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giovedì 14 gennaio 2021

Il vero golpe

 Trump ri-impicciato (forse). Vincono i neocon



Il percorso per eliminare Trump dalla scena politica del prossimo futuro prosegue, ma non è così facile come ritenevano all’inizio i democratici e potrebbe anche finire sugli scogli.

Se è vero che diversi repubblicani si sono detti favorevoli all’impeachement, non è ancora stata raggiunta la massa critica necessaria a far passare la legge, che necessita i tre quarti dei voti del Congresso. E il tempo scarseggia, dato che la procedura deve passare entro il 20 gennaio, data dell’insediamento di Joe Biden.

Neocon alla riscossa

Sviluppi incerti, mentre è simbolico che a capeggiare la pattuglia di repubblicani che sostengono l’impeachement sia Liz Cheney, figlia del vicepresidente Dick, storico protagonista delle guerre infinite e, sul fronte interno (a proposito di paladini della libertà), nume tutelare del famigerato Patriot Act, programma che diede all’intelligence piena libertà di sorveglianza su tutti i cittadini americani (e non solo).

D’altronde in materia di colpi di Stato, questione a tema per l’assalto al Campidoglio, la Liz se ne intende, dato che l’augusto genitore guidò il golpe che seguì l’11 settembre 2001, quando i neocon avocarono a sé tutti i posti chiave dell’amministrazione Usa.

Settimana cruciale per Trump, dal momento che nelle votazioni al Campidoglio si gioca in parte il suo futuro politico (in attesa di inchieste future). Nel frattempo continuano a censurarlo un po’ tutti, ultimo il canale Youtube, che gli ha impedito di pubblicare video.

Sul punto, rimandiamo a una nota di The Hill, giornale ormai anti-trumpiano che però conserva un barlume di ragionevolezza, come dimostra la nota in cui si spiega che ormai a essere censurati non sono più i contenuti, ma le intenzioni stesse di Trump, con censori evidentemente in grado di “leggere la mente” altrui.

Intanto, tornando all’assalto al Campidoglio, la cronaca nera va a tingersi di giallo. Nella nota di sabato riferivamo che subito dopo l’assalto al Campidoglio si era suicidato uno degli agenti della polizia preposti alla sicurezza del palazzo.

Nello stesso giorno, è stata data notizia della morte di Christopher Stanton Georgia, uno degli assaltatori del Palazzo, dicono per suicidio postumo all’arresto. Le morti misteriose seguono sempre i grandi eventi politici che scuotono gli Stati Uniti, dall’omicidio Kennedy in poi. Non poteva sfuggire a tale sorte anche il misterioso assalto al Palazzo.

L’attivismo di Pompeo

Al di là della facile ironia, e in attesa degli eventi futuri, va registrato l’attivismo sfrenato che sta esibendo in questi giorni il Segretario di Stato Mike Pompeo, che ha ormai gettato la maschera e si muove in piena autonomia, senza cioè passare per il presidente, che ha ben altro cui pensare.

Così alcuni giorni fa ha dichiarato che è ora di porre fine alle limitazioni delle relazioni con Taiwan, distruggendo la linea di fondo delle relazioni tra le due potenze, basata sul riconoscimento formale della sovranità cinese sull’isola. Una dichiarazione guerrafondaia, dato che Pechino sul punto non può cedere, né Taiwan è disposta a correre rischi per la spericolatezza dello strano italo-americano che guida la diplomazia Usa.

Non solo, ha dichiarato i ribelli houti terroristi, ponendo in nuove ambasce lo Yemen, Paese in cui infuria la più grave crisi umanitaria del pianeta a motivo dell’aggressione saudita alla quale quei ribelli si oppongono.

Al di là del particolare non secondario che al Qaeda e l’Isis sono di fatto alleate dell’Arabia Saudita, e degli Usa, contro gli houti (vedi Associated Press), l’inserimento di tale movimento nella lista nera crea nuove difficoltà alle ong che soccorrono la popolazione civile, dato che si muore nei territori controllati dai ribelli a causa delle bombe saudite, quindi bisogna avere contatti con gli Houti per soccorrerli, contatti da oggi sono a rischio sanzioni e altro.

Non pago, ha re-inserito Cuba nella stessa lista nera, nonostante sia evidente che l’Avana non indulge in tali crimini. Sul punto, una nota del National Interest che riferisce dell'”uso improprio di questo elenco”, di volta in volta aggiornato secondo gli interessi americani del momento (come per l’Iraq, tolto dalla lista quando faceva guerra all’Iran e reinserito dopo l’invasione del Kuwait).

Ma mai si era vista una spregiudicatezza simile, come denotano anche le dichiarazioni del Segretario di Stato sulle frequentazioni iraniane di al Qaeada, accuse alle quali il ministro degli Esteri di Teheran, Javad Zarif, ha risposto ricordando allo smemorato che gli attentatori delle Torri gemelle erano cittadini di un alleato strategico di Washington (Arabia Saudita).

Pompeo cerca di ritagliarsi un qualche futuro tra i neocon, usciti vittoriosi dalla contesa con Trump (vedi alla voce Cheney). D’altronde li ha serviti egregiamente, minando con successo tutti i tentativi di Trump di attutire le tensioni internazionali, dalla Russia alla Corea del Nord.

Ma soprattutto nei confronti della Cina, sulla quale è riuscito a imporre la sua linea (Piccolenote) convincendo il presidente che attaccare la Cina fosse la via sicura per la vittoria, contribuendo così alla sua sconfitta finale.

https://piccolenote.ilgiornale.it/48982/trump-ri-impicciato-forse-vincono-i-neocon?fbclid=IwAR2NVApnoLRAWwxbG2cBlziIZH1ZGQP-nA02c9UtWa3g-8rjpu3qIFQeVJM

Impeachment per Trump. Ostracizzato il presidente

Con un voto di 232 a 197, la Camera del Congresso ha approvato l'impeachment per Donald Trump. E ha battuto due record: la procedura di impeachment più rapida della storia e la prima volta di un presidente che viene “impeachato” due volte.


- IL GOLPE DEMOCRATICO di Silvana De Mari

Con un voto di 232 a 197, la Camera del Congresso statunitense ha approvato il secondo impeachment per Donald Trump. E ha battuto due record in uno: la procedura di impeachment più rapida della storia e la prima volta di un presidente che viene “impeachato” due volte nel corso del suo mandato. Nancy Pelosi, simbolicamente, ha indossato lo stesso vestito che portava durante il voto del primo impeachment, risalente ad appena 13 mesi fa. Ma è conforme alla Costituzione quel che è successo?

I Democratici hanno subito giocato la carta dell’impeachment non appena hanno consolidato la loro maggioranza alla Camera nel 2019, dopo le elezioni di medio termine. Avevano colto la palla al balzo per una telefonata di Trump al presidente ucraino Zelensky in cui pareva ricattarlo perché investigasse sugli affari di Hunter Biden, figlio di Joe Biden, attuale presidente eletto. Già allora la procedura di impeachment era apparsa molto fragile, basata su testimonianze e pareri più che su solide prove (nulla a che vedere con l’impeachment a Nixon nel 1974 che fu l’esito di un’indagine molto più complessa). E infatti i Democratici, in quel caso, non sono riusciti a convincere nessun repubblicano: il voto per l’impeachment era passato alla Camera solo perché avevano la maggioranza semplice, ma in Senato i Repubblicani hanno fermato il processo. In questo caso, l’impeachment appare più che altro come un voto per ostracizzare il presidente uscente e nulla di più. Forti della loro maggioranza, a cui si sono aggiunti dieci deputati repubblicani dissidenti (fra cui Liz Cheney, figlia dell’ex vicepresidente Dick Cheney), i Democratici hanno condotto una procedura-lampo, senza istituire commissioni di inchiesta, senza condurre indagini, senza neppure organizzare audizioni dei testimoni.

L’accusa si basa unicamente sulla responsabilità “oggettiva” di Donald Trump per l’irruzione in Campidoglio di un gruppo di suoi sostenitori. Le indagini a carico di 170 sospetti sono appena incominciate. Non si conosce ancora di preciso per quale motivo la polizia abbia rimosso le transenne e fatto entrare i facinorosi. Non si sa ancora quale sia stato (sempre che vi sia stato) il ruolo di possibili infiltrati nelle manifestazioni. L’unica prova su cui si basa l’accusa è il discorso di Trump del 6 gennaio, che viene visto come un’istigazione diretta a compiere l’incursione, ma non sono stati dimostrati ordini diretti del presidente ai suoi sostenitori, tantomeno si intravvede una regia del presidente nella pianificazione dell’azione.

Il voto per l’impeachment ha dunque un significato politico doppio. Per i Democratici si tratta dell’ultimo tentativo (al fotofinish) di sbarazzarsi di un avversario molto pericoloso per loro, del primo candidato repubblicano che è riuscito a contendere alla sinistra il voto di latinos, afro-americani e asiatici. Per una parte dei Repubblicani della vecchia guardia, invece, è l’ultima occasione per sbarazzarsi di un leader piovuto dal mondo esterno, completamente estraneo al Grand Old Party, ma capace di dominarlo completamente per quattro anni, ottenendo risultati storici in termini di voti e popolarità.

Adesso la parola passa al Senato, dove è necessaria una maggioranza qualificata per la messa in stato d’accusa del presidente. Si potrebbe votare anche il 19, ultimo giorno del suo mandato, a riprova del fatto che l’obiettivo non è quello di rimuovere Trump dal suo incarico, ma di distruggere il suo futuro politico. Con un voto separato, in cui è richiesta una maggioranza semplice, si deciderà anche se vietare esplicitamente future candidature di “The Donald”. In Senato, dove la maggioranza è ancora repubblicana (fino al 19 gennaio), potrebbe essere l’ultima occasione, per molti Repubblicani dissidenti (e ne bastano 17 per arrivare alla maggioranza qualificata), di sbarazzarsi di un avversario interno che li ha finora completamente eclissati, accentrando su di sé tutta l’attenzione che prima era riservata al Gop.

Se il Senato confermasse, si completerebbe la procedura di impeachment più veloce della storia. Ma a perderci non sarebbe solo Trump, ma anche la credibilità delle istituzioni americane. Sarebbe la dimostrazione che, con la giusta maggioranza e il necessario odio, si può rimuovere un presidente con un semplice doppio voto. E' ostracismo, più che un impeachment.

Stefano Magni

https://lanuovabq.it/it/impeachment-per-trump-ostracizzato-il-presidente

Perché l’impeachment contro Trump può colpire anche Biden


La macchina dell’impeachment è partita. La Camera dei rappresentati Usa il 13 gennaio ha dato il via alla procedura di messa in stato di accusa del presidente uscente Donald Trump con 232 voti a favore e 197 contrari. Per il tycoon si tratterà di un secondo processo dopo quello avvenuto nel febbraio del 2020 e finito con il voto contrario del Senato.

L’operazione dei dem è scattata dopo i fatti del 6 gennaio scorso, quando una folla di sostenitori del presidente ha assaltato il Campidoglio sospendendo la seduta del Congresso per la ratifica della vittoria di Joe Biden alle elezioni del 3 novembre scorso. Subito dopo i disordini la leadership del partito dell’asinello aveva tuonato contro Trump ritenendolo responsabile degli eventi chiedendo venisse rimosso con effetto immediato dalla carica.

Il punto è che forse tutta questa urgenza non c’è. O meglio, il partito che ora controlla i vertici della politica americana, dalla Casa Bianca al Senato passando dalla Camera dei deputati, manda messaggi contrastanti.

La grande contraddizione

Nei giorni scorsi, Chris Cillizza, storico cronista politico della Cnn ha messo in luce tutte le contraddizioni dei democratici in questa fase concitata. I dem, ha scritto, vogliono che gli elettori credano a due cose, cioè che Trump sia così pericoloso che va subito sollevato dall’incarico, ma allo stesso tempo che sia necessario evitare un imbuto al Senato (dove si svolge il vero e proprio processo per l’impeachment) che rischia di complicare l’insediamento del neo eletto Joe Biden, magari con l’House of Representatives che trattenga le carte per due-tre mesi lasciando alla Camera Alta le incombenze relative ai primi 100 giorni della nuova presidenza prima di prendere in mano il dossier.

L’aspetto paradossale di queste posizioni schizofreniche è che sono entrambe vere per i democratici. Ma per capirlo è necessario fare un passo intero esaminandole in modo distinto. Posizioni che in un modo o nell’altro rischiano di trasformarsi in un boomerang per il neo eletto Biden.

La corsa dem all’impeachment

Dopo giorni di polemiche lunedì 11 gennaio i dem della Camera hanno lanciato due mosse procedurali per cercare di sollevare Trump dall’incarico. La prima si è consumata il 12 con la richiesta formale al vicepresidente Pence e ai membri del governo di attivare il 25esimo emendamento per sollevare il presidente Trump dall’incarico con la scusa di non essere più adatto a governare. La seconda ha di fatto dato il via all’iter contro il tycoon, anche grazie al voto di ben 10 deputati americani, il numero più alto di membri dello stesso partito del presidente.

Il documento presentato dai democratici accusa Trump di aver “incitato all’insurrezione”, in particolare continuando a sostenere l’ipotesi infondata di elezioni truccate e dando fiato a teorie del complotto e con le proprie dichiarazioni di aver istigato l’assalto al Campidoglio.

Il primo aspetto che salta all’occhio è la velocità di esecuzione. Nel 2019 i dem decisero di procedere contro The Donald solo dopo tre mesi di lavori parlamentari. Dal momento delle prime informazioni a quando si è tenuto il voto in aula i deputati hanno lavorato settimane con diverse udienze nei comitati Intelligence e Giustizia della Camera. Oggi tutto questo non è avvenuto.

Niente di irregolare, è bene ribadirlo. Il presidente della commissione parlamentare che si occupa del tema ha dato carta bianca e giovedì scorso ha confermato il suo benestare a dibattere in Aula. Secondo Josh Chafetz, docente di diritto costituzionale della Georgetown University, la Costituzione non stabilisce tempi e modi in modo rigido. Esiste anche in precedente, ma è datato 1868, quando la Camera mise sotto accusa il presidente Andrew Johnson ancora prima di scrivere i provvedimenti contro di lui.

Lo scoglio del Senato

L’urgenza e la furia dei dem alla Camera potrebbe però infrangersi al Senato. La velocità di esecuzione cozzerebbe infatti con un Senato ancora non convocabile. Come hanno evidenziato diversi media Usa è praticamente impossibile che si arrivi a discutere l’impeachment mentre Trump è ancora in carica, anche se considera il fatto che qualche senatore repubblicano, magari Mitt Romney, potrebbe votare a favore.

Il nodo è tutto nei tempi. La Camera alta è in pausa fino al 19 gennaio, il giorno precedente all’insediamento di Joe Biden. Per radunarsi prima sarebbe necessario il consenso di tutti e 100 i senatori. Ma qui ci sarebbe già il primo problema: servirebbe il via libera anche dei senatori più vicini a Trump che difficilmente accetteranno di rientrare prima proprio per discutere l’impeachment.

Secondo voci sentite dal Washington Post Chuck Schumer, al momento ancora leader della minoranza dem al Senato, starebbe esaminando l’ipotesi di convocare la Camera in anticipo. Ma la procedura richiederebbe il via libera del leader di maggioranza Mitch McConnell che ha già escluso l’ipotesi. Qui veniamo infatti al secondo problema. I democratici hanno sì vinto i ballottaggi in Georgia conquistando la maggioranza, ma i due neo senatori Raphael Warnock e Jon Ossoff, non hanno ancora prestato giuramento, giuramento che potrebbe arrivare più o meno negli stessi giorni dell’insediamento di Biden.

Su tutti questi aspetti aleggia però anche un altro fattore, la posizione stessa di McConnell. Secondo il New York Times lo storio leader repubblicano non sarebbe così contrario all’impeachment contro Trump. Fonti del suo entourage avrebbero detto che il senatore del Kentucky vedrebbe di buon occhio la pratica perché permetterebbe al Gop di sganciarsi dal presidente uscente, ma su questo fronte ancora non ci sono certezze.

Perché si esamina l’ipotesi di un allungamento dei tempi

La situazione al Senato ha quindi aperto una delicatissima questione e cioè il rischio che la presidenza Biden si apra ancora nel segno di Donald Trump. È vero si tratterebbe del processo a suo carico, ma sarebbe comunque un grosso problema, operativo e simbolico. Non è un caso infatti che qualcuno tra i dem inizi ad avanzare un’ipotesi alternativa.

È il caso ad esempio di James Clyburn, deputato del Sud Carolina e Majority Whip (cioè membro del partito con il compito di collegare i leader del partito e il gruppo parlamentare) secondo il quale i dem potrebbero scegliere di tenere ferma la pratica alla Camera per qualche mese per poi trasmetterla al Senato in un secondo momento lasciando campo a Biden per gestire i primi impegni.

Il doppio rischio di Joe Biden

Gran parte dei dem si sono detti contrari alla possibilità di rimandare, ma su questo incombono anche le esigenze della futura amministrazione. Il presidente eletto, che da un lato ha sempre condannato Trump per i disordini, ma mai parlato apertamente di impeachment, ha suggerito un approccio misto con una domanda un po’ sibillina fatta parlando con dei giornalisti: “Possiamo dedicare mezza giornata all’impeachment e mezza giornata a far nominare il mio governo al Senato, oltre a passare al pacchetto di aiuti contro la pandemia?”.

Interpellato dai cronisti il presidente eletto ha però detto di non aver avuto ancora risposte dai parlamentari, forse perché risposte definitive ancora non ce ne sono. L’idea sarebbe quella di un Senato a due velocità che replicherebbe il modello già visto lo scorso anno durante la messa in stato d’accusa: nomali lavori parlamentari la mattina e discussione dell’impeachment nel pomeriggio.

Il problema è che per Biden l’impeachment rischia di trasformarsi in una grana. Come ha sottolineato Cillizza, l’ex vice di Barack Obama vorrebbe lasciarsi alle spalle la presidenza Trump e lavorare su altri fronti. Primo fra tutti l’approvazione della sua squadra di governo che deve ottenere il via libera dal Senato. Non solo. L’altro tema caldissimo ha a che fare con il pacchetto di stimoli anti crisi, tra i quali anche l’assegno di 2 mila dollari. Un provvedimento che richiederà una mediazione delicata dato che molti repubblicani, e qualche democratico, non sono d’accordo.

Forse per Biden sarebbe più utile rimandare come suggerito da Clyburn, ma qui ci sarebbe un altro problema. Il rischio è di perdere quel minimo di supporto che qualche senatore repubblicano poteva concedere all’impeachment e questo perché verrebbe proprio a cadere il senso di urgenza legato ai fatti del 6 gennaio, trasformando il provvedimento in una semplice mossa politica.

https://it.insideover.com/politica/perche-impeachment-trump-puo-colpire-anche-biden.html


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