ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 23 agosto 2019

Non c’è intesa tra questi angeli e i demoni

Angeli e demoni



Quello che segue è un esercizio di antigiornalismo. La notizia è vecchia di 4 anni, anzi, a ben guardare, non ci sarebbe neppure. Perché scrivere che i vescovi di questa chiesaccia postcristiana non credono nel vero Dio, Uno e Trino, è come sprecare inchiostro per annunciare urbi et orbi che un cane ha morso un bambino. Roba che all’esame da professionista ti mandano via a calci nel sedere. Lo sanno tutti che i cani mordono i bambini e la notizia c’è solo quando è un bambino a mordere il cane. Così come tutti sanno che i vescovi di questa chiesaccia maligna non credono nel vero Dio, Uno e Trino, e si darebbe notizia solo quando uno di loro professasse integralmente la vera fede.

Il fatto risale al 17 gennaio 2015: ordinazione del vescovo cileno di San Marcos de Arica, Moisés Atisha Contreras, presieduta dal cardinale Ricardo Ezzati e concelebrata dal vescovo Ivo Scapolo, nunzio apostolico in Cile, con l’arcivescovo Pablo Lopez Riquelme. Prima della messa, un sacerdote inca è stato invitato a propiziare l’azione degli dei sul nuovo vescovo. Cosa che hanno fatto attivamente in abiti liturgici anche i vescovi sedicenti cattolici unendosi all’invocazione di Tata Inti, il dio Sole, di Pachamama, la Madre Terra, e man mano tutti gli altri fino a esaurimento scorte. La chiesa amazzonica è nata molto prima dell’imminente sinodo.
Nulla di nuovo, dunque, nulla di strettamente giornalistico. Ragion per cui questo è un breve esercizio calligrafico sull’ovvio a cui non avrei messo mano se un paio di settimane fa, per illustrare un articolo di Giovanni Lugaresi, non mi fosse capitata tra le mani la foto di un cappellano che celebra la Messa per gli alpini sulle montagne della Grande Guerra. Il caso ha voluto che quell’immagine andasse nell’home page di Ricognizioni accanto a quella del sacerdote inca che invoca i suoi dei sul neovescovo cileno. Il contrasto tra angeli e demoni mi è parso così doloroso da indurmi a farci qualche considerazione.
Anzi, ho pensato che fosse necessario un atto di giustizia in omaggio all’unico vero sacerdote cristiano che compare nelle due fotografie, l’unico che crede nel vero Dio, Uno e Trino, lo prega e lo adora. Un atto di giustizia in onore di quel cappellano che celebra il Sacrificio di Cristo per i soldati pronti a offrire il proprio in battaglia. Un atto di giustizia che ripristini amore e devozione per gli angeli visibili e invisibili presenti in una foto di guerra e susciti cristiano furore al cospetto dei demoni visibili e invisibili che infestano una foto di pace.
Un elogio dell’ovvio. D’altra parte, l’atto di giustizia non fa altro che ristabilire i diritti dell’ovvio: in questo caso, le ragioni della luce dell’Ortigara, “il Calvario degli alpini”, sul torto dei sedicenti vescovi cattolici in ginocchio davanti a Pachamama. Non è il caso di sprecare parole sui demoni. Basta una sola immagine tra le molte in circolazione.

Non commento. Penso ai martiri che si sono fatti straziare le carni pur di non rendere onore agli dei pagani con un gesto simile. E penso a quanto scrive San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi: “Perciò, miei cari, state lontani dall’idolatria. Parlo come a persone intelligenti. Giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane. Guardate l’Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare? Che cosa dunque intendo dire? Che la carne sacrificata agli idoli vale qualcosa? O che un idolo vale qualcosa? No, ma dico che quei sacrifici sono offerti ai demoni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demoni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demoni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni. O vogliamo provocare la gelosia del Signore? Siamo forse più forti di lui?”.
Dopo il monito di San Paolo, mi sarebbe di grande conforto sapere che anche altri provano la mia stessa consolazione sostando qualche attimo davanti all’immagine integrale della Messa sull’Ortigara.

Guardo la faccia contadina del sacerdote e vedo i suoi occhi trafitti dalla luce del Corpo di Cristo. Vedo la sua anima in perfetta letizia perché è al cospetto di ciò che rende ragione di tutto, della vita e della morte, della felicità e del dolore, della pace e della guerra. Guardo gli alpini inginocchiati e vedo una devozione di cui non so se io sarò mai capace. Vorrei essere come loro, così belli in quella genuflessione davanti al Santissimo che si fa tanto più ardua e sublime quanto più si addossa alla parete della montagna.
Non c’è intesa tra questi angeli e i demoni che bruciano l’incenso a Pachamama. Il punto di non ritorno è passato ormai da tempo e i demoni li lascio volentieri al loro destino. Ma gli angeli, quelli voglio averli sempre con me. E siccome le mie sono parole poverette, li voglio evocare attraverso quelle con cui Eugenio Corti, nel romanzo Gli ultimi soldati del re, ricorda il sacrificio del suo cappellano. Altra guerra, la Seconda, stessi angeli.
Col buio il Secondo gruppo venne a schierarsi dietro al nostro costone, e noi rientrammo in esso. Il giorno dopo, 9 luglio, domenica, mi destai che il sole era già spuntato: non un colpo, una gran calma regnava e nessuno sembrava curarsi della battaglia in sospeso.
Don Romano, cappellano del reggimento, venne da noi a celebrare la Messa. La seguì l’intero gruppo, con i reparti inquadrati in un campo di stoppie; dalla conca della battaglia e dalla vista di Filottrano ci defilava il solito costone. Luminoso era il sole. E il cielo di un bel azzurro; vividi i colori di tutte le cose.
Il robusto cappellano compì i gesti del Sacrificio davanti all’altare da campo, facendolo traballare ogni volta che, ancora più massiccio per gli spiegazzati paramenti d’oro, lo sfiorava nel muoversi; allora, come al solito, la mano del suo attendente, pronta, lo bloccava.
Sull’altare pochi lini rigidi e due candele con le fiammelle in permanenza orizzontali per lo spirar dell’aria. In noi che assistevamo, il pacifico senso, come sempre, dell’incommensurabile grandezza di ciò che si compie in quel campo di stoppie, tra la terra e il cielo, e la semplicità del luogo, e di quei quattro lini, e del povero calice. Come queste cose fatte di materia si addicessero a contenere la Presenza immateriale. Anche se noi sentivamo di essere, nonostante le nostre miserie, i viscidi peccati della carne, le bestemmie e le idiozie che ci uscivano a volte dalla bocca, vasi contenitori di Dio.
Potevamo muovere con le nostre miserabili mani, per Uno ne aveva acquistato il diritto, leve che andavano oltre gli abissi quesi inimmaginabili delle cose e delle energie: i milioni di anni luce e la somma delle forze dell’universo. Tutto, dentro e fuori di noi, era come tutte le Messe al campo, quella mattina.
Si trattava però dell’ultima Messa del nostro cappellano, che in giornata sarebbe stato straziato a morte. Non poteva saperlo, e nessuno si rendeva conto di quanto egli fosse simile al Cristo che nelle sue mani si sacrificava sull’altare: era simile all’inconscio Agnello mansueto e parato d’oro, che sta per essere sacrificato.
Alessandro Gnocchi Agosto 23, 2019

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