SOLO DIO E' L'AMORE PERFETTO
E qual cosa v’era che mi dilettasse se non l’amare e l’essere amato?, si domandava sant’Agostino rievocando gli anni della sua infanzia e adolescenza (Confessioni, II, 2). Amare ed essere amati: certo; che altro desidera l’uomo più di questo?
Tutti, sin dalla più tenera età, sin da quando si agitano nella culla e chiedono di essere presi in braccio dalla propria madre, questo prima di ogni altra cosa hanno in cuore: l’ardente desiderio di ricevere amore, e più tardi, crescendo, anche quello di donarlo a propria volta. L’amore, per l’essere umano, non è soltanto un oggetto, uno fra gli altri, per quanto particolarmente desiderabile; è molto di più: tutti, più o meno coscientemente, avvertono che esso è lo scopo, la meta finale e il destino della propria esistenza. Si può immaginare un essere umano il quale non abbia mai sperimentato, né desiderato, il successo, il potere o il piacere, ma difficilmente si può immaginare un essere umano che non abbia mai sentito l’impulso fondamentale di amare ed essere amato. L’amore è l’orizzonte esistenziale proprio dell’essere umano, anche se non è detto che poi si indirizzi verso una persona in senso sessuale; può essere anche l’amore di un genitore per un figlio, o di un figlio per il genitore, o di un fratello per il fratello; può essere l’amore per un ideale, per una grande idea, come nel caso del missionario che desidera donarsi interamente ai lebbrosi, e in genere all’umanità bisognosa; può essere l’amore per la natura, per gli animali, spinto fino ad amare il proprio animale domestico più di qualsiasi altro essere al mondo (e qui siamo già alle soglie d’un amore patologico: difficile stabilire il confine preciso). Una bambina può struggersi e soffrire disperatamente, in silenzio, nella vana attesa di ricevere da sua madre un segno d’amore, uno sguardo, una carezza, una parola affettuosa. Un uomo può sentirsi invadere dalla disperazione perché l’amata compagna della sua vita, afflitta da una malattia psichiatrica, non è più lei, è diventata un’altra persona, un’estranea remota, irraggiungibile e insensibile a tutto l’amore che lui vorrebbe continuare a offrirle. Nessuno è tanto forte da poter fare del tutto a meno dell’amore; e pochi sono talmente aridi da non aver mai provato uno slancio d’amore nei confronti di qualcun altro. Sia come bene da desiderare, sia come pienezza da donare, l’amore riempie l’orizzonte esistenziale di ogni essere umano e si confonde con esso: impossibile immaginare una vita totalmente deserta di amore; impossibile anche immaginare che la sua scomparsa, o la sua assenza, non provochi un’intima, dolorosissima lacerazione e un senso di vuoto, di nulla, che grava sul cuore come una cappa di piombo. Qualunque cosa si pensi dell’amore, noi siamo fatti sulla sua misura; e se non siamo capaci di amare nella maniera giusta, impazziamo, e il nostro bisogno di dare e ricevere amore prende strade inconsuete, pericolose, devianti e perfino degradanti. Vi sono persone che pur di essere amate, accondiscendono a subire i trattamenti più oltraggiosi e umilianti: preferirebbero la morte piuttosto che perdere l’amore, anche se nei momenti di lucidità si rendono conto, o almeno intuiscono, che quello non può essere amore, ma la sua tragica contraffazione.
Si nasce per amare, ma solo Dio è l’Amore perfetto!
L’amore non va confuso con la sessualità, anche se, nell’amore fra uomo e donna, questo elemento è certamente presente, magari talvolta in forma sublimata, repressa o rimossa. Ma se è certo che la sessualità non può, o non dovrebbe, fare a meno dell’amore, per non diventare uno squallido gioco di corpi che si usano a vicenda, è altrettanto certo che l’amore può fare a meno della sessualità, come avviene in un’autentica relazione d’amore tra genitori e figli, o tra fratelli e sorelle, o anche fra amici: perché esiste un amore di amicizia che può essere perfino più totale e incondizionato dell’amore che si esprime in forma sessuale. Gesù Cristo afferma solennemente che non vi è amore più grande di quello di colui che è pronto a dare la propria vita per i suoi amici (cfr. Gv., 15,13), e questa è la definizione più alta e più vera dell’amore di amicizia, che può esistere, certo, anche entro una relazione di coppia, ma che al di fiori della sfera sessuale divine più puro, perché del tutto privo di sottintesi, aspettative e utilitarismi, sia pure del tutto inconsapevoli.
Ora, questa universalità e totalità del desiderio di amare ed essere amati attesta chiaramente una cosa: che l’amore, l’amore con la A maiuscola, deve esistere. Noi non lo brameremmo, se non ne avessimo una qualche nozione inconscia; così come il viandante nel deserto non proverebbe la sete, se l’acqua non esistesse. Forse morirebbe di sete senza sapere il perché; ma il fatto che non si conosca il nome di una cosa, che pur si desidera, non smentisce, anzi conferma, che quella tale cosa deve necessariamente esistere. Gaunilone credeva di aver confutato la prova ontologica di sant’Anselmo di Aosta circa l’esistenza di Dio, con la sua famosa metafora dell’isola perduta che nessuno conosce, ma che si ritiene debba esistere, solo perché più bella e più desiderabile di qualsiasi altra isola si possa immaginare: misera argomentazione (che approfondiremo un’altra volta), perché comunque esiste nella mente umana la nozione di isola, così come esiste la nozione di bello, e anche la nozione di sconosciuto: dunque non è affatto illusorio dedurre che l’isola dei nostri sogni deve esistere, perché la nostra mente sempre desidera qualcosa sulla base dei dati che la sua coscienza possiede e l’esperienza le mette a disposizione. Se non esistesse la nozione di isola, né di bellezza, né di sconosciuto, allora si potrebbe dire che il ragionamento di Anselmo (riferito peraltro a Dio e non a un’isola) è capzioso, ma la semplice riflessione mostra il contrario: se immaginiamo qualcosa e la desideriamo, è perché abbiamo tratto dall’esperienza alcuni elementi che agiscono sulla nostra coscienza e ci danno la ragionevole certezza, anche solo a livello istintivo, che quella tale cosa deve esistere. In altre parole, il desiderio in se stesso non è mai vano: può essere vano il suo oggetto, nel senso che può essere diverso da quello sognato; ma il desiderio è indubitabile, e poiché si desidera, sì, qualcosa di indefinito, specie quando si tratta dell’amore, ma non qualcosa di astratto, bensì di concreto, cioè qualcosa di cui si è fatta una sia pur debole esperienza, o si è avuto un sia pur labile indizio, la conclusione è che l’oggetto del desiderio deve necessariamente esistere, altrimenti non potremmo desiderare.
Per Fulton J. Sheen solo in Dio si consegue l’estasi dell’Amore Perfetto e la Felicità del cuore!
In effetti, si applica qui lo stesso ragionamento che conduce alla nozione di essere, e su cui si fonda tutta la filosofia (quella vera, cioè la metafisica, non la speculazione parziale e strumentale su singoli aspetti del fenomeno). Noi abbiamo la certezza che l’essere esiste, perché osserviamo che esiste necessariamente non questa o quella cosa (la quale, in effetti, potrebbe anche non esistere), ma perché esiste qualcosa, e questo qualcosa è il fondamento di qualsiasi altro esistere, e dunque di qualsiasi altro essere. L’essere è il sostegno logico e necessario di qualsiasi cosa esistente o anche solo pensabile, cioè di qualsiasi cosa partecipi della proprietà dell’essere. Non di quell’essere specifico che è grande o piccolo, bianco o nero, semplice o complesso: ma di quell’essere che è, che esiste, che è pensabile, e che pertanto deve essere per forza o grande o piccolo, o bianco o nero (o di qualsiasi altro colore), o semplice o complesso. E comprendiamo così che esiste una differenza fondamentale fra i singoli enti e l’essere in quanto tale: gli enti sono specifici e determinati, hanno cioè una propria individualità e particolarità, al punto che non esistono al mondo due enti perfettamente uguali; l’essere invece è universale e necessario, indeterminato non nel senso che non abbia una determinazione, ma nel senso che comprende in sé tutte le determinazioni possibili, e le fornisce ai singoli enti, conferendo loro, così, una individuazione concreta, precisa, unica e irripetibile. Tali sono ad esempio le nostre singole esistenze: che non sono concepibili, né possibili, se si fa astrazione dal fatto che ciascuno di noi è fatto in un certo modo e non in un altro, con certe caratteristiche fisiche, psichiche e morali, con un certo modo di relazionarsi con gli altri, eccetera. Ma noi, come ogni altro singolo ente, non siamo autonomi, non siamo autosufficienti, perché non ci siamo determinati da soli e non ci siamo dati l’essere da noi stessi, lo abbiamo ricevuto, quindi lo possediamo per partecipazione e non per generazione. Nessun ente si genera da se stesso: tutti, per venire all’esistenza, attingono da un qualcosa che è al di fuori di loro, prima di loro, più libero rispetto a loro, nel senso che essi hanno ricevuto e non scelto l’esistenza, mentre chi ha dato loro l’esistenza (ad esempio uno scrittore che dà l’esistenza al suo romanzo) avrebbero potuto anche non farlo, poiché in possesso della libertà di fare o non fare, di trasmettere la catena dell’esistenza o d’interromperla (come un uomo che, deluso dalla vita decide di non amare più, di non dare più nulla ad alcuno, e, se è un artista, di non comporre più un rigo musicale, o una pagina di prosa, o un verso di poesia).
E qual cosa v’era che mi dilettasse se non l’amare e l’essere amato?, si domandava sant’Agostino rievocando gli anni della sua infanzia e adolescenza (Confessioni, II, 2).
Citiamo la pagina conclusiva del libro di Fulton J. Sheen La felicità del cuore (Lift Up Your Earth: A Guide to Spiritual Peace, Garden City Books, 1950; traduzione dall’inglese di Etta Comito e Augusto Donaudy, Napoli, Richter, 1952, pp. 398-399):
In alto i cuori! La ricerca del piacere testimonia di un vuoto che solo il Divino può colmare. Chiunque non sia innamorato dell’Amore insegue un paradiso artificiale, e con tanta ostinazione cercherebbe il Cielo se al Cielo appunto non fosse destinato? Nel suo cuore è un terribile vuoto. Ogni suo peccato non è che un tentativo di colmare questo vuoto. Tutti gli amanti senza Dio sono amanti delusi.
Solo Dio può amare se stesso, in quanto è Perfetto; l’Ego non può esser pago dell’amor di sé, in quanto è imperfetto. Perciò gli uomini si amano reciprocamente: per compensare la loro mancanza di perfezione. Perché ciò che amiamo negli altri è, quasi sempre, ciò che manca in noi. Ma il nostro amore per un qualsiasi essere umano è sempre inficiato da un paradosso che gli impedisce la perfezione. Difatti, se io amo, vuol dire che sono amato. Ora, se la persona che mi ama, mi ama con assoluta dedizione cessa di esistere: sono io che la domino, che la posseggo, che la soggiogo, al punto che, come un’immagine di Dio, essa non esiste più di per sé, ma solo per me. In tal caso non mi rimane nessuno da amare. Ma se non mi ama al punto da arrendersi incondizionatamente al suo amore per me, vuol dire che non mi è devota, che non appaga le mie esigenze, perché io sono fatto per l’amore infinito ed essa non mi ama abbastanza.
Nell’amore che prescinde da Dio c’è dunque fame e sazietà al tempo stesso: fame, perché l’umana creatura non può amare abbastanza sazietà, perché ama troppo. L’unica evasione possibile da questo paradosso è l’Amore di Dio. In Lui non c’è fame, perché in Lui si consegue l’estasi dell’Amore Perfetto, la Felicità del cuore. “Voluptas cordium”. Né in Lui c’è sazietà, perché occorrerebbe un’interminabile eternità per cominciare a scandagliare le profondità dell’Amore Divino. Dio è Amore, e l’amore è ciò che desideriamo e di cui abbiamo bisogno. Amore è il nostro destino.
L'amore terreno può esserci tolto, mai quello di colui che ci ha amati da prima che fossimo concepiti e ci amerà per sempre fino all’ultimo: Dio! Purché noi Glielo permettiamo!
Il punto è proprio questo: qualsiasi amore terreno può esserci tolto: o dall’incostanza della persona amata, o da una forza esterna e inesorabile, in particolare dalla morte. In tal caso, l’anima resta come mutilata: sente che le è stato strappato via qualcosa d’infinitamente prezioso e non riesce a darsene pace. E nondimeno, anche se sappiamo che ogni cosa amabile può esserci tolta, noi la cerchiamo, la bramiamo e, se riusciamo a raggiungerla, ci attacchiamo ad essa come se ciò dovesse durare per sempre e resistere a qualsiasi ostacolo. E invece, quanto è fragile la natura umana! Basta ad esempio una grave forma depressiva, non diagnosticata e non curata per tempo; basta un incidente che menomi l’intelligenza, una banale caduta dalle scale, o un errore di guida recandosi al lavoro; basta una malattia come il morbo di Alzheimer: e l’amore di quella persona ci sarà tolto per sempre, insieme a tutto ciò che di essa abbiamo amato e giudicato amabile. Certo, si può, anzi si deve rimanere fedeli alla promessa d’amore: ma l’amore in se stesso non c’è più, vi si è sostituita la pietà, o il sentimento del dovere; per continuare ad amare quella persona, ormai irriconoscibile, bisogna ingannare se stessi e continuare a vederla com’era un tempo, com’era prima. Ecco allora che l’anima, una volta compresa questa verità fondamentale, la caducità di ogni ente, comincia a rivolgersi nella direzione giusta: verso l’amore che non sfiorisce, né s’interrompe; verso la pienezza che non delude mai; verso l’essere che non riceve l’esistenza da altri, ma la possiede da se stesso, e che perciò è in grado d’irradiarci sempre, d’illuminarci sempre, di riscaldarci sempre, di consolarci sempre. Allora, e solo allora, comprendiamo la vera natura dei nostri amori precedenti, quelli terreni: non erano altro che dei tentativi esitanti, dei riflessi e delle approssimazioni, molto limitate e imperfette, del solo, vero, grande Amore che regna su tutto e che tutti chiama a Sé. Amando quella certa persona, noi abbiamo cercato, inconsciamente, l’Amore divino, così come l’uomo adulto, amando una certa donna, cerca inconsciamente l’amore della sola donna che lo ha amato incondizionatamente, fin da prima che nascesse: sua madre. Ebbene, Dio è colui che ci ha amati da prima che fossimo concepiti e ci amerà per sempre, fino all’ultimo, purché noi Glielo permettiamo...
Si nasce per amare, ma solo Dio è l’Amore perfetto
di Francesco Lamendola
“Occorre non essere né scismatici né eretici, per essere interamente di Cristo”
V Domenica di Pasqua
(Anno B)
(At 9,26-31; Sal 21; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8)
di Alberto Strumia
Oggi la prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, fa riferimento alla “conversione di Paolo”, un nemico della Chiesa interno alla comunità religiosa ebraica che viene convertito alla “vera comunità religiosa”, da un intervento diretto di Cristo che lo affronta lungo la via di Damasco. Il resoconto di questa conversione, che Barnaba fa alla prima comunità cristiana («raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato»), deve farci riflettere sulla situazione che stiamo vivendo ai nostri giorni.
Da diverso tempo possiamo dire che, ormai, i nemici della Verità, i nemici di Cristo, non sono più solamente “esterni” alla comunità religiosa, ma sono in gran parte “interni”. In un numero crescente come non si era mai visto prima. Paolo era uno dei capi della comunità religiosa del suo tempo ed era un convinto avversario di Cristo e dei cristiani, di quegli stessi giudei che si erano già convertiti al cristianesimo ed erano divenuti la “prima Chiesa”: i “giudeo-cristiani”, prima ancora della conversione dei pagani, gli “etnico-cristiani”.
I “giudeo-cristiani” convertiti a Cristo, ebrei di fede come Paolo («Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io!», 2Cor 11,22), non sarebbero mai riusciti a convincerlo, pur con tutta la loro determinazione, la loro buona volontà, le loro ragioni, la loro testimonianza. È stato necessario un “intervento diretto” di Gesù Cristo, di Dio stesso, per farlo arrendere all’evidenza della Verità («Cadendo a terra udì una voce che gli diceva:“Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Rispose: “Chi sei, o Signore?”. E la voce: “Io sono Gesù, che tu perseguiti!”», At 9,4-5). Allo stesso modo, si direbbe che anche oggi occorra un intervento diretto di Cristo nella nostra storia presente, perché dentro e fuori la Chiesa ci si arrenda a Lui. Le forze di coloro che sono forse “gli ultimi cristiani”, come allora lo erano “i primi cristiani”, la determinazione, la buona volontà, le ragioni, la testimonianza non bastano. «È tempo che tu agisca, Signore; hanno violato la tua legge» (Sal 119, v. 126). È anche la nostra preghiera, ormai da tempo, ogni giorno.
– Dalla tentazione di “cedere per sfinimento” adattandosi al “pensiero unico” del mondo penetrato nella Chiesa ci difendono – oltre ad un’istintiva ripugnanza che “la ragione” ci fa avvertire e “la fede” ci conferma – le parole della seconda lettura di questa domenica: «Abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da Lui». E la cosa che gli chiediamo è di intervenire direttamente, come Lui sa fare e quando Lui ritiene di fare. E sappiamo di essere esauditi «perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito». Si tratta solo di “resistere” nel tempo, senza cedere alla seconda tentazione, quella di staccarsi dalla Chiesa.
– Dalla seconda tentazione, quella di allontanarsi dalla Chiesa (fino a non andare più a Messa e di privarsi dei Sacramenti), di scegliere la via dello “scisma esterno” (andarsene) in opposizione dello “scisma interno” (alla Chiesa, ad opera di quei capi che rinnegano il deposito della fede manipolandolo), ci salvano le parole di Gesù stesso nel Vangelo di oggi: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me». Per rimanere “oggettivamente” un tutt’uno con la Vite, con Cristo, Lui non ci ha dato altro mezzo “oggettivo” che l’appartenenza alla Sua Chiesa, fondata sugli Apostoli e i loro successori con i quali non si può rompere la comunione, neppure nel momento in cui si fosse costretti a rimproverarli per richiamarli al loro dovere di fedeltà a Cristo. Solo Dio ha il compito di tagliare i tralci che non portano frutto (o peggio ne portano uno velenoso!): «Il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia». E siamo anche avvertiti del fatto che la prova che stiamo vivendo oggi altro non è che una profonda potatura, per l’approfondimento della nostra fede: «ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto».
Attenzione, dunque, a non cedere al “meglio scismatici che eretici”. Occorre, piuttosto, non essere né scismatici né eretici, per essere interamente di Cristo. Perché «il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me».
Occorre, dunque, imparare a non rompere la comunione oggettiva lasciandosi prendere da reazioni isteriche violente, con la fermezza di non cedere di fronte all’imposizione di andare contro i Comandamenti di Dio: «Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in Lui» (seconda lettura).
Così hanno fatto, ben prima di noi tutti quei santi che sono stati messi alla prova e perseguitati dall’esterno e dall’interno della Chiesa, dando prova di fedeltà a Cristo e alle Sue disposizioni.
Maria alla quale il mese di maggio, appena iniziato, è particolarmente dedicato, e Giuseppe suo sposo, ci sono vicini e ci proteggono. Alla loro intercessione ci affidiamo con piena serenità: «Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio» (seconda lettura).
Bologna, 2 maggio 2021
Alberto Strumia, sacerdote, teologo, già docente ordinario di fisica-matematica presso le università di Bologna e Bari.
fonte: albertostrumia.it
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