Un libro pubblicato da un dipendente della Conferenza episcopale italiana, che si dichiara ispirato all’Amoris laetitia di Papa Francesco, suggerisce un approccio alla cura pastorale che richiede un cambiamento della dottrina della Chiesa sull’omosessualità.
Alejandro Bermudez ne parla nel suo articolo pubblicato sul Catholic News Agency (CNA) e che vi propongo nella mia traduzione.  
Luciano Moia, giornalista di Avvenire
Luciano Moia, giornalista di Avvenire


Un libro pubblicato da un dipendente della Conferenza episcopale italiana, che si dichiara ispirato all’Amoris laetitia di Papa Francesco, suggerisce un approccio alla cura pastorale che richiede un cambiamento della dottrina della Chiesa sull’omosessualità.
Il libro “Chiesa e Omosessualitá, Un’inchiesta alla luce del magistero di papa Francesco” è stato pubblicato in Italia, poco dopo la pubblicazione in Austria di un libro che considera come le coppie omosessuali possano ricevere una benedizione formale e liturgica della loro unione nella Chiesa cattolica. Il libro austriaco è stato pubblicato in risposta a una richiesta del comitato liturgico della Conferenza episcopale austriaca.
Il libro italiano è stato scritto da Luciano Moia, da tempo redattore di un inserto mensile del giornale ufficiale cattolico della Conferenza episcopale italiana, L’Avvenire.
Il libro comprende una prefazione di Marco Tarquinio, direttore de L’Avvenire e un’intervista/prologo del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna.
Accanto all’a posizione di Moia sull’omosessualità nel primo capitolo, il libro include le interviste di 12 “esperti”, di diverso livello professionale e di credibilità, sul tema della cura pastorale delle persone con la stessa attrazione sessuale, tutti intervistati da Moia nel 2018 e nel 2019.
Il libro comprende anche un capitolo intitolato “Io, omosessuale credente, vi dico che…”. 
Quel capitolo è stato scritto da Gianni Geraci, portavoce di un conglomerato di gruppi LGBT in Italia. 
Nell’introduzione del testo, Tarquinio spiega che il libro si propone di offrire testimonianze, come risorsa di accompagnamento pastorale, e “un contributo equilibrato e costruttivo al dibattito in corso nella Chiesa, secondo le indicazioni emerse dagli ultimi sinodi dei vescovi e dalle parole del papa”.
Il libro offre “una proposta per riflettere e, se possibile, capire un po’ meglio, una condizione umana in cui la ricerca di senso si accende e la questione di Dio risuona come in ogni altro”, aggiunge.
Ma nel primo capitolo, Moia indica che l’intenzione del libro è quella di proporre un cambiamento nell’antropologia cristiana, un passo che richiederebbe cambiamenti teologici e dottrinali rispetto agli insegnamenti della Chiesa sull’omosessualità, come delineati nel Catechismo della Chiesa Cattolica o nella Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla Pastorale delle Persone Omosessuali, che non è citata da Moia.
Moia affronta il tema della castità tra coppie dello stesso sesso, suggerendo un’analogia con la castità coniugale.
“Un esempio tra tanti”, scrive Moia, affrontando i temi in questione: “Quando si parla del dovere di castità, cosa si intende? Rispetto, fedeltà e impegno all’aiuto reciproco nella relazione o astinenza assoluta?”
“Abbiamo sempre molto chiara la distinzione tra castità e continenza”, chiede.
Moia stabilisce un’analogia tra le relazioni omosessuali e il matrimonio stesso.
“I problemi, già complessi all’interno del matrimonio e per le coppie eterosessuali, [sono] terribilmente più aggrovigliati quando la coppia, anche se stabile e fedele… è omosessuale. In questo caso sarebbe scontato intendere la castità come una preclusione di qualsiasi rapporto sessuale. ‘La dottrina parla chiaro’, dicono coloro che usano le norme come pietre da scagliare nella vita delle persone. Sì, ma quali norme?”
Moia sostiene che il significato della castità, tra le altre questioni, è aperto al dibattito, perché è stato menzionato nelle bozze provvisorie dei due Sinodi della Famiglia, anche se non affrontato da Amoris Laetitia.
“Forse il desiderio di leggere la questione da una lente diversa, di aprire il dibattito, di ascoltare la prospettiva della base potrebbe essere il risultato prevalente, nella convinzione che ‘non tutte le discussioni di questioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero’. (AL 3.)”.
Moia evidenzia anche come esempio acuto di cura pastorale per le persone dello stesso sesso il capo dell’arcidiocesi italiana di Gorizia, l’arcivescovo Carlo Redaelli, protetto del defunto cardinale gesuita Carlo Maria Martini.
Nel 2017, il leader locale dell’Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani (AGESCI) Marco Di Just, ha “sposato” il suo partner dello stesso sesso nel luglio 2017 con una cerimonia civile.
Una polemica è iniziata quando il parroco di Di Just, don Francesco Fragiacomo, ha chiesto a Di Just di dimettersi dalla sua posizione di leadership nel gruppo scout cattolico. Il pastore disse che non era l’orientamento di Di Just, ma lo scandalo della sua unione pubblica omosessuale, che non poteva essere accettato dalla Chiesa.
“Dopo la cerimonia, sono andati al parco del villaggio e si sono baciati davanti a tutti. Forse un po’ di sobrietà non avrebbe fatto male. Lo ripeto: una cosa è, come Chiesa, essere accogliente, un’altra è rendere normale ed esaltare qualcosa che è al di fuori del magistero della Chiesa”, ha detto don Fragiacomo in un’intervista alla rivista cattolica Famiglia Cristiana, condotta quattro mesi dopo che la questione ha cominciato ad attirare l’attenzione dei media.
“Il vescovo mi ha detto di non creare tensioni e di non suscitare polemiche, forse era preoccupato per l’opinione pubblica. Secondo me, la questione avrebbe potuto essere risolta quattro mesi fa, con una telefonata alle autorità regionali dell’AGESCI, e all’assistente diocesano, e una tranquilla discussione della questione. Non mi piace sollevare la questione, non ne ho mai parlato in pubblico; ho solo scritto una riflessione nel bollettino parrocchiale”, ha detto Fragiacomo.
Il parroco ha spiegato che è impegnato nella cura pastorale degli uomini che si identificano come gay: “Cammino con loro, ascolto le loro confessioni, li consiglio come un buon pastore deve fare. L’orientamento sessuale è una cosa. Un’altra è ostentare, andare a vivere insieme, fare tutto pubblicamente contro il magistero della Chiesa. In questo caso, è in gioco il ruolo di una guida dei giovani, che è molto complicato”.
Le cose sono diventate particolarmente polemiche perché il viceparroco della parrocchia, don Genio Biasiol, ha sostenuto Di Just e ha partecipato alla cerimonia civile “sia come sacerdote che come amico della coppia”.
Nel mezzo alle polemiche, i sacerdoti e i parrocchiani di Staranzano si rivolsero all’arcivescovo Redaelli aspettandosi da lui la soluzione della questione. L’arcivescovo impiegaò più di quattro mesi per rispondere. Quando lo fece, pubblicò una lunga lettera che chiedeva “discernimento” e “pazienza”.
“La nostra diocesi è stata oggetto di attenzione, anche a livello nazionale, per l’episodio di Staranzano. Come è stato evidente, finora ho preferito non intervenire a questo proposito né a nome mio né a nome della diocesi, e ho anche invitato gli interessati ad evitare dichiarazioni e a non prestarsi alle amplificazioni richieste dai media. Tuttavia, ora ritengo opportuno offrire alcune riflessioni dal punto di vista del discernimento pastorale sia al consiglio presbiterale che al consiglio pastorale diocesano. Spero che i criteri che indicherò possano essere applicati al caso concreto con calma, rispetto e discrezione nei confronti di tutte le parti coinvolte”.
L’arcivescovo rinunciò a qualsiasi responsabilità di prendere una decisione, scrivendo: “Molto tempo (deve essere preso) anche dall’AGESCI e da altre realtà ecclesiali di carattere educativo che devono affrontare nuove questioni, come la necessità di proporre oggi certi valori con un approccio diverso rispetto al passato o anche di dover pensare alla formazione e all’accompagnamento dei propri educatori, che talvolta fanno scelte personali, soprattutto in termini di affetti, che fino a poco tempo fa erano quasi impensabili o comunque erano percepiti come palesemente incompatibili con il loro compito”.
“Insisto”, aggiungeva la lettera, “affinché queste organizzazioni ecclesiali facciano il necessario discernimento e giungano ad alcune decisioni condivise e sagge, per non sfuggire alla mia responsabilità di pastore (che, peraltro, condivido con i sacerdoti, i diaconi e i cristiani più impegnati, come i membri del consiglio pastorale diocesano), ma per evitare che il mio pronunciamento possa essere visto come un intervento “autoritario” dall’alto e quindi accettato “con la forza”, e non come un aiuto per discernere e compiere la volontà di Dio, o usato quasi come alibi per salvare le parti interessate in chiesa dalle fatiche e dalla positività di un percorso di discernimento non facile. ”
L’arcivescovo, insomma, decise di non agire, ma la questione si risolse da sola: nell’agosto 2018, don Fragiacomo è stato riassegnato dall’arcivescovo Redaelli da Staranzano alla città di San Canzian d’Isonzo, dove è diventato parroco di cinque parrocchie.
Nel frattempo, Marco Di Just è rimasto nella sua posizione di capo del gruppo scout di Staranzano.
Prima di lasciare la sua parrocchia, don Fragiacomo ha riflettuto sulla controversia e su come era stato trattato da Redaelli e da alcuni confratelli: “Che fiducia posso avere dei miei confratelli che nel momento delle difficoltà invece di essere vicini e solidali sono assenti, lontani o addirittura contrari. Invece di essere in sintonia con il messaggio del Vangelo, sono in completa dissonanza con dottrine, pratiche, metodi e stili completamente diversi”.
E ancora: “Invece di sostenermi in un caso scandaloso che compromette seriamente un messaggio educativo positivo verso i giovani, essi minimizzano superficialmente, ti accusano, ti sparano alle spalle o ti prendono in giro pubblicamente sui giornali nazionali, trattandoti come fossi un  ‘giovane parroco’”.
La fine del suo post è diretta: “Ora mi chiedo: che razza di Chiesa è questa? Che cosa offre? Quali grandi ideali presentiamo ai giovani?”
Secondo Moia, questo episodio controverso “merita di essere ricordato con un po’ di respiro perché esemplifica la difficoltà a cui sono chiamate le comunità cristiane nel tentativo di capire, riflettere, decidere come accogliere e integrare l’amore omosessuale”.
Moia commenta entusiasticamente la risposta di Radaelli: “…l’arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli, ha buttato fuori tutti. Ha rifiutato il ruolo di giudice, non ha assolto ma non ha nemmeno condannato. Ha invitato la comunità a riflettere insieme per capire se, anche da un avvenimento così divisivo, si possono ricevere aspetti di grazia. Un intervento alla ricerca della moderazione e di quell’invito ad accogliere, discernere e integrare che impregna il magistero di papa Francesco”.
“Come emerge chiaramente dalla lettera-capolavoro dell’arcivescovo di Gorizia” – scrive Moia – “nessuno ha preconcetti, nessuno è in grado di rivelare, con il colpo di bacchetta magica, soluzioni capaci di superare secoli di paure, pregiudizi e chiusure certamente lontane dallo spirito del Vangelo”.
Da parte sua, don Fragiacomo ha messo in dubbio la saggezza dell’arcivescovo elogiato da Moia, soprattutto perché ha informato l’arcivescovo della situazione di Di Just quattro anni prima della controversa cerimonia civile: “Marco Di Just è da tempo capogruppo e capogruppo AGESCI, guida un gruppo di venticinque adolescenti dai 16 ai 18 anni. Vive con il suo compagno da nove anni e lo scorso febbraio ha fatto ‘outing'”, ha detto nel 2017.
“Quattro anni fa ho riferito la situazione all’arcivescovo di Gorizia, l’arcivescovo Carlo Maria Redaelli, per sapere se questo ragazzo poteva contare su un accompagnamento spirituale, visto il delicato ruolo di educatore che svolge. Nessuno mi ha risposto. Il messaggio educativo che passa ai ragazzi è che l’incontro con un uomo è normale. Come educatore è un buon leader, dal punto di vista della fede, tutto il gruppo scout ha molte carenze perché, di fatto, non esiste un vero e proprio percorso di (formazione nella) fede. Lo so perché mio nipote ne fa parte”. [ha detto don Fragiacomo]
Dopo aver sostenuto Radealli come modello di leadership pastorale, Moia si rivolge al più grande studio finora condotto sulla base genetica dell’omosessualità, pubblicato il 29 agosto sulla rivista Science e basato sui genomi di quasi 500.000 persone negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Lo studio, sostiene, dimostra una predisposizione biologica all’omosessualità.
“Nessuno in sostanza ‘sceglie’ se diventare omosessuale o eterosessuale”, scrive. 
Ma la sua conclusione è l’opposto di ciò che lo studio conclude in realtà, secondo la rivista Nature: “Non c’è nessun gene gay”, dice l’autore principale dello studio, Andrea Ganna, genetista del Broad Institute of MIT e di Harvard a Cambridge, Massachusetts. Ganna e i suoi colleghi stimano che fino al 25% del comportamento sessuale può essere spiegato dalla genetica, mentre il resto è influenzato da fattori ambientali e culturali – una cifra simile ai risultati di studi minori”.
Moia chiude il suo capitolo con la speranza che le sue riflessioni abbiano fornito un modello di cura pastorale.
“Se, grazie a queste riflessioni, sarà un po’ meno difficile offrire una proposta pastorale più serena e più efficace a persone che vivono una sessualità ‘diversa’ e che finora, in molte situazioni, si sono sentite lasciate ai margini della comunità, avremo portato il nostro piccolo seme, di servi inutili, alla costruzione di una Chiesa più accogliente e più autenticamente evangelica”.
Prima di presentare le 12 interviste, il libro offre una serie di “citazioni” di Papa Francesco relative all’omosessualità. La raccolta include diverse dichiarazioni non supportate da prove, tra cui la dichiarazione del cileno Juan Cruz, sopravvissuto agli abusi, secondo cui Papa Francesco “accettò” la sua omosessualità, e un resoconto dell’America Magazine (la rivista dei gesuiti americani, ndr) di Padre James Martin sul suo incontro con Papa Francesco il 30 settembre 2019; un resoconto che è stato contestato da alcuni vescovi statunitensi.
“Va anche detto che le parole del Papa sono state spesso fraintese, manipolate, molto spesso lette fuori contesto, per attribuire loro diverse interpretazioni in base all’opinione di chi le ha riportate. Proprio per offrire l’opportunità di farsi un’idea obiettiva, non ‘orientata’, abbiamo messo insieme, senza commenti, una breve raccolta delle frasi di Francesco sull’omosessualità”, ha scritto Moia per spiegare l’uso che il libro fa di quelle citazioni.
“La differenza di profondità e credibilità tra ciò che il Papa ha pronunciato durante i viaggi ufficiali e riportato sul sito web vaticano e ciò che, invece, hanno raccontato i vari interlocutori che riportano le parole di Francesco pronunciate durante gli incontri privati è evidente. Abbiamo scelto di dare spazio a queste testimonianze, almeno a quelle più credibili, perché rappresentano comunque un contributo utile per ‘farsi un’idea’”.
Tra coloro che offrono una testimonianza personale nel libro c’è Gianni Geraci, che si è unito al gruppo Il Guado – una versione italiana dell’organizzazione statunitense “Dignity” – fondato da don Dominco Pezzini, sacerdote della diocesi di Lodi, che nel 2010 è stato condannato a 10 anni di carcere per l’abuso sessuale seriale di un minorenne immigrato del Bangladesh.
“Il problema è che siamo ancora troppo pochi: dovrebbero esserci migliaia di credenti omosessuali che, finalmente, trovano il coraggio di dire nelle parrocchie e nelle comunità dove lavorano: ‘Qui. Noi che siamo i catechisti dei vostri figli; noi che cantiamo e dirigiamo i cori nelle nostre parrocchie; noi che svolgiamo il ruolo di lettori, accoliti, sacerdoti, educatori e animatori nella chiesa. Qui siamo omosessuali”, ha detto Geraci, che si oppone alla necessità di una vita celibe, in un’intervista del 2010 a Queerblog.it
“C’è infatti un’idea sbagliata di cattolicesimo che può essere riassunta in questa affermazione: «Essere cattolici significa obbedire al papa e ai vescovi, soprattutto quando parlano di Fede e di morale». Non nego che molti cattolici osservanti sottoscriverebbero questa affermazione, ma questo non toglie la sua strutturale inesattezza.”, ha aggiunto Geraci in quell’intervista.
Il libro si chiude con alcune domande del sacerdote gesuita padre Giuseppe Piva, coordinatore nazionale dell’apostolato degli esercizi spirituali e della “Spiritualità delle frontiere” per i gesuiti.
“Chiediamoci: siamo favorevoli a un’integrazione delle persone omosessuali nei nostri contesti ecclesiali che non nasconda ma promuova il rispetto del loro orientamento come qualcosa che – come afferma il magistero – di per sé non ha nulla di moralmente imputabile?” Piva chiede.
Chiedendo poi se la Chiesa possa accettare chi si identifica come gay in posizioni di leadership pastorale, Piva dice che le sue sono “domande che non implicano alcuna rivoluzione o rivisitazione della dottrina; ma piuttosto sostengono gli accenti del più recente magistero pontificio che, riprendendo punti del Catechismo, sottolineano molto fortemente il rifiuto di qualsiasi discriminazione”.
“Una domanda ancora più diretta e non meno urgente: quale dovrebbe essere l’atteggiamento degli operatori pastorali nei confronti delle persone omosessuali cristiane che invece vivono in coppia e chiedono di essere accolte nella comunità?  Possiamo concordare che i criteri di accoglienza, accompagnamento, discernimento e integrazione offerti nel capitolo VIII di Amoris Laetitia per le situazioni matrimoniali ‘irregolari’ si applicano anche a queste situazioni di convivenza?”
Le successive domande di Piva, tuttavia, suggeriscono un cambiamento rispetto all’antropologia cattolica, chiedendo:
“E poi, partendo da quanto si afferma in Amoris Laetitia sul tema dell’integrazione, si arriva alla questione più delicata e problematica di oggi, sia per le situazioni matrimoniali ‘irregolari’ (convivenza; divorziati e in una nuova unione,) sia – a questo punto – anche per le unioni omosessuali: la necessaria e opportuna integrazione ecclesiale di queste coppie ‘irregolari’, eterosessuali e omosessuali, dopo un attento percorso di discernimento che valuti autenticamente in sede interna la responsabilità soggettiva e personale in queste situazioni oggettivamente disordinate, si può arrivare anche a una integrazione sacramentale? O, più semplicemente, un’integrazione opportuna potrebbe permettere ad una persona, pur vivendo in situazioni di questo tipo, di ricevere una responsabilità educativa ecclesiale (educatore, catechista, animatore, capo, ecc.)? Questo considerando anche altri aspetti non meno essenziali della sua testimonianza cristiana”.
Il Catholic News Agency ha chiesto alla Conferenza episcopale italiana se il libro rappresenti l’organizzazione [dei vescovi]. Un portavoce ha rifiutato una dichiarazione ufficiale, sostenendo che il libro non ha “nulla a che fare con la conferenza”, e che tutte le domande dovrebbero essere rivolte al direttore de L’Avvenire, Marco Tarquinio, che ha fatto conoscere la sua opinione all’interno del libro.
Di Sabino Paciolla