ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 13 aprile 2021

Un nuovo momento della Rivoluzione

Scienza e politica: il primato rubato

Uno dei problemi di fondo emersi con la vaccinazione è il rapporto tra la politica e la scienza. La vaccinazione di massa è una decisione politica e non scientifica. La politica non deve scaricarla sulla scienza, conferendole indebitamente un’assolutezza che questa non può avere ed essa, la politica, deve assumere questo genere di decisioni secondo l’ottica che le è propria, quella del quadro d’insieme, dato che il bene comune è più ampio della vaccinazione ed essa lo deve considerare per intero.


Man mano che la realtà evidenzia nuovi aspetti della grande questione vaccini e questa si allarga e si approfondisce, emerge con sempre maggiore chiarezza che uno dei problemi di fondo dell’intera fiction è il rapporto tra la politica e la scienza (vedi QUI e QUI). Purtroppo, però, la cultura diffusa di oggi ha della scienza e della politica una visione confusa. Per il bene dei cittadini bisognerebbe che le due realtà dialogassero tra loro in modo corretto, cosa che però non avviene perché idee confuse non producono granché.

La scienza è un sapere certo e assoluto?, oppure incerto e approssimativo? Che peso bisogna dare ai dati scientifici? Possono essi determinare l’agenda politica in campo sanitario? Tranne qualche residuale scienziato positivista – sembra impossibile, ma ce ne sono ancora! - tutti ormai sanno che il cosiddetto “dato scientifico” è in realtà un costrutto, vale a dire qualcosa di “costruito” nella sintesi tra i dati emersi e i criteri che si sono adottati per farli emergere. Popper direbbe: i dati sono condizionati dalla domanda a cui si vuole rispondere perché è la domanda che illumina ma anche condiziona le piste per trovare la risposta. Come ci insegna la storia della scienza, soprattutto contemporanea, questo aspetto è stato da molti assolutizzato fino a dire che la scienza non ha nulla di obiettivo e che è completamente una costruzione convenzionale: da Poincaré a Fayerabend questa posizione ha avuto un’ampia gamma di sostenitori più o meno radicali. Si tratta però di un estremismo non accettabile perché non vero. La scienza conosce, ma conosce con i suoi limiti che né il convenzionalismo né la sua assolutizzazione di stampo positivista riconoscono adeguatamente.

Il fatto è che la scienza conosce, ma conosce i fenomeni, ossia gli aspetti della realtà che cambiano, sono contingenti e si collocano in contesti variabili che contribuiscono a configurarli. Dei fenomeni non è possibile avere una conoscenza stabile. Di cosa sia l’uomo si può essere certi perché si conosce una realtà che non cambia, di come curarne una malattia non si può essere altrettanto certi. Inoltre la scienza è un sapere ipotetico, nel senso che parte non da conoscenze dimostrate ma da assunti che le permettano di circoscrivere un ambito di fenomeni da studiare con (almeno relativo) successo. L’ipotesi scientifica è un punto di vista, non è un principio, è un inizio che nel corso della ricerca può anche essere cambiato per poter definire in modo migliore l’ambito della ricerca stessa e ottenere successi maggiori. Ciò non significa che la scienza non sia una conoscenza vera e propria, esclude solo che sia assoluta: essa ci dà informazioni utili anche se non assolutamente certe e definitive.

A sentire molti scienziati ed esperti in questo anno di Covid, si capisce che, purtroppo, a guadagnare i primi piani sono stati quelli meno adatti perché meno consapevoli del vero statuto della scienza che professano. È ormai super documentato che i dati forniti dalle fonti ufficiali e riguardanti i vari aspetti dell’epidemia sono ampiamente scorretti e spesso infondati. La politica crede (o finge di credere) di avere dei dati su cui basarsi ma non li ha e quindi cammina alla cieca, senza tuttavia assumersene le responsabilità. Questo capita certamente perché ci sono interessi che inducono ad adulterare i dati, ma anche perché è la scienza stessa che strutturalmente procede per via ipotetica. I dati veramente scientifici sono infatti forniti da quegli scienziati che, in tutta umiltà, tengono conto di questo aspetto e maneggiano la propria disciplina con attenzione critica. Ed è di scienziati di questo tipo che la politica dovrebbe andare in cerca.

La scienza non abilita a prendere decisioni politiche sostituendosi alla politica. Quest’ultima non può dire – come faceva Conte e continua a fare Draghi – che sono i dati scientifici a decidere. A decidere deve essere la politica perché essa - quella vera naturalmente - a differenza della scienza, non è un sapere ipotetico ed è la sola ad avere come ottica quella del tutto e non quella della parte. La politica non si fonda su ipotesi – anche qui Popper sbagliava - ma sull’ordine finalistico delle cose, come per esempio il principio che il bene comune non è qualcosa di diverso dal bene dei singoli uomini che vivono in società. La vaccinazione di massa è una decisione politica e non scientifica. La politica non deve scaricarla sulla scienza, conferendole indebitamente un’assolutezza che questa non può avere ed essa, la politica, deve assumere questo genere di decisioni secondo l’ottica che le è propria, quella del quadro d’insieme, dato che il bene comune è più ampio della vaccinazione ed essa lo deve considerare per intero.

La scienza non è in grado di attestare una gravità del pericolo epidemico da giustificare una vaccinazione di massa e obbligatoria, e la politica che tenga conto del bene comune non è in grado di deciderlo e di imporlo. Diremmo: per motivi epistemici sia della scienza che della politica.

Stefano Fontana

https://lanuovabq.it/it/scienza-e-politica-il-primato-rubato

Covid: stiamo attraversando un nuovo momento della Rivoluzione  

Pubblichiamo il saggio che don Marco Begato ha scritto per l’ultimo fascicolo del “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” dedicato al tema: COVID: LA CHIESA NELLA TEMPESTA. Il Fascicolo monografico propone studi di Begato, Crepaldi, De Mari, Fontana, Turco e Vignelli.  VEDI QUI l’indice.

Il Dossier può essere acquistato al prezzo di euro 8 (spese postali a nostro carico), scrivendo a: abbonamenti_acquisti@vanthuanobservatory.org

 

Il compito che ci prefiggiamo in questa è sede è  di provare a leggere l’epoca che stiamo attraversando a partire da uno sguardo teologico-filosofico. Due sono le premesse che si impongono. La prima: in che senso possiamo attribuire il titolo di ‘epoca’ ai pochi mesi di epidemia che stiamo attraversando? La seconda: cosa intendo con sguardo teologico-filosofico?

Parlerò di epoca e non di situazione perché, al di là del decorso della epidemia attuale, bisogna mettersi nell’ottica di essere entrati in una nuova fase storica. Le idee, i poteri, gli strumenti di comunicazione, la gestione delle masse, il nuovo ruolo delle religioni, tutto dice di un mutamento culturale che oso paragonare alla portata delle quattro grandi Rivoluzioni (luterana, giacobina, marxista, sessuale). La riflessione che svilupperemo servirà dunque ad allargare il nostro sguardo e a prepararci non semplicemente a rispondere all’emergenza presente, ma ad affrontare le novità.

Circa lo sguardo teologico-filosofico, mi riferisco all’impianto cattolico classico, che troviamo riassunto al n. 75 del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa: «Il conoscere della fede comprende e dirige il vissuto dell’uomo nella luce del mistero storico-salvifico, del rivelarsi e donarsi di Dio in Cristo per noi uomini. Questa intelligenza della fede include la ragione, mediante la quale essa, per quanto possibile, spiega e comprende la verità rivelata e la integra con la verità della natura umana, attinta al progetto divino espresso dalla creazione, ossia la verità integrale della persona in quanto essere spirituale e corporeo, in relazione con Dio, con gli altri esseri umani e con le altre creature». Forme di teologia sganciata dalla ragione, contraddittoria, retorica, ambigua, o forzature filosofico-idealistiche che manipolano il Magistero e mettono il pensiero mondano sopra la Rivelazione non saranno prese in considerazione, nonostante il crescente costume di farvi ricorso nel pensare e nell’agire di molte altolocate figure ecclesiastiche.

La crisi che stiamo vivendo non è anzitutto una crisi sanitaria. Epidemie e pestilenze hanno sempre accompagnato la storia dell’umanità, ma ad esse i popoli rispondevano dando fondo alle proprie risorse, non certo abdicando al proprio sapere o mettendo in discussione la propria identità. In prospettiva teologica la peste significava per certi versi una certezza, la certezza di finire nelle mani di Dio, e spronava i popoli a convertirsi per tornare all’ordine che li aveva fin lì preservati e nutriti. La reazione del tutto anomala che l’epidemia del Sars-CoV-2 ha innescato, dice di un problema culturale e non di un problema sanitario. Per meglio intenderci: in questi mesi ci hanno insegnato che il virus è causa naturale della reazione in corso, ma questa ipotesi è appunto quella che nego e contro cui voglio scrivere. Senza peraltro volermi cimentare in tesi complottiste – nulla togliendo al valore di alcune di esse – io affermo che l’epidemia è l’occasione in cui si va manifestando e scatenando appieno la variazione culturale rimasta latente negli ultimi decenni. Assumo il termine ‘variazione’ da un grande autore, Romano Amerio, che nel lontano 1984 prese nota delle variazioni accadute in seno alla vita della Chiesa, cioè di modifiche sostanziali, che però il mainstream vedeva come semplici evoluzioni e non come mutamenti gravidi di conseguenze dirompenti. Bene, lo stesso valga per l’analisi della pandemia: essa è epifania di quei mutamenti che da decenni stanno crescendo, che il mainstream considera come un progresso positivo e graduale, ma che in realtà dobbiamo leggere come modificazioni radicali che portano con sé potenziali dirompenti e destinati a stravolgere il volto della società come la conosciamo.

 

La “rivoluzione” secondo Plinio Correa de Oliveira

Per cercare di leggere da una prospettiva più ampia il fenomeno in corso, mi riferirò al contributo di tre autori, molto differenti per area di appartenenza. Incomincio dal pensatore brasiliano Plinio Correa de Oliveira, il quale sistematizzò in maniera semplice e acuta il concetto di Rivoluzione. Per cui la nostra prima domanda sarà: siamo all’interno di una Rivoluzione? Vediamo quali siano i caratteri della Rivoluzione. Un primo carattere è l’universalità: “Questa crisi è universale. Oggi non vi è popolo che non ne sia colpito” . Il secondo è l’unità: “Questa crisi è una […]. La Cristianità Occidentale costituì un tutto unico, che trascendeva i vari paesi cristiani, senza assorbirli. In questa unità viva si è prodotta una crisi che ha finito per colpirla nella sua totalità” . La Rivoluzione è totale: “Si dispiega in tutte le potenze dell’anima, in tutti i campi della cultura, in tutti i domini della azione dell’uomo” . E dominante: “Le nazioni occidentali sono gradatamente spinte verso uno stato di cose che si va delineando uguale in tutte” . È un processo “Questa crisi non è un fatto eccezionale e isolato. Costituisce, anzi, un processo critico già cinque volte secolare” . Dopo Lutero e il giacobinismo, Plinio individua le altre tappe rivoluzionarie nel Marxismo e nel Sessantotto, di qui la conta dei cinque secoli. C’è poi un tratto ulteriore che dobbiamo ricordare, ed è la piega tecno-scientifica che il processo rivoluzionario va assumendo con intensità crescente: «La Rivoluzione confida nell’uomo. Autosufficiente mediante la scienza e la tecnica, egli può risolvere tutti i suoi problemi, eliminare il dolore, la povertà, l’ignoranza, l’insicurezza» . In particolare, quello che era un elemento tipico dell’uomo moderno, si profila come un distintivo imprescindibile dello sviluppo della cultura più avanzata, al punto che se pure è «impossibile prevedere, nella prospettiva marxista, come saranno la ventesima o la cinquantesima Rivoluzione. Però non è impossibile prevedere come sarà la IV Rivoluzione. Questa previsione l’hanno già fatta gli stessi marxisti» e la teoria prevede «il crollo della dittatura del proletariato in conseguenza di una nuova crisi, per cui lo Stato ipertrofizzato sarà vittima della sua stessa ipertrofia; e scomparirà, dando origine a uno stato di cose scientista e cooperativista» .

L’estensione, la pervasività e la qualità evidentemente tecnica della crisi in corso collimano perfettamente con la descrizione del processo rivoluzionario fatta da Correa de Oliveira. Ora, non voglio dire che siamo davanti a una fase rivoluzionaria pari alle altre su elencate, né tanto meno intendo indicare nello stato di cose corrente l’esito di una pianificazione mirata. È sufficiente, tanto quanto innegabile, riconoscere che l’emergenza coronavirus esprime al meglio la visione rivoluzionaria. Preciso a riguardo due aspetti. Il primo è che Plinio stesso parla della crisi come di un processo che colpisce l’intera cristianità, e ciò significa che non dobbiamo subito immaginare tavoli di comando diretti contro le masse, ma è bene che ci avvediamo di come l’evoluzione della cultura contemporanea comporti essenzialmente la maturazione di istanze rivoluzionarie spontanee nella popolazione, dai quadri di potere fino alle fasce più povere. Connesso a ciò si ricordi che per Plinio la Rivoluzione sboccia dai vizi dell’orgoglio e della sensualità: quanto più gli uomini sono preda di tali passioni, tanto più autonomamente creeranno le condizioni per un aggravamento del processo rivoluzionario. Chi ha orecchie, ascolti. D’altra parte, alla domanda pertinente il portato rivoluzionario dei fatti, rispondo dicendo che, per quanto ne capisco, col procedere dei decenni assisteremo sempre meno a grandi esplosioni rivoluzionarie – come avveniva in passato, quando cioè le prime Rivoluzioni aggredivano e smantellavano un ordine sociale tradizionale – e sempre più a graduali passaggi di fase. Tutto questo illustra bene il periodo che stiamo attraversando e dunque, sì, reputo che quanto sta avvenendo esprima in tutto e per tutto un momento della Rivoluzione. Se i più non se ne avvedono, è perché sono già tronfi degli umori della Rivoluzione.

 

La nemesi medica di  Ivan Illich

Una seconda osservazione riguarda lo statuto specifico della crisi medico-sanitaria. Qual è la portata effettiva del problema che stiamo affrontando? La tesi che assumo sposta l’attenzione dalla minaccia del virus alla minacciosità del mondo medicale. Tale considerazione è ispirata agli studi che Ivan Illich pubblicò nel lontano 1976, la cui attualità è a dir poco abbacinante. Il testo cui mi riferisco è Nemesi Medica, esso esplora il fenomeno della iatrogenesi, l’insieme di complicazioni che la medicina porta sul paziente. Il merito di Illich è aver individuato la portata del fenomeno su almeno tre piani. «La iatrogenesi clinica che si verifica quando la capacità organica di reazione e di adattamento viene sostituita da una gestione eteronoma… La iatrogenesi sociale, che insorge quando l’ambiente è privato di quelle condizioni che permettono agli individui, alle famiglie e alle comunità di tenere sotto controllo i propri stati interni e gli spazi in cui vivono. La iatrogenesi culturale rappresenta un terzo modo di negazione della salute… quando l’impresa medica distrugge nella gente la volontà di soffrire la propria condizione reale» . A dire che uno stesso fenomeno biologico – poni caso il Sars-CoV-2 – potrebbe conoscere risposte ben differenti a seconda della cultura con cui venga a contatto. Ora, la nostra cultura è permeata di iatrogenesi sociale. Questo cosa comporta? Secondo Illich la «burocrazia igienica ferma il genitore alle porte della scuola e il minore alla soglia del tribunale, e porta via il vecchio da casa sua» . Si tratta di un meccanismo deviato che: «tramuta l’indipendenza della normale persona sana in una forma intollerabile di devianza» . Al punto che «l’individuo è subordinato alle superiori esigenze del tutto, le misure preventive diventano obbligatorie, e il diritto del paziente a negare il consenso alla propria cura si vanifica allorché il medico sostiene ch’egli deve sottoporsi alla diagnosi non potendo la società permettersi il peso d’interventi curativi che sarebbero ancora più costosi» . Illich considera la iatrogenesi sociale all’opposto del placebo, come una sorta di effetto nocebo che rende più vulnerabili i cittadini di fronte alle malattie. Ulteriore effetto di tale impostazione è che la «medicina moltiplica gli ammalati in quantità esorbitanti» , fino all’assunto secondo cui «il cittadino, finché non si prova che è sano, si presume che sia malato»  e in tal modo la stessa salute diventa «una meta perennemente lontana cui si ha il diritto di aspirare» .

Illich procede oltre e denuncia la dimensione culturale della iatrogenesi. In primo luogo si distingue tra le culture in senso tradizionale, che sono “sistemi di significati” mentre la nostra “civiltà cosmopolita è un sistema di tecniche” . Da questa visione escono risemantizzati tutti gli altri concetti e, a ruota, crescono problemi che in altri contesti non si sarebbero mai posti: «i gravi problemi di personale, di risorse finanziarie, di diritto di accesso, di capienza e di gestione che affliggono gli ospedali dappertutto si possono interpretare come i sintomi di una nuova crisi del concetto di malattia» . Ovviamente il sistema si perpetua attraverso narrazioni socio-politiche coerenti con esso e ciò spiega la generale remissività dei popoli anche davanti a palesi ingiustizie: «gli uomini si ribellerebbero se la medicina non spiegasse il loro scombussolamento biologico come un difetto della loro salute, invece che come un difetto del modo di vivere che viene loro imposto» .

Accontentandoci di pochi cenni, ricordiamo come insieme alla malattia, l’altro grande concetto meritevole di analisi culturale sia quello di morte. La risignificazione della morte è tutt’uno con la giustificazione delle dinamiche di controllo sociale: «l’immagine della morte che una società si crea rivela il grado di indipendenza dei suoi membri, il tipo delle loro relazioni personali, la misura della loro autonomia e del loro attaccamento alla vita» . Da essa scaturiscono dinamismi centrifughi e socialmente deleteri: «la morte minaccia la coesione e quindi la sopravvivenza dell’intero gruppo. Scatena infatti un’esplosione di paura e forme irrazionali di difesa» . In sintesi Illich legge lo sviluppo moderno dell’apparato medicale nei termini di un sistema tecnico, dalla simbolica religiosa, perfettamente corrispondente alla struttura economico-politica dominante:  «con la medicalizzazione della morte l’assistenza sanitaria è diventata una religione mondiale monolitica, i cui dogmi sono oggetto di insegnamento in scuole obbligatorie… la sessualità è diventata una materia di programma e spartire il proprio boccone di pane è sconsigliato in nome dell’igiene. La lotta contro la morte, che impronta di sé lo stile di vita dei ricchi, è tradotta dagli enti di sviluppo in una serie di regole che tutti i poveri della terra dovranno rispettare» .

Ciò che stupisce dell’analisi mossa da Illich è la perfetta coerenza tra le critiche da lui mosse al sistema sanitario degli anni Settanta con quelle che oggi ci troviamo ad attribuire alla gestione della epidemia. Per cui affermo che la crisi vigente sia stata da un lato la semplice e in fondo prevedibile conseguenza dei difetti già in essere nel concetto medico contemporaneo, e dall’altro che essa abbia però il merito di averli manifestati platealmente al mondo e al cittadino comune, mentre prima tali nodi erano evidenti solo all’esperto (l’Illich di turno). Ascoltiamo dunque l’eco dei moniti di Ivan Illich, anche per trarne gli opportuni sproni a reagire – se possibile – ad un caos che, altrimenti, continuerà indisturbato nel suo corso. Si badi inoltre come questo non abbia a che vedere con un complotto, ma con una radicata Weltanschauung. Per cui non ci serve un’azione di protesta, ma il risveglio di una sana critica culturale. E tale critica non può limitarsi al momento Covid-19, bensì dovrà estendersi per rispondere, se non a tutti, di certo a molti dei punti critici diagnosticati in “Nemesi Medica”.

 

Il risveglio delle coscienze secondo Vaclav Havel

Un autore che considero prezioso per tematizzare il risveglio della coscienza è Vaclav Havel, soprattutto nelle pagine del suo “Il potere dei senza potere”. Qui l’autore riflette a partire da quella che sembrava una stagione di grandi cambiamenti, ma che tale in realtà non fu: «Il 1968 non arrivò – per quello che riguarda i cambiamenti strutturali reali – che alla riforma, alla differenziazione o al ricambio di strutture solo subalterne dal punto di vista del potere reale… Non si registrò niente più che un cambiamento di atmosfera» . Dietro a tale rivoluzione apparente Havel riconosce un’opportunità, subito accompagnata da una grave insidia: «In questa situazione ci sono solo due possibilità: o il sistema continuerà a sviluppare i propri elementi post-totalitari e si avvicinerà inesorabilmente all’allucinante immagine che Orwell dà del mondo dell’assoluta manipolazione, soffocando definitivamente tutte le manifestazioni più articolate di vita nella verità; oppure la vita indipendente della società, inclusi i movimenti dissidenti, si trasformerà lentamente ma inevitabilmente in un fenomeno sociale sempre più importante» . E dunque il Sessantotto, rivoluzione di facciata, si presenta come un evento illusorio, manipolatore di coscienze, dietro al quale è avanzata in forme nuove la politica del controllo e della disumanizzazione, inaugurata dai totalitarismi ed ereditata dalle democrazie moderne. Sul fatto che pochi se ne siano avveduti, lo stesso Havel spiega: «la situazione nel sistema post-totalitario, finché non si arriva a situazioni esplosive è statica e stabile; la crisi sociale nella maggioranza dei casi è solo latente; la società non presenta una netta polarizzazione… Dispone di un meccanismo così perfetto di controllo globale diretto e indiretto della società che non ha uguali nella storia, risulta evidente che ogni tentativo di rivolta non solo sarebbe politicamente senza prospettive, ma anche impossibile tecnicamente» . Eccoci allora di fronte a un secondo autore affatto distante da una visione cristiana classica, che con lucidità riconosce l’alone totalitario del potere contemporaneo e ci aiuta a comprendere, al di qua di ogni complotto, come la denuncia totalitaria del sistema governativo vigente sia valida e legittima, resa più urgente dagli sviluppi degli ultimi mesi, ma in sé ben precedente alla crisi epidemiologica.

La contro-proposta di Havel si snoda attorno a un episodio aneddotico: «Il direttore del negozio di verdura ha messo in vetrina, fra le cipolle e le carote, lo slogan: “Proletari di tutto il mondo unitevi!”. Perché l’ha fatto? L’ha messo in vetrina perché sono anni che lo fa, perché lo fanno tutti, perché si deve fare così… Mi comporto come ci si aspetta che faccia» . Havel racconta come potrebbe avvenire il risveglio civico: «Immaginiamo che un bel giorno qualcosa si ribelli nel nostro ortolano e che la smetta di esporre gli slogan solo perché gli fa comodo… La sua ribellione sarà un tentativo di vita nella verità» . L’ideale haveliano sarà anche il nostro: al fine di uscire dallo stallo post-totalitario in cui ci troviamo è necessario lavorare per la consapevolizzazione delle coscienze, risvegliandole alla luce che alberga nel profondo di esse: «Sotto la superficie ordinata della vita nella menzogna dorme quindi la sfera segreta delle reali intenzioni della vita, della sua segreta apertura alla verità… Si tratta di uno spazio segreto e quindi nell’ottica del potere molto pericoloso» . Tale azione non comporta violenza o ribellioni formali, bensì agisce su un piano di potere differente e perciò davvero insidioso per i Diadochi attualmente al comando: «Non si tratta in origine di un confronto sul piano di un potere oggettivo,…si tratta di un livello del tutto diverso, quello della coscienza e della conoscenza umana, il livello esistenziale… Si estende alla quinta colonna della coscienza sociale, delle segrete intenzioni della vita, dell’aspirazione umana ad una propria dignità che viene soffocata e all’attuazione dei diritti elementari» . Dalla maturazione delle coscienze possiamo attenderci un cambio di atteggiamenti e di attese e un ritrovato protagonismo dei cittadini all’interno dello Stato; dalla vita attenta alla verità possiamo aspettarci una maturazione civica capace di riportare il potere governativo all’interno dei propri giusti confini e di interromperne istantaneamente gli abusi; in ogni caso siamo avvertiti, lo strumento politico è conseguente al protagonismo antropologico: «Una cosa sembra chiara: il tentativo di riforma politica non fu la causa del risveglio della società, ma il suo esito ultimo» . O così o vedremo trionfare la distopia orwelliana, nel cui mondo siamo già ampiamente immersi, nonostante la maggior parte delle coscienze sia stata resa tanto ottusa da non avvedersene. E ciò va detto anche per molti cristiani, che pagano qui il fio di un compromesso col mondo agito nell’ultimo mezzo secolo in maniera acritica e imprudente. Che poi, se abbiamo ragione della riflessione fin qui condotta, l’autentico cattolicesimo ne esce nuovamente confermato: la religione che più di tutte, nella sua verità, ha da sempre guidato gli uomini alla liberazione del proprio spirito, è quella che davanti a tutte potrà guidarci nel risveglio sociale delle coscienze che precederà e presiederà il rinnovamento politico.


Don Marco Begato

Istituto salesiano Don Bosco, Brescia

Collegio degli Autori dell’Osservatorio

https://www.vanthuanobservatory.org/covid-stiamo-attraversando-un-nuovo-momento-della-rivoluzione-di-don-marco-begato/

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