Perché non si può vivere in un mondo "senza verità"? La filosofia è importante per la nostra società: perchè la perdita "dell'orizzonte di speranza" è legata alla perdita "dell’orizzonte metafisico" da parte dei filosofi
di Francesco Lamendola
Abbiamo più volte affermato che la vita, scomparsa la fede nella verità, risulta miseramente amputata e ridotta ad un moncone insensibile, a un’esistenza non più degna di essere chiamata “vita”. Ma perché la verità è così importante? Perché è un elemento fondamentale, senza il quale tutto il resto si spegne e diventa vuoto e indifferente?
È su questa domanda che focalizzeremo ora l’attenzione. In pochi casi come questo è dato osservare quanto sia stretto il legame tra la sfera del pensiero filosofico e quella della vita pratica, della vita ordinaria delle cosiddette persone comuni (in realtà ogni persona è unica e perciò eccezionale); in pochi casi si nota con altrettanta evidenza la futilità di una disciplina “filosofica”, come quella che oggi i professori insegnano a scuola, incapace di uscire all’ambito dei libri, della speculazione astratta, per calarsi nella dimensione concreta della vita, quella che riguarda tutti e non solo qualche intellettuale che si sente una monade a sé stante, incline a scambiare il proprio sguardo per lo sguardo di Dio e a confondere i propri pensieri, e, non di rado, i propri vaneggiamenti, con l’essenza stessa del reale.
Perché non si può vivere in un mondo "senza verità"?
Partiamo dalla sfera specificamente filosofica. I pensatori moderni, dall’umanesimo in poi, si sono sempre più abituati a considerare come secondario l’orizzonte dell’essere, e quindi della verità, per privilegiare quello dei modi, delle forme, del divenire: in altre parole, a privilegiare l’orizzonte del come rispetto a quello del cosa, e a focalizzare la propria ricerca sulla verità per me, secondo me, alla verità in se stessa. Diamo, per l’ennesima volta, a scopo di maggiore chiarezza, la definizione classica di verità: adaequatio rei et intellectus, coincidenza dell’oggetto con l’intelletto. È vera, perciò, quella cosa in cui l’essenza e il giudizio che la coglie, coincidono. L’aritmetica, ad esempio, è la scienza dei numeri: dunque, è vera la definizione dell’aritmetica come scienza dei numeri, e se qualcuno dicesse che l’aritmetica è la scienza dei suoni, non direbbe una cosa vera, ma falsa; anche se la scienza dei suoni, cioè la musica, ha indubbiamente a che fare con l’aritmetica, per via della quantità delle note musicali. Un altro esempio. Il capodoglio è un mammifero marino: dunque è vera la definizione del capodoglio come di un mammifero, e non di un pesce, anche se è vero che la maggior parte dei pesci vivono nel mare, e comunque tutti vivono nell’acqua, mentre la maggioranza dei mammiferi vivono sulla terra. Chi affermasse che il capodoglio è un pesce per il fatto che vive nel mare, direbbe una cosa falsa; come direbbe una cosa falsa chi negasse che il pinguino è un uccello perché non vola, pur avendo delle ali, ma cammina e soprattutto nuota nell’acqua del mare. E chi dicesse che vita ed esistenza sono la stessa cosa? Direbbe una cosa falsa, perché l’esistenza è ciò che caratterizza la durata di una cosa, mentre la vita indica la complessità di tutti i fenomeni biologici che si svolgono nel tempo, ma non sono caratterizzati solo dalla durata, bensì da mille altri fattori. Anche una statua esiste; anche una città esiste; anche un vulcano, un fiume, un pianeta, una stella, esistono: ciò tuttavia non significa che vivano. L’esistenza umana pertanto, non è sinonimo della vita umana: l’uomo non può accontentarsi di esistere, deve vivere: la sua esistenza si manifesta con la vita, ma la sua vita non si riduce ad esistenza, è molto di più: qualcosa d’infinitamente più vario e ricco del semplice esistere, che è il protrarsi nel tempo restando sempre se stesso. L’uomo non resta uguale a se stesso, la statua sì; la città, il fiume, il monte, l’astro non restano uguali a se stessi, evolvono e si trasformano, ma evolvono secondo leggi fisiche e cause naturali. Solamente all’uomo è dato il privilegio di evolversi in base a una legge propria, stabilita da lui stesso e sia pure non in termini assoluti, ma relativi: la legge del libero arbitrio. Ecco dunque che l’essenza dell’uomo è inseparabile dall’idea della libertà: senza libero arbitrio, l’uomo non sarebbe più uomo. E non ha importanza quanto alla definizione della natura umana, il fatto che alcuni individui, per difetto di nascita o per accidente sopravvenuto, perdano la facoltà del libero arbitrio: essa è tuttavia inscritta nella loro natura, e solo circostanze accidentali hanno privato di essa quegli individui, i quali non pertanto conservano la caratteristica umana, che non è e non sarà mai assimilabile alla semplice esistenza. Neppure se un essere umano cade in coma e vi permane per anni ed anni, perde lo statuto di essere umano, insieme alla dignità che appartiene alla natura umana. E lo stesso vale per l’uomo non ancora nato, ma già concepito nel seno materno: è un essere umano, indipendentemente dalle fasi del suo sviluppo: a lui conviene la definizione di uomo e ciò implica ch’è dotato di libero arbitrio, sia pure allo stato potenziale, che si manifesterà visibilmente solo dopo l’evento della sua nascita.
La filosofia è importante per la nostra società: perchè la perdita "dell'orizzonte di speranza" dipende con la perdita "dell’orizzonte metafisico" da parte dei filosofi!
Abbiamo detto poc’anzi che cogliere la verità di una cosa equivale a cogliere la sua essenza, separandola, evidentemente, da ciò che le appartiene, ma in maniera non essenziale. Alla musica appartiene il numero, ma il numero non è la cosa essenziale; al capodoglio, in quanto mammifero, appartiene il fatto di vivere nelle acque marine, ma non è la cosa essenziale; e al pinguino appartiene il fatto di camminare e nuotare, ma, per riconoscerlo come uccello, queste cose non sono essenziali. Ora, la filosofia moderna ha abbandonato, da secoli, la ricerca dell’essenza: valga come esempio illuminante la filosofia di Kant, il quale candidamente asserisce di non aver nulla da dire circa l’essenza della cosa, ma solo sulla sua manifestazione. Mai la filosofia si era auto-mutilata e auto-avvilita così tanto; e il fatto che ciò non sia stato percepito, non sia stato riconosciuto, anzi che si sia voluto fare di Kant un maestro del pensiero, è di per se stesso altamente indicativo di cosa sia, in effetti, il pensiero moderno. Per restare in linea con la definizione della verità come capacità di riconoscere l’essenza: la filosofia di Kant, come quasi tutte le filosofie moderne, è, propriamente parlando, non filosofia, se è essenziale alla filosofia la ricerca dell’essenza delle cose e quindi il saper separare da esse tutto ciò che essenziale non è. Per la stessa ragione, abbiamo affermato che l’essenza dell’uomo è il libero arbitrio; ma le filosofie moderne, quasi tutte, negano il libero arbitrio (con le due curiose, opposte e speculari eccezioni di Kierkegaard e Nietzsche): dunque, tutta la filosofia moderna erra clamorosamente nel giudizio sull’uomo, e, quando pretende di parlare di lui, non sa letteralmente quel che si dice. E adesso vediamo in quale maniera tutto ciò abbia a che fare con la vita concreta delle persone comuni e non riguardi solo delle dispute accademiche all’interno d’una piccola minoranza di pensatori di professione.
Per restare in linea con la definizione della verità come capacità di riconoscere l’essenza: la filosofia di Kant, come quasi tutte le filosofie moderne, è, propriamente parlando, non filosofia!
Le persone comuni, per vivere degnamente la propria vita, e non limitarsi ad esistere, ossia consumarsi nella durata e infine cessare di esistere quando il tempo è scaduto, hanno bisogno di una cosa soprattutto: un orizzonte di speranza. Non si confondano le situazioni individuali con la questione generale. Sappiamo benissimo che in tutte le società esiste, strutturalmente, un certo numero d’individui disadattati, infelici, sopraffatti dai casi della vita, che sono scivolati nel pozzo della disperazione Ciò non ha mai impedito a una società sana di continuare a credere nella vita, il che si nota in ogni manifestazione del libero arbitrio, ma prima di tutto nella facoltà riproduttiva. Una società sana ama la vita e non teme di mettere al mondo dei figli in quantità sufficiente a colmare le morti e a garantire un certo margine di sicurezza per il domani. Quando una società smette di procreare in misura adeguata, ciò significa che qualcosa si è spezzato nella voglia di viere delle persone, e questo qualcosa si chiama disperazione. Una società al cui interno vi sono individui disperati, seguita nondimeno a credere in se stessa, a lavorare, a produrre, a costruire, a investire nel futuro, a scommettere sulle generazioni a venire; ma una società disperata smette di fare figli e marcia a grandi passi verso l’auto-estinzione. Che poi dei politici idioti o venduti pensino di “risolvere” il problema favorendo in ogni modo l’immigrazione straniera, oltretutto di soggetti che sono agli antipodi della propria civiltà e della propria tradizione, e nel frattempo agevolando al massimo le pratiche del divorzio, dell’aborto, dell’eutanasia e delle unioni omosessuali, non sposta d’un millimetro il nocciolo del problema: anzi, contribuisce ad aggravarlo e ad affrettarne la tragica e inevitabile conclusione.
L’essenza dell’uomo è il libero arbitrio; ma le filosofie moderne, quasi tutte, negano il libero arbitrio con le due curiose, opposte e speculari eccezioni di Kierkegaard e Nietzsche!
Ma perché la società moderna, nel suo complesso, nella sua essenza, ha perso quell’orizzonte di speranza che consente agl’individui di credere nel futuro e di scommettere su di esso? A nostro avviso, ciò è strettamente correlato con la perdita dell’orizzonte metafisico da parte dei filosofi. Anche se può non apparire evidente, quello che pensano i filosofi è molto importante per la società nel suo complesso: in un certo senso esso determina il clima generale, la tonalità d’insieme della società stessa, attraverso le manifestazioni della politica, dell’economia, della cultura, dello spettacolo, dello sport, eccetera. Se i pensatori hanno fede nella verità; se pensano che essa sia raggiungibile, che sia possibile arrivare fino ad essa, un senso di fiducia, di tranquilla sicurezza si diffonde in ogni ambito e si ripercuote sino all’ultimo gradino della scala sociale, fino al povero e al disoccupato, i quali, pur nella loro povertà e nella loro disoccupazione, conserveranno inalterato – in linea di massima, si capisce, e non in ogni singolo caso – un certo grado di fiducia, magari anche solo inconscia, nella possibilità d’una ripresa, d’un mutamento di segno positivo. Finché i grandi filosofi - Platone, Aristotele, sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino – hanno tenuto fermo su questo punto essenziale: l’uomo è una creatura razionale, è dotato di libero arbitrio e quindi può riconoscere il vero dal falso, anche la società nel suo complesso ha creduto in se stessa e ha scommesso nel futuro. Nessuno, tranne un pazzo, si mette a costruire una casa se non è persuaso della stabilità delle fondamenta. Ora, il concetto di verità è alla base di qualsiasi altra cosa: non solo è impensabile costruire una casa o una città, ma è assurdo anche solo immaginare una qualsiasi attività lavorativa, un’impresa, un legame stabile fra l’uomo e la donna, il rispetto delle leggi, la sacralità dell’amicizia, l’amore verso la patria, e naturalmente l’adorazione del vero Dio, se si prescinde da questa elementare certezza: la verità esiste ed è a portata della conoscenza umana, certo a determinate condizioni. Senza la ferma convinzione che la verità esiste e che l’uomo è capace di essa, anzi che è destinato ad essa, tutto diventa instabile, fragile, provvisorio.
Se un parlamento si permette di dire che un nascituro giunto al nono mese della gestazione non è un essere umano, quindi non è un soggetto di diritti, ma solo un grumo di cellule, mentre i soli diritti riconosciuti sono quelli della gestante, allora è chiaro che la verità in quanto tale non esiste più, è solo una finzione arbitraria, che ciascuno può tirare dalla propria parte, purché abbia la forza per farlo!
La cultura del relativismo ha distrutto appunto questa certezza, e da quel momento ogni cosa ha iniziato a franare, a dissolversi: casa, lavoro, famiglia, amicizia, legalità, risparmio, cultura, amore per l’infanzia, cura per la vecchiaia, politica intesa come scienza del vivere ordinato e proficuo in una società organizzata. Là dove domina il relativismo, arrivano infallibilmente i suoi inevitabili frutti: velenosi: materialismo, opportunismo, egoismo, narcisismo, superficialità, trascuratezza, indolenza, edonismo, libertinismo, furbizia disonesta, malizia, lussuria, cupidigia, superbia, indifferenza, accidia, grossolanità, cattiveria, ateismo. In una tale società, i vizi si scatenano e vengono vezzeggiati, incoraggiati, stimolati da tutto il sistema dello spettacolo e dell’informazione, entrambi asserviti all’egoismo finanziario. Le culle vuote non sono altro che il segno visibile di questo supremo disordine eretto a sistema, di questa contro-morale che prende il posto della vera morale, di questo trionfo del vizio che viene proclamato come il trionfo della virtù, beninteso nel senso laicista del termine. La legge, recentemente approvata in Francia, che consente d’innalzare il limite dell’aborto volontario, in taluni casi, fino al nono mese di gravidanza, è l’ultima tappa di questa marcia necrofila e distruttiva che ha preso la società moderna, dopo aver smarrito, rifiutato, cacciato via da sé il concetto della verità. Non è più vero quello che è vero, ma è vero quel che si dice. E se un parlamento si permette di dire che un nascituro giunto al nono mese della gestazione non è un essere umano, quindi non è un soggetto di diritti, ma solo un grumo di cellule, mentre i soli diritti riconosciuti sono quelli della gestante, allora è chiaro che la verità in quanto tale non esiste più, è solo una finzione arbitraria, che ciascuno può tirare dalla propria parte, purché abbia la forza per farlo. Così, fra poco, in molti Paesi occidentali diverrà impossibile affermare che la vita si origina dall’unione dell’uomo e della donna: è vero, ma non lo si potrà dire, in omaggio a un’ideologia mortifera, che negando la vita nega contemporaneamente la verità delle cose; diventerà una verità indicibile e quindi una non verità, una verità rimossa e imputridita. Ma quando la verità imputridisce, il suo fetore ammorba tutto e impregna la coscienza delle persone, che diviene una cattiva coscienza. Questa, a sua volta, genera un oscuro senso di colpa, anche in quelli che non hanno razionalmente nulla da rimproverarsi: è un qualcosa che sta al di sotto della coscienza, come l’urlo strozzato d’un bambino morto prima di venire alla luce. Ecco perché non si può vivere in un mondo senza verità ed ecco perché la filosofia è così importante per il destino della società.
Quando la verità imputridisce, il suo fetore ammorba tutto e impregna la coscienza delle persone, che diviene una cattiva coscienza. Questa, a sua volta, genera un oscuro senso di colpa, anche in quelli che non hanno razionalmente nulla da rimproverarsi: è un qualcosa che sta al di sotto della coscienza, come l’urlo strozzato d’un bambino morto prima di venire alla luce!
I credenti si rifugiano, giustamente, nella fede, ma anche lì è giunta l’onda fangosa del relativismo: e vi giunge, come al solito, attraverso il pensiero di pochi. Una dozzina di cattivi teologi, Teilhard de Chardin, Karl Rahner, Hans Küng, è stata capace di avvelenare le pure fonti della dottrina e del magistero, spingendo milioni di cattolici verso il disordine, lo smarrimento, l’angoscia. Anche qui il venir meno del concetto di verità assoluta, che in termini religiosi è Dio, ha fatto sentire e continua a far sentire i suoi effetti esiziali. Stretti in un cerchio di morte, gli uomini si sentono impotenti, disperati: non vogliono mettere al mondo dei figli in un mondo così orribile, che loro stessi hanno creato. Chi li salverà se non Colui che è la verità e che per amore di lei ha affrontato e vinto la morte?
Perché non si può vivere in un mondo senza verità
di Francesco Lamendola
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