Come era stato preannunciato da tempo e ribadito in diverse occasioni (ultimamente, alla fine dello scorso gennaio, nel corso del Forum internazionale di Teologia svoltosi a Roma), dalla prima domenica d’Avvento di quest’anno diventarà ufficiale nel testo della Messa la nuova traduzione del Padre Nostro: in luogo di «non indurci in tentazione» saremo tenuti a dire «non ci abbandonare alla tentazione».
Ecco il parere del prof. Moreno Morani, uno dei più autorevoli linguisti italiani. 
Vangelo


Come era stato preannunciato da tempo e ribadito in diverse occasioni (ultimamente, alla fine dello scorso gennaio, nel corso del Forum internazionale di Teologia svoltosi a Roma), dalla prima domenica d’Avvento di quest’anno diventarà ufficiale nel testo della Messa la nuova traduzione del Padre Nostro: in luogo di «non indurci in tentazione» saremo tenuti a dire «non ci abbandonare alla tentazione». Su questo cambiamento si sono lette e sentite moltissime prese di posizione, in senso positivo o negativo, dai media agli organi di stampa ai social. Vorrei aggiungere una breve riflessione da parte di un linguista, la categoria che, credo, è stata la meno interpellata di tutte, benché avesse più di molte altre titolo per dire la propria, essendo il problema in discussione soprattutto un problema di traduzione.

Il cambiamento non è propriamente una novità. La nuova formulazione si trova già nella versione della Bibbia approvata dalla CEI nel 2008: la versione CEI precedente, del 1974, manteneva la forma tradizionale «non ci indurre in tentazione». Quindi il Messale semplicemente recepisce un cambiamento avvenuto (e passato sotto silenzio) una dozzina di anni fa, e la discussione dovrebbe coinvolgere una questione molto più ampia, la validità dell’ultima versione CEI della Bibbia: ma sarebbe un discorso troppo ampio, e qui ci concentreremo solamente sulla formula che ci interessa.
Le traduzioni possono cambiare nel tempo, adeguandosi al mutare delle lingue e dei gusti. Esse sono comunque sempre a servizio del testo, e il loro fine è quello di aiutare il lettore che non è in grado di leggere un testo scritto in una lingua non conosciuta a superare lo schermo che gli impedisce di accedere al testo stesso. La traduzione deve essere nella lingua del lettore e deve aiutarlo a capire il testo in modo diretto. Una traduzione in un italiano antiquato o astruso non assolverebbe pienamente il suo compito, perché non eliminerebbe del tutto lo schermo che impedisce l’accesso al testo: nessuno ricorrerebbe a una traduzione del XVI o XVII secolo per leggere la Bibbia o un altro autore. Il traduttore non deve mai sostituirsi all’autore, bensì seguirlo adeguandosi alle sue scelte: la traduzione sarà più libera o più aderente al testo originale, ma sempre, per definizione, fedele. Il traduttore non può far prevalere i suoi gusti o le sue inclinazioni ideologiche sul testo che ha il dovere di riprodurre in tutti i suoi aspetti. Le traduzioni sono strumenti, ma strumenti speciali, con caratteristiche che non possono esse travalicate, perché altrimenti abbiamo delle parafrasi, delle libere interpretazioni, dei rifacimenti, degli adattamenti e via dicendo. Tutto questo vale a maggior ragione per le traduzioni della Bibbia, dove naturalmente nessuna di queste soluzioni sarebbe accettabile. San Gerolamo, grande filologo e studioso che dedicò molta parte della sua vita alla traduzione della Bibbia, scrive nella lettera all’amico Pammachio (epist. 57) che nella sua pratica di traduttore si è sempre comportato con una certa libertà nei confronti degli autori che traduceva, ma nel caso della Bibbia il metodo da seguire è diverso, e occorre mantenere un rispetto assoluto per il testo che si traduce, perché la Bibbia è Parola di Dio, nella quale anche l’ordine della parole è un mistero (et verborum ordo mysterium est).
Nel passo in esame (che si trova in Mt. 6, 13 = Lc. 11, 14) la versione latina di Gerolamo (la cosiddetta Vulgata) presenta la resa ne nos inducas in temptationem (Luca) o ne inducas nos in temptationem (Matteo). A questo testo si rifanno, con poche variazioni, quasi tutte le traduzioni italiane, a partire dalla traduzione di Malermi (1471) fino alle traduzioni attuali. Le traduzioni corrispondono in genere, fatte salve le varietà legate agli usi linguistici differenti, alla traduzione finora corrente, «non indurci in tentazione». Solo in un numero limitato si hanno soluzioni diverse (per esempio non ne lasciar cascar in tentazione traduzione di Massimo Teofilo, 1551). A sua volta Gerolamo aveva fedelmente ricalcato il testo greco originale. Con inducas aveva reso un verbo greco (εἰσενέγκηῃς) che vale letteralmente ‘portare dentro (o verso)’ (‘bring on or upon, introduce’ suggerisce il più autorevole vocabolario di greco oggi a disposizione, il Liddel-Scott): questo, e solo questo, era il significato del verbo che troviamo nel testo originale dei Vangeli: e questo è anche l’unico valore che si ha sia nei testi letterari sia nei testi non letterari dell’epoca, i papiri che spesso ci offrono informazioni importanti sul significato e l’uso di parole che ricorrono anche nei testi biblici. Per il sostantivo Gerolamo usa un termine che ha una notevole diffusione nel latino dei cristiani, temptatio. Nel latino dei pagani la parola, di uso raro, aveva un senso solo attivo: temptatio valeva ‘provocazione, macchinazione ordita per confondere o ingannare’, in linea col senso del verbo da cui deriva, temptare, che valeva ‘provocare, ordire macchinazioni’, Nel linguaggio medico temptatio è l’assalto della malattia. Nel latino cristiano temptatio assume valore anche passivo: non è più soltanto l’azione del provocare, ma è anche la situazione di chi viene messo alla prova, un valore nuovo che la parola assume già nel testo evangelico («Vegliate e pregate per non entrare in tentazione» Mc. 14, 38 = Mt. 26, 41 = Lc. 22, 46). Il valore attivo si è però mantenuto in molti testi antichi, tanto che la prima edizione del Vocabolario della Crusca (1612) conferisce ancora alla parola il valore di ‘prova, cimento’. Nella storia successiva della parola il sostantivo tende sempre più a distanziarsi dal verbo, e mentre tentare ha assunto un valore neutrale (‘fare una prova, fare un tentativo’), in tentazione si sono accentuati i valori morali negativi, al punto che i parlanti hanno dovuto creare un altro derivato, tentativo, per esprimere una gamma di valori che tentazione non possiede.
Nell’uso attuale della parola, in tentazione prevale in modo netto, se non addirittura esclusivo, il valore passivo: tentazione è la condizione di chi viene tentato (ho la tentazione di fare qualcosa di proibito), non l’azione di chi tenta un altro. Contemporaneamente, anche indurre si è allontanato dal suo valore neutrale originario (‘portare verso o dentro’) per restringere il proprio uso solamente a espressioni negative (indurre al delittolo indusse a sbagliare). Questo ha fatto percepire in modo sempre più netto l’opportunità di operare un cambiamento della traduzione corrente. Purtroppo sul metodo e sulla correttezza del risultato vi sarebbe molto da dire, e la traduzione oggi proposta, anziché rendere più chiaro al lettore il senso della frase, rischia di suggerirgli una lettura parziale e di portarlo fuori strada.
Ciò che ha condotto a una soluzione quanto meno discutibile è innanzitutto il bisogno di eliminare dal testo una possibile interpretazione distorta, che presenti Dio come tentatore. Per la verità la questione della corretta interpretazione del passo si è posta fin dai tempi dei primi autori cristiani. Già nel II secolo in un trattato dedicato alla preghiera (de oratione) Tertulliano, commentando questo passaggio, afferma: «ne nos inducas in temptationem, cioè non lasciare che vi siamo condotti da colui che tenta. Ci si guardi dal pensare che Dio ci tenta, quasi che ignorasse la fede di ognuno oppure operasse a rovinarlo. La debolezza e la malvagità è del diavolo». Agostino, in un’opera espressamente dedicata all’esegesi del Padre Nostro (de oratione dominica) ci fa sapere che già ai suoi tempi alcuni «nel pregare dicono così: non permettere che siamo indotti in tentazione (ne nos patiaris induci in temptationem». Si tratta evidentemente di puntualizzazioni e di soluzioni limitate nel tempo, tanto da far ritenere superfluo, nei secoli successivi, il ricorso a un ritocco della traduzione divenuta ormai canonica.
Ma va fatta un’altra considerazione. Nella versione della Bibbia CEI si è voluto proporre un cambiamento del testo partendo dalla versione latina di Gerolamo anziché rifarsi direttamente al testo originale. Purtroppo questo è un malinteso che appare anche in molte traduzioni italiane attuali della Bibbia, che spesso ostentano in copertina la dizione “versione dai testi originali”, mentre in realtà si rifanno il più delle volte al latino di Gerolamo (se non addirittura a versioni italiane antecedenti). Se si fosse saltato a piè pari Gerolamo, e ci si fosse rifatti direttamente al testo originale greco, il problema si sarebbe potuto risolvere più facilmente. Una traduzione strettamente letterale del testo greco darebbe «non portarci verso la prova»: il sostantivo che troviamo nel testo greco è peirasmós, che vale genericamente ‘prova, esperimento’, e non ha le risonanze che sentiamo oggi in tentazione, come appare p.es. da Sirac. 27, 7 «Non lodare nessuno prima che abbia parlato, poiché questa è la prova (peirasmós) degli uomini». Si poteva quindi tradurre semplicemente ‘non portarci verso la prova’, o, ancora meglio, ‘non metterci alla prova’, senza evocare l’immagine, questa sì inaccettabile, di un Dio che potrebbe abbandonarci e lasciarci andare verso il naufragio.
Avendo lo sguardo puntato sulla versione di Gerolamo, si è scelto di operare sul verbo, optando per la via più tortuosa, quando si sarebbe potuto operare, in modo più diretto, sul sostantivo, cosa che avrebbe condotto a una soluzione più trasparente e probabilmente più aderente al testo evangelico. Resterebbero poi da spiegare le ragioni che hanno di fatto portato a un testo che non è più una traduzione, ma al massimo un’interpretazione. La preoccupazione essenziale, sicuramente condivisibile, sembra quella di non far passare una possibilità di lettura scorretta: sicuramente però la soluzione è andata ben oltre l’intenzione, e la preoccupazione teologica ha finito per prevalere sulla correttezza della resa. Non indurci in tentazione è stata la formula usata per secoli di storia ecclesiastica in modo pressoché unanime senza che ciò procurasse effetti nefasti. Inoltre, per evitare che nel popolo di Dio si diffonda una lettura scorretta, basterebbe una catechesi puntuale e capillare circa l’esatto significato di questo passaggio. Certo, un’edizione stampata della Bibbia può precisare l’esatto significato di un passaggio difficile facendo ricorso a note, apparati, integrazioni in carattere diverso, cosa che una lettura pubblica in una chiesa non può fare: ma basterebbe una sana educazione del popolo di Dio, per esempio attraverso omelie e tutti gli strumenti stampati o mediatici di cui la Chiesa oggi può disporre, per ribadire la corretta interpretazione del passo. Vale la pena ricordare che «nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio» (2 Pe 1:20-1), e quindi è compito dei pastori e di chi guida la comunità cristiana mettere in luce l’esatto significato delle parole bibliche (non cambiandole, ma spiegandole) ed è dovere del fedele ascoltare e farsi guidare. Per dirimere ogni possibilità di falsa interpretazione bastava appellarsi al seguente passaggio della lettera di Giacomo (1, 13): «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno». Parole chiare e perentorie che non lasciano spazio a dubbi, ed è interessante che nel testo greco originale si trovi qui una parola che non viene usata in nessun altro passaggio della Bibbia e che, definendo Dio come ‘non-tentabile’ (ape­íratos), crea un’immagine suggestiva e potente, che nella traduzione italiana sfuma e perde molto del suo vigore.

di Moreno Morani