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Solo i più anziani avranno riconosciuto nel titolo di questo articolo la parodia di quello di un libro di Hans Küng (Veracità. Per il futuro della chiesa), che ebbe il suo momento di successo mezzo secolo fa e che anch’io lessi a suo tempo. Non ce l’ho con Küng, tuttavia, né con il caso di Enzo Bianchi e di Bose, da cui prendo soltanto lo spunto, come ho fatto anche nel post precedente, per una considerazione di ordine generale, che è la seguente.
Dello “scandalo” di Bose (adopero qui il termine nel senso etimologico di σκάνδαλον, cioè inciampo, ostacolo o trabocchetto che fa cadere) sappiamo che c’è – perché l’allontanamento coatto e a tempo indeterminato di un fondatore dalla sua comunità è comunque una cosa che non si può minimizzare – ma non sappiamo di che si tratti, perché non sappiamo che cosa sia veramente successo. Ma questa non è un’eccezione bensì la regola pressoché costante in quasi tutti gli “scandali” che emergono (così spesso!) nella chiesa oggi.
Un tempo le autorità ecclesiastiche attuavano principalmente una condotta di occultamento delle situazioni problematiche, volta appunto ad impedire che “dessero scandalo” al popolo. Era una pratica discutibile, che oggi viene quasi universalmente biasimata, ma che andrebbe valutata in modo equanime. Essa infatti intendeva applicare – in un modo che oggi ci appare in molti casi eccessivo o addirittura abusivo e perciò da respingere – un principio che però di per se stesso è coerente con il fine supremo dell’intero ordinamento giuridico della chiesa, cioè la salus animarum. Per chi segue Gesù Cristo, infatti, la salvezza dell’uomo viene prima di ogni altra cosa, anche dell’affermazione rigorosa ed astratta dei principi del diritto e della perfetta esecuzione delle norme giuridiche: non l’uomo per il sabato, ma il sabato per l’uomo. Perciò – fatto salvo il rispetto sempre dovuto alla verità e ai diritti di eventuali vittime – può anche darsi che vi siano casi in cui perseguire le azioni sbagliate di qualcuno e farlo in modo pubblico non produca alcun beneficio spirituale ma provochi solo dei danni. In tali circostanze, rinunciare alla realizzazione di un astratto principio di giustizia e/o osservare una completa riservatezza può essere opportuno: pereat mundus sed fiat iustitia non è affatto un principio cristiano, e mentre il magistrato della repubblica, vincolato dalla obbligatorietà dell’azione penale, non può transigere (in teoria: in pratica, a quanto pare, è il Palamara di turno a decidere chi e quando perseguire realmente e quando solo per finta), l’autorità ecclesiastica può agire come agirebbe un padre. Dissimulatio e tolerantia (vecchi istituti del diritto canonico non per caso sconosciuti agli ordinamenti statuali) non erano in fondo che la veste giuridica di comportamenti che, informalmente, i buoni genitori e i maestri saggi hanno sempre tenuto, per il bene dei loro figli e dei loro allievi. Delle volte è meglio non intervenire, altre volte farlo in silenzio, altre ancora farlo pubblicamente.
Fin qui ci può stare, anche se ovviamente è tutto molto scivoloso: basta poco, infatti, e dalla buona intenzione di “non scandalizzare” i fedeli e/o di tutelare le persone accusate si rischia di passare all’omertà o addirittura alla connivenza con i malfattori, cioè alla menzogna e all’ingiustizia. Comunque sia, quei tempi sono ormai finiti, anche perché nel mondo di oggi è molto più difficile tenere completamente nascosti i fatti (mentre è assai più facile camuffarli). Solo che al posto dell’occultamento non è subentrata la chiarezza, o se preferite la trasparenza, bensì l’opacità. Cioè la condizione in cui si vede sì qualcosa, ma di sfocato e indecifrabile; si viene a sapere che è successo qualcosa, ma non si sa mai bene che cosa. Per citare solo due o tre esempi, tra i più eclatanti (perciò i primi che mi vengono in mente, ma i casi sarebbero davvero tanti): quando finalmente, una volta eletto papa Benedetto XVI, si presero provvedimenti a carico di p.Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo – dopo che per una vita i suoi delitti, conoscibili da chi di dovere sin dagli inizi della sua “carriera”, erano stati ignorati dalle autorità ecclesiastiche – lo si fece senza sottoporlo a processo canonico, ma semplicemente ordinandogli di ritirarsi a vita privata e di fare penitenza. Un processo però non si fece e una condanna formale non ci fu: “in condizione dell’età avanzata e delle condizioni di salute” si disse, ma verosimilmente perché quello era il massimo che al papa stesso era consentito di fare, date le imponenti coperture di cui quell’indegno prelato ancora godeva. La stessa cosa, in tempi più recenti e sotto papa Francesco, è accaduta con l’ex cardinale McCarrick: punito sì, ma senza processo e perciò senza chiarire tutti i “contorni”, diciamo così, della sua scandalosa vita e carriera. Che cosa invece abbia realmente fatto padre Stefano Manelli, fondatore dei Francescani dell’Immacolata, destituito da ogni incarico e da anni agli “arresti domiciliari”, non si sa. C’è chi dice assolutamente niente di male, ma se non c’è processo non c’è neanche la possibilità per l’accusato di discolparsi pubblicamente e di far valere le sue ragioni.
Sbaglierò, ma a me pare che siamo messi addirittura peggio di quando si taceva del tutto. Oportet ut scandala eveniant non vuol dire che sia un bene che avvengano, ma, quando succede, bisogna prenderne atto fino in fondo. Se si decide di far luce – e occorre farlo – la luce dev’essere piena (per quanto umanamente possibile). E quando la verità dei fatti è controversa, come quasi sempre accade nelle situazioni “scandalose”, l’unico modo accessibile agli uomini per portarla alla luce, o quantomeno di avvicinarsi a tale obiettivo, è far sì che le parti ne discutano pubblicamente davanti ad un arbitro: cioè fare un processo. La chiesa, invece, i processi non li fa. Si possono intuire e comprendere le ragioni, però il risultato di tale rinuncia alla chiarezza è la penombra in cui siamo entrati.
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