La foga riformista del modernismo teologico e pastorale fa dimenticare ai penitenti cosa Dio chiede loro: non il rinnovamento delle strutture, ma del cuore e della mente. Di seguito, qualche appunto su una dottrina oramai dimenticata e sostituita dall’ideologia del paradigma.

 
Il modernismo, specialmente quello teologico, continua ad equivocare il senso della «novità» evangelica, facendo coincidere il concetto di «nuovo» come opposto a quello di «antico». E dunque l’agire e il parlare del clero ruota ormai attorno ad una terminologia stereotipata, ripetuta in maniera martellante.
Sembra che l’unico motivo d’esistenza della Chiesa sia quello di realizzare tutto ciò che è pensato come un sinonimo del «nuovo»: «cambiamento», «rinnovamento», «riforma», «aggiornamento», «cambio di paradigma» e simili.
L’equivoco nasce da una presunzione. Il teologo moderno o modernista presume di poter condurre un’esegesi del Testo Sacro a prescindere dall’interpretazione che ne danno i Padri e i Dottori della Chiesa. Tra i testi del Nuovo Testamento, si potrebbe citare quello dell’Apocalisse (21, 5): «E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” […]» – «Et dixit, qui sedebat super throno: “Ecce nova facio omnia” […]». Laddove l’aggettivo latino «novus» traduce il greco «kainós», che significa, tra l’altro, «nuovo», «inaudito».
Non è sufficiente questo versetto per capire il senso del «nuovo», ma occorre aggiungerne altri. San Tommaso d’Aquino, ad esempio, cita San Paolo: «[…] le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5, 17). A sua volta, San Paolo s’ispira a Levitico 26, 10: «[…] dovrete metter via il raccolto vecchio per far posto al nuovo».
Cosa sono, allora, le cose vecchie da buttare e le cose nuove da ritenere? San Tommaso, nel Commento alla II Lettera ai Corinzi (c. V, 193), spiega che le cose vecchie sono «i precetti legali», «gli errori del Gentili» e «i vizi». I precetti legali, beninteso, nel senso della rinuncia al peccato e a ogni ermeneutica legalistica del Decalogo. Gli errori dei Gentili, in particolare, attengono alla seduzione che danno le cose mondane (compresi gli idoli), le quali fanno dimenticare i mali e i beni futuri (inferno e paradiso).
Quanto poi ai vizi, San Tommaso afferma che «le virtù contrarie a questi vizi devono essere in noi rinnovate». Come è facile comprendere, le cose nuove di cui parla San Tommaso non hanno nulla a che vedere con la riforma delle istituzioni ecclesiastiche, con gli aggiornamenti della dottrina o altre banalità del genere. Il rinnovamento di cui parla la Scrittura è attinente all’«uomo nuovo» paolino, cioè l’uomo peccatore e pentito, che abbandona la via della morte e aderisce alla via della vita.
Il rinnovamento non è il superamento di un qualche costume o dottrina, ma è la rinascita morale dell’uomo nello Spirito. L’uomo vecchio non è l’uomo del passato, in senso materiale e temporale, ma è l’uomo peccatore, vizioso. L’uomo nuovo, al contrario, è il convertito, colui che è docile alla dottrina e all’esempio del Cristo. L’uomo nuovo non è certo il disobbediente o colui che sovverte l’insegnamento di Dio.
Che si debba abbandonare lo schema temporale progressista, secondo cui il male è il passato e il bene è l’avvenire, lo dimostra Sant’Agostino d’Ippona, nel De civitate Dei (l. XX, c. 4). Il Dottore interpreta il passo di Mt 13,52: «Lo scriba divenuto istruito nel regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo forziere cose nuove e cose vecchie». L’evangelista Matteo – osserva Sant’Agostino – «non ha detto: “Cose vecchie e cose nuove”; e l’avrebbe detto se non avesse preferito rispettare l’ordine dei valori anziché i tempi».
E dunque il Gesù di Matteo dice: «Cose nuove e cose vecchie», per dire non solo che anche le cose vecchie sono necessarie, ma che l’ordine dei tempi è nulla rispetto all’ordine dei valori, che è un ordine morale, non temporale.
In questo caso le cose vecchie e nuove sono gli elementi della Rivelazione, che non possono essere cancellati, poiché fanno parte della tradizione, israelitica prima e apostolica poi. Qua il fanatismo legato alla continua tensione per il rinnovamento di strutture e istituzioni è del tutto fuori luogo. Così anche la ricerca maniacale di nuovi paradigmi e cambiamenti non tiene in alcun conto il dato della Rivelazione.
Il dato della Rivelazione è orientato, piuttosto, ai Novissimi – dove il termine è una traslitterazione del latino «novissima», che traduce il greco «éschata», ovvero le «cose ultime». E le cose ultime, anche in questo caso, non hanno nulla a che fare con gli eventi della storia, con i cambiamenti o con le riforme. I Novissimi, al contrario, sono realtà soprannaturali e trascendenti: morte, giudizio, inferno e paradiso.
Se c’è una riforma che ha un senso, è solo quella del cuore e della mente, per cui il penitente abbandona la mentalità del mondo, il peccato e la via del vizio. È vero, inoltre, che il magistero – attraverso i concili, ad esempio – tratta dei problemi della storia, ma non è (o non dovrebbe essere) ossessionato dalla riforma continua delle strutture, come se il suo compito fosse solo di occuparsi del cambiamento in perpetuo.
Ben altro che la struttura storica aveva in mente Isaia (43, 18-19), quando proruppe nella seguente profezia:
«Non ricordate più le cose passate,
non considerate più le cose antiche:
Ecco, io sto per fare una cosa nuova; essa sta per germogliare;
non la riconoscerete?
Sì, io aprirò una strada nel deserto,
farò scorrere dei fiumi nella steppa».
Le cose antiche sono l’Egitto, la schiavitù del peccato, la disobbedienza, la superbia. La cosa nuova è la dottrina inaudita del Cristo e la sua presenza tra noi penitenti.
di Silvio Brachetta