" Socialisti e comunisti si rifanno, oltre che al marxismo, agli “immortali principi” della Rivoluzione francese, e hanno sempre il popolo sulla bocca, i suoi diritti, le sue sacrosante lotte per l’emancipazione e l’eguaglianza; però questo popolo ha un difetto: è stupido, crede ai preti, crede in Dio, si lascia gabbare dai signori, si lascia turlupinare dai padroni." - Francesco Lamendola -
https://www.youtube.com/watch?v=MnJvGTBSfRk
Un video di Marco Cosmo del Decimo Toro. I comunisti si rifanno oltre che al marxismo agli “immortali principi” della Rivoluzione francese e hanno sempre il popolo sulla bocca i suoi diritti e le sue lotte; però questo popolo ha un difetto: è stupido
Il popolo è stupido, per voi?
(La spocchia dei progressisti secondo Francesco Lamendola)
di Marco Cosmo
"Socialisti e comunisti si rifanno, oltre che al marxismo, agli “immortali principi” della Rivoluzione francese, e hanno sempre il popolo sulla bocca, i suoi diritti, le sue sacrosante lotte per l’emancipazione e l’eguaglianza; però questo popolo ha un difetto: è stupido, crede ai preti, crede in Dio, si lascia gabbare dai signori, si lascia turlupinare dai padroni." Articolo di Francesco Lamendola
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Fonte: Il Decimo Toro del 29 Novembre 2019
Ditelo, cari progressisti: il popolo è stupido, per voi?
di Francesco Lamendola
C’è una domanda di fondo, inespressa, ma costante, radicale, ineludibile, che attende una risposta da parte delle élite culturali progressiste: il popolo è stupido? Al fondo del pensiero degli umanisti, degli illuministi, dei positivisti, insomma di tutti i progressisti di ogni tendenza e sfumatura, c’è l’idea che il popolo è sprofondato nell’ignoranza e nella superstizione; che non sa quello che vuole, né sa capire quel che è bene per lui; e che quindi deve essere guidato, deve essere perfino costretto, se necessario, a mettersi sulla giusta strada e a fare quello che è giusto faccia. Ora, i progressisti, per definizione, sono quelli che dicono di avere a cuore le sorti del popolo; sono quelli che denunciano l’egoismo delle oligarchie e proclamano che il liberalismo e la democrazia non sono due ideologie fra le tante, ma l’approdo finale e inevitabile della storia umana; sono anche quelli che, da sempre, accusano i conservatori di disprezzare il popolo, di non pensare a esso e di preoccuparsi unicamente della loro convenienza. Eppure, e ormai la cosa è sotto gli occhi di tutti, i progressisti sono quei signori che, davanti alla globalizzazione, hanno fatto la loro irrevocabile scelta di campo: per la grande finanza, le multinazionali e i poteri forti e contro la sovranità, l’identità e la libera auto-determinazione dei popoli. Eppure, tradizionalmente i progressisti guidano i partiti di sinistra, e i partiti di sinistra chiedono e prendono i voti tra le fasce popolari più modeste, e in particolare nella classe operaia prodotta dalla rivoluzione industriale.
Il popolo è una realtà che sta sparendo? “Popolo” è una parola che si dovrebbe sempre adoperare con cautela e indica per noi quella parte della popolazione che ha conservato un’anima, un’identità e una tradizione, perché è rimasta legata alle proprie radici!
Dunque siamo in presenza di un corto circuito: socialisti e comunisti si rifanno, oltre che al marxismo, agli “immortali principi” della Rivoluzione francese, e hanno sempre il popolo sulla bocca, i suoi diritti, le sue sacrosante lotte per l’emancipazione e l’eguaglianza; però questo popolo ha un difetto: è stupido, crede ai preti, crede in Dio, si lascia gabbare dai signori, si lascia turlupinare dai padroni. E allora bisogna che firmi una cambiale in bianco e si affidi ciecamente, perinde ac cadaver, come direbbe sant’Ignazio di Loyola, a quelli che conoscono i suoi interessi meglio di lui: cioè appunto loro, i signori progressisti, dotati da Madre Natura di una visione più ampia delle cose. Se poi si aggiunge che il popolo è fatto in gran parte da contadini (o lo era, fino agli anni del “miracolo economico”) e da piccoli artigiani, piccoli commercianti e piccolissimi imprenditori, cioè da persone che istintivamente coltivano il sogno egoistico di godersi per sé i frutti del loro lavoro e non vogliono saperne di collettivizzazioni, socializzazioni, statizzazioni, grazie alle quali i fannulloni e gl’incapaci hanno un posto assicurato tanto quanto quelli che sgobbano e lavorano con passione e intelligenza, il quadro diventa ancor più chiaro: del popolo bisogna diffidare, perché, se fosse lasciato libero di andar per la sua strada, certo non sceglierebbe quella del bene comune, ma perseguirebbe dei fini puramente egoistici. E allora addio progresso, addio grandi ideali sociali e addio anche ai nullafacenti (intellettuali compresi) che pretendono di vivere del sudore altrui e addirittura di dettare la linea al popolo. Come faceva un certo Karl Marx, che si faceva mantenere dall’amico Friedrich Engels, il quale, a sua volta, si faceva mantenere coi soldi di papà, abietto capitalista; e intanto metteva incinta la domestica sotto gli occhi della moglie, perché simili comportamenti sono odiosi vizi borghesi solo se praticati dai padroni, mentre se a praticarli sono i progressisti, allora diventano cose perfettamente lecite e normali, e solo degli stupidi bigotti infarciti di pregiudizi potrebbero trovarci qualcosa da ridire.
Ditelo, cari progressisti: il popolo è stupido, per voi? In loro, c’è l’idea che il popolo è sprofondato nell’ignoranza e nella superstizione, che non sa quello che vuole e quindi "deve essere guidato"; costretto, se necessario!
Ma il disprezzo politico degli intellettuali progressisti nei confronti del popolo, disprezzo camuffato e travestito da solidarietà e da piena partecipazione, non è che un aspetto di un disprezzo di ordine assai più vasto: intellettuale, culturale e, diremmo, antropologico. Il popolo crede alle superstizioni, non ha una visione pienamente razionale della realtà, ed è per questo che si lascia abbindolare e sfruttare, è per questo che non sa riconoscere i suoi veri amici e talvolta arriva al punto, veramente scandaloso, di farsi massacrare dai rivoluzionari suoi “amici” per difendere i nobili e i preti: come è accaduto in Vandea, l’anno di grazia 1793 e poi altre cento e cento volte, ad esempio con la rivolta dei Cristeros messicani negli anni ’20 del Novecento. Questa è una cosa che fa schiattare di rabbia gli intellettuali progressisti: valga per tutti il caso di Émile Zola che, volendo scrivere un romanzo contro il culto della Vergine di Lourdes e avendo raccolto la testimonianza di due donne che erano realmente guarite in modo miracoloso, non accettò la realtà dei fatti e volle metterci un finale anticristiano, arrivando a offrire del denaro a una delle due perché se ne andasse lontano e la smettesse di sostenere d’essere guarita dalla sua grave infermità. Questo episodio, fra l’altro, ci riconduce a un aspetto non secondario della psicologia illuminista: progresso sì, razionalismo sì, scienza sì, ma solo se il progresso, la ragione la scienza confermano i suoi assunti irrinunciabili; se invece non li assecondano, o addirittura li smentiscono, allora ecco l’intellettuale progressista chiudersi in un fideismo non certo meno roccioso e tetragono di quello che tanto gli dispiace quando lo vede nei contadini o nelle persone semplici che hanno una viva fede religiosa. Infatti l’intellettuale progressista, cioè il tipico intellettuale moderno, è ateo e irreligioso: logico, visto che la modernità nasce da una rivolta consapevole contro un millennio di civiltà cristiana (che non aveva affatto mortificato la ragione, semmai aveva avuto la “colpa” di mostrare la convergenza fra la via della ragione e quella della fede, come nel più grande filosofo medievale, san Tommaso d’Aquino). Più in generale: l’uomo del popolo sa delle cose che l’intellettuale non conosce, non ammette e delle quali non vuol neanche sentir parlare. Non si tratta solo della religione, ma di tutto il lato spirituale della vita, poiché l’intellettuale moderno è materialista e meccanicista e non tollera che sopravvivano delle sciocche credenze legate a un mondo passato e che bisogna far sparire quanto più in fretta possibile, affinché possano farsi strada i lumi della ragione.
Il grande poeta irlandese William Butler Yeats
Ci sembra illuminante, a questo proposito, una pagina scritta dal grande poeta irlandese William Butler Yeats, nell’introduzione alla seconda edizione della raccolta da lui curata delle fiabe della sua isola natia, Irish Fairy Tales (in : W. B. Yeats, Fiabe irlandesi; titolo originale: Fairy and Folk Tales of Ireland, Colin Smithe Limited, 1973; traduzione dall’inglese di Mariagiovanna Andreolli e Melita Cataldi, Mialno, Fabbri Editori 2001, pp. 10-11):
Spesso le mie parole vengono messe in dubbio quando affermo che la gente nelle campagne irlandesi crede ancora nei folletti. Si pensa che io stia semplicemente cercando di far rivivere qualcosa del bel vecchio mondo scomparso della fantasia in questo secolo di grandi motori e filatoi meccanici. Certamente il ronzio delle ruote e il fracasso delle macchine da stampa, per non parlare dei conferenzieri con le loro giacche scure e i loro bicchieri d’acqua, hanno allontanato il regno dei folletti e fatto tacere i piedi dei piccoli danzatori.
La vecchia Biddy Hart comunque non la pensa così. Delle nostre idee più moderne non si è mai sentito parlare sotto il suo tetto di paglia scura costellato di gialla erba pignola. Non molto tempo è passato da quando, seduto accanto al fuoco di torba, mangiavo una frittella sul pendio di Bendulben e le chiedevo dei suoi amici, i folletti, che abitano la verde collina coperta di rovi, lassù, dietro la sua casa. Con quale convinzione credeva alla loro esistenza! Quanto temeva di offenderli! Per molto tempo non ricevetti da lei altra risposta che: “Io mi faccio sempre i fatti miei e loro si fanno i loro”. Ma due chiacchiere su mio bisnonno che aveva passato tutta la vita nella valle sottostante e qualche parola per ricordarle come io stesso fossi più volte capitato sotto il suo tetto quando non avevo più di sette o otto anni le sciolse la lingua. Sarebbe stato comunque meno pericoloso parlare con me dei folletti che non farlo con qualche “attaccabrighe”, come con disprezzo chiamava i turisti inglesi, poiché io ero vissuto all’ombra dei loro stessi pendii. Non trascurò tuttavia di ricordarmi di dire, dopo aver finito, “Dio li benedica, Giovedì” (eravamo di giovedì) per scongiurare la loro ira nel caso si fossero seccati del nostro interessamento, perché i folletti amano vivere e danzare senza che gli uomini si occupino di loro.
La gente nelle campagne irlandesi crede ancora nei folletti?
Una volta iniziato, continuò a parlare abbastanza liberamente, con la faccia che avvampava alla luce del fuoco mentre si piegava sulla piatta teglia da forno, o smuoveva la torba, e mi raccontò come una tale fosse stata rapita da una località nei pressi del villaggio di Cooney e costretta a vivere sette anni fra i “signori” – così chiama per rispetto i folletti – e come fosse tornata a casa senza più le punte delle scarpe, perché le aveva consumate a furia di ballare; e come, qualche mese prima che io arrivassi, un’altra donna fosse stata prelevata dal vicino villaggio di Grange e obbligata ad allevare il bambino della regina dei folletti. Le sue informazioni sugli esseri fatati sono sempre dirette e dettagliate, proprio come se riferisse un qualunque evento di tutti i giorni: il mercato, o il ballo a Roses lo scorso anno, quando fu data una bottiglia di whiskey al miglior ballerino e un dolce legato con nastri alla miglior ballerina. I folletti sono, per Biddy, persone non molto diverse da lei, soltanto più importanti e belle sotto ogni aspetto. Hanno magnifiche sale e salotti, vi direbbe, come mi è stato raccontato una volta da un vecchio. Attorno a loro ha immaginato tutto lo sfarzo che conosce, anche se non è gran cosa poiché la sua fantasia si accontenta di poco. Quello che a noi non sembra poi tanto meraviglioso è meraviglioso per lei, là dove tutto è così modesto, sotto le travi di legno e il soffitto di paglia rivestito di canovaccio imbiancato a calce. Noi non abbiamo libri e illustrazioni che ci aiutano ad immaginare uno splendido mondo magico d’oro e d’argento, di corone e tessuti meravigliosi: lei ha soltanto quella piccola immagine di San Patrizio sopra il focolare, terrecotte a vivaci colori sulla credenza e il foglio delle ballate infilato dalla figlioletta dietro il cane di pietra sulla mensola del caminetto. È dunque strano se i suoi folletti non hanno le ricchezze fantastiche che voi ed io siamo abituati a vedere nei libri illustrati e di cui si legge nei racconti? Vi dirà di contadini che hanno incontrato la “cavalcata magica” e l’hanno scambiata per quella di un gruppo di contadini come loro, né più né meno, finché non è sparita nell’ombra e nelle tenebre, e di grandi palazzi fatati che erano stati presi per le residenze di campagna di ricchi signori finché non si sono dissolti. Perfino la sua visione del paradiso è altrettanto semplice, e, quando ne avesse l’occasione, descriverebbe i suoi personaggi con la stessa ingenuità della devota lavandaia di Clondalkin, che riferì ad un mio amico di aver avuto la visione di San Giuseppe e che il santo aveva “un bel cappello lucente in testa e un davanti di camicia che non era di certo stato inamidato in questo mondo”.
Per gli intellettuali progressisti del popolo bisogna diffidare! Perché, se fosse lasciato libero di andar per la sua strada, certo non sceglierebbe quella del bene comune, ma perseguirebbe dei fini puramente egoistici. E allora addio progresso, addio grandi ideali sociali e addio anche ai nullafacenti (intellettuali compresi) che pretendono di vivere del sudore altrui e addirittura di dettare la linea al popolo! Come faceva un certo Karl Marx, che si faceva mantenere dall’amico Friedrich Engels, il quale, a sua volta, si faceva mantenere coi soldi di papà!
Ora, non è importante, in questa sede, quale sia la nostra opinione sull’esistenza o meno delle fate e dei folletti; e neppure su ciò che di quel mondo pensasse veramente William Butler Yeats; anche se, a quest’ultimo proposito, ci sembra che il poeta irlandese centri solo in parte il bersaglio quando nota che quello che a noi non sembra poi tanto meraviglioso è meraviglioso per lei, là dove tutto è così modesto: perché il segreto della meraviglia non è nella semplicità della vita materiale, ma nella semplicità dell’animo, ed evidentemente quello della signora in questione era incantato come quello di un bambino. Ciò che importa, qui, è vedere se le credenze popolari nel mondo dell’invisibile, nel lato immateriale dell’esistenza, meritino tutto il disprezzo che gl’intellettuali progressisti riservano ad esse, oppure no: fermo restando che tali credenze non sono qualcosa di marginale, ma parte essenziale della vita interiore delle persone del popolo. A proposito, precisiamo qui che “popolo”, una parola che si dovrebbe sempre adoperare con cautela, indica per noi quella parte della popolazione che ha conservato un’anima, un’identità e una tradizione, perché è rimasta legata alle proprie radici, anche in senso fisico (la casa, il paese o il quartiere) e non ritiene che il denaro e i beni materiali rappresentino il proprio orizzonte esistenziale. In questo senso il popolo è una realtà che sta sparendo; e tuttavia la sua sopravvivenza è forse più tenace di quel che non appaia a prima vista, e s’ingannano gli intellettuali progressisti nel considerarlo già sparito e pronto ad essere sostituito da masse indifferenziate di consumatori e contribuenti, prese all’amo con l’esca dei diritti civili e intanto spogliate sia dei loro beni materiali, sia della loro più profonda dignità di persone.
I progressisti sono quei signori che, davanti alla globalizzazione, hanno fatto la loro irrevocabile scelta di campo: per la grande finanza, le multinazionali e i poteri forti e contro la sovranità, l’identità e la libera auto-determinazione dei popoli!
Un contadino che conosce la terra, un artigiano che conosce bene i suoi attrezzi, un commerciante che ama il suo lavoro, e tutti quelli che sentono la famiglia come il luogo più importante di tutti, la famiglia formata da un uomo, una donna e dei bambini e non le cosiddette famiglie arcobaleno, ebbene tutti costoro sono “popolo” nel senso più autentico della parola. Il vero uomo del popolo è ignorante quanto a sapere libresco ed è sprovvisto di titoli di studio, però possiede una profonda saggezza di vita appresa in gran parte dall’esempio dei suoi avi, dal contatto con la terra, col lavoro, con le cose concrete e anche con le spirituali, ad esempio perché da bambino la nonna lo portava in cimitero e gli parlava della morte come di un passaggio. Il vero popolano non ritiene superstizione porre un bicchiere d’acqua sul tavolo della cucina affinché le anime purganti, la notte dei Defunti, possano dissetarsi. E se l’intellettuale moderno crede che lo sia, ebbene, quello è un suo problema…
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