Ciò a voler dire che la natura umana inclina al vero, ossia ha una sete di verità impressa da Dio e dunque ha sete dell’unica religione vera che è quella cattolica. E quindi l’unica libertà predicabile è quella interessata da questa inclinazione naturale alla verità  religiosa. Sintesi di questi interventi sono le parole di Gesù: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32).
Dato che, come abbiamo visto, solo Cristo è la verità, solo chi segue Cristo e dunque solo chi segue gli insegnamenti della Chiesa cattolica è libero. Non si può quindi predicare la libertà in riferimento a culti erronei e quindi è sbagliato usare l’espressione “libertà religiosa” relativamente a religioni diverse da quella cattolica. Semmai si possono tollerare le altre credenze, non riconoscere ad esse la libertà di culto.
Invece per il Manifesto pare che tutte le religioni siano uguali. Infatti esplicita che «ogni persona ha il diritto di chiedere, qualora l’Assistente spirituale della propria fede non fosse disponibile, l’assistenza da parte di un Referente di altra fede». Insomma un sacerdote cattolico o un rabbino pari sono nei momenti che precedono immediatamente l’incontro con Cristo. Chiamasi indifferentismo religioso.

Tommaso Scandroglio

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