Essere per l’eternità
(Grazie a Massimo Martelli)
“Soltanto la libertà rende possibile la ‘decisione’ ovvero la scelta assoluta dell’Assoluto che è ‘Dio nel tempo’ (Gesù Cristo) in cui consiste per il cristiano l’atto di fede, il rischio assoluto della salvezza”1.
Solamente se si riesce a superare la fase del peccato (la ribellione della volontà), l’uomo può, tramite il sincero pentimento e la giusta penitenza, ergersi alla sfera della speranza: “Il circolo della libertà sembra crescere per spinta propria all’interno di se stesso e toccare il centro dell’io dall’interno delle sue aspirazioni che è la soddisfazione del Sommo Bene, il conseguimento della felicità eterna oltre il tempo e la morte. Così, mentre la fede che fa aderire l’anima a Dio e ai supremi misteri della salvezza mette lo spirito in tensione, la speranza quale virtù teologica mette nella ‘protensione’ che è lo slancio di aspirazione verso il futuro teologico che è il conseguimento di Dio. […] Proprio alla speranza spetta il compito di sopportare e svolgere l’arduo compito della vita cristiana, di sostenerla nelle sue prove, di animarla e stimolarla nei momenti di maggiore oscurità, pena e dolore. Essa è la ‘virtù esistenziale’ per eccellenza. […] I ‘momenti’ della speranza dovrebbero articolarsi con dinamismo opposto a quello del Sein und Zeit (‘Essere e tempo’) di Martin Heidegger. All’’essere nel tempo’, che è necessariamente un essere intrinsecamente finito – ed appunto secondo l’espressione agghiacciante di Heidegger un ‘essere per la morte’ (Sein zum Tode) – bisogna contrapporre un ‘essere per l’eternità’ ed allo pseudo-trascendersi della esistenza (Dasein) nel mondo, il trascendere della libertà nella vita eterna che fiorisce appunto nella speranza oltre la tomba. […] La speranza scuote l’anima dalla pigrizia, liberandola dalla ‘presunzione’ di una fede inerte e senza opere d’amore, e riempie l’uomo di filiale fiducia verso il Padre celeste che ci ha creati con amore, verso il Figlio che ci ha redenti con amore e lo Spirito Santo che ci santifica nell’amore. L’amore onnipotente e l’onnipotenza amorosa, ecco il cardine della speranza come movimento esistenziale. Questa struttura amorosa della speranza esistenziale è una caratteristica della teologia paolina: ‘L’amore tutto spera’ (I Cor 13,7)”2.
Abbiamo visto come “verità e libertà sono per lo spirito finito due esigenze convergenti, essenzialmente complementari: sono le due ali che ci permettono di elevarci a volo dal grigiore informe della possibilità verso la concretezza della realtà a cui si volge la verità”. Nella “sintesi in movimento, mai compiuta, di finito e d’Infinito” in cui consiste l’enigma della libertà, la testimonianza per eccellenza è data dal martirio, il donare la propria vita nell’atto estremo del sacrificio della vita stessa, “come partecipazione alla Morte di Cristo”. “La testimonianza attinge il suo significato radicale nella verità che salva e la sua istanza radicale nel testimonium sanguinis la cui effusione …melius loquentem quam Abel (Hebr. 12,24)”. Il martirio cristiano implica due elementi: uno oggettivo, ed è “la verità rivelata che trascende ogni mente creata” ossia “i dogmi della fede”; e uno soggettivo, che è “la testimonianza davanti al mondo, l’esercizio dell’atto di fede: il passaggio dal ‘si deve credere’ oggettivo allo ‘Io credo’ che è il passaggio dalla possibilità alla realtà oppure il passaggio dal dover essere all’essere. Qui si palesa per noi il momento più profondo della vita dello spirito nel suo costituirsi come persona, ossia come soggetto responsabile della scelta rispetto al suo fine ultimo concreto e della sua attuazione esistenziale. Qui verità e libertà si ergono e s’impongono al massimo della loro distinzione ed insieme attuano la più intima e operante appartenenza”. Se credo “salgo alla verità che salva”, laddove la libera decisione costituisce “quel ‘supplemento d’anima’ che è la forza dell’amore”. Nello specifico dell’atto della fede teologica “si tratta di un ‘supplemento di tutta l’anima’, perché esso implica tutta la libertà, ossia vuole la rinuncia in atto o almeno come disposizione a perdere tutta l’anima ossia la vita presente in questa vita, per guadagnare tutta l’anima nella vita a venire”. Ecco perché S. Tommaso afferma che “il battesimo che più ci unisce a Cristo non è quello dell’acqua, ma è quello del sangue ‘in quantum quis conformatur Christo patiendo’”. Infatti “ogni testimonianza è tale in proporzione della conformità al Modello ossia nella comunione alla sua morte di Croce”. “Stefano è testimone di Cristo, perché ha sparso il sangue per Cristo (Atti 22,20). Per questo il martire è il soccombente vittorioso al quale è attribuita la palma del trionfo”. In questo senso Kierkegaard critica la Cristianità stabilita luterana del XIX secolo (ma lo stesso discorso si potrebbe ribadire oggi in merito alla chiesa bergogliana) che ha abdicato alla sua missione di conformità, o contemporaneità, con Cristo: “Il Cristianesimo col suo bisogno di soffrire per la fede fino alla morte vinse il mondo. Questo bisogno del martirio era la sua intolleranza ‘sofferente’. Ora esso ha perso la voglia e il desiderio di soffrire, ha perduto l’intolleranza del martirio e si accontenta di essere una religione come le altre, sullo stesso piano del Giudaismo, del Paganesimo, dell’ateismo” (Diario 1851-1852). E quante chiacchiere abbiamo dovuto subire in questo lunghissimo e infinito postconcilio fra martiniane “cattedre di non credenti” e inutili dialoghi interreligiosi ed ecumenici, rinunciando sempre all’identità specifica, cattolica, immutabile, dogmatica della Chiesa di sempre! Un martirio…sì….della vera fede. Il cristiano autentico invece “deve volgersi contro la Folla, ogni vero martire cadrà per mano della Folla. Cioé proprio per testimoniare che esiste Dio”, “come Cristo segno di contraddizione”. “Il testimonio trova nella morte il compimento della sua missione e ne ringrazia Iddio che a sua volta ringrazia il testimonio”. Ed è significativo che questo luterano danese dell’800 ammetta che “i testimoni della verità sono ‘i gloriosi Santi’ che il Cattolicesimo ha ragione di venerare e canonizzare”3.
Andrea ColomboTEOLOGIA DELLA LIBERTÀ
(Grazie a Massimo Martelli)
“Soltanto la libertà rende possibile la ‘decisione’ ovvero la scelta assoluta dell’Assoluto che è ‘Dio nel tempo’ (Gesù Cristo) in cui consiste per il cristiano l’atto di fede, il rischio assoluto della salvezza”1.
Solamente se si riesce a superare la fase del peccato (la ribellione della volontà), l’uomo può, tramite il sincero pentimento e la giusta penitenza, ergersi alla sfera della speranza: “Il circolo della libertà sembra crescere per spinta propria all’interno di se stesso e toccare il centro dell’io dall’interno delle sue aspirazioni che è la soddisfazione del Sommo Bene, il conseguimento della felicità eterna oltre il tempo e la morte. Così, mentre la fede che fa aderire l’anima a Dio e ai supremi misteri della salvezza mette lo spirito in tensione, la speranza quale virtù teologica mette nella ‘protensione’ che è lo slancio di aspirazione verso il futuro teologico che è il conseguimento di Dio. […] Proprio alla speranza spetta il compito di sopportare e svolgere l’arduo compito della vita cristiana, di sostenerla nelle sue prove, di animarla e stimolarla nei momenti di maggiore oscurità, pena e dolore. Essa è la ‘virtù esistenziale’ per eccellenza. […] I ‘momenti’ della speranza dovrebbero articolarsi con dinamismo opposto a quello del Sein und Zeit (‘Essere e tempo’) di Martin Heidegger. All’’essere nel tempo’, che è necessariamente un essere intrinsecamente finito – ed appunto secondo l’espressione agghiacciante di Heidegger un ‘essere per la morte’ (Sein zum Tode) – bisogna contrapporre un ‘essere per l’eternità’ ed allo pseudo-trascendersi della esistenza (Dasein) nel mondo, il trascendere della libertà nella vita eterna che fiorisce appunto nella speranza oltre la tomba. […] La speranza scuote l’anima dalla pigrizia, liberandola dalla ‘presunzione’ di una fede inerte e senza opere d’amore, e riempie l’uomo di filiale fiducia verso il Padre celeste che ci ha creati con amore, verso il Figlio che ci ha redenti con amore e lo Spirito Santo che ci santifica nell’amore. L’amore onnipotente e l’onnipotenza amorosa, ecco il cardine della speranza come movimento esistenziale. Questa struttura amorosa della speranza esistenziale è una caratteristica della teologia paolina: ‘L’amore tutto spera’ (I Cor 13,7)”2.
Abbiamo visto come “verità e libertà sono per lo spirito finito due esigenze convergenti, essenzialmente complementari: sono le due ali che ci permettono di elevarci a volo dal grigiore informe della possibilità verso la concretezza della realtà a cui si volge la verità”. Nella “sintesi in movimento, mai compiuta, di finito e d’Infinito” in cui consiste l’enigma della libertà, la testimonianza per eccellenza è data dal martirio, il donare la propria vita nell’atto estremo del sacrificio della vita stessa, “come partecipazione alla Morte di Cristo”. “La testimonianza attinge il suo significato radicale nella verità che salva e la sua istanza radicale nel testimonium sanguinis la cui effusione …melius loquentem quam Abel (Hebr. 12,24)”. Il martirio cristiano implica due elementi: uno oggettivo, ed è “la verità rivelata che trascende ogni mente creata” ossia “i dogmi della fede”; e uno soggettivo, che è “la testimonianza davanti al mondo, l’esercizio dell’atto di fede: il passaggio dal ‘si deve credere’ oggettivo allo ‘Io credo’ che è il passaggio dalla possibilità alla realtà oppure il passaggio dal dover essere all’essere. Qui si palesa per noi il momento più profondo della vita dello spirito nel suo costituirsi come persona, ossia come soggetto responsabile della scelta rispetto al suo fine ultimo concreto e della sua attuazione esistenziale. Qui verità e libertà si ergono e s’impongono al massimo della loro distinzione ed insieme attuano la più intima e operante appartenenza”. Se credo “salgo alla verità che salva”, laddove la libera decisione costituisce “quel ‘supplemento d’anima’ che è la forza dell’amore”. Nello specifico dell’atto della fede teologica “si tratta di un ‘supplemento di tutta l’anima’, perché esso implica tutta la libertà, ossia vuole la rinuncia in atto o almeno come disposizione a perdere tutta l’anima ossia la vita presente in questa vita, per guadagnare tutta l’anima nella vita a venire”. Ecco perché S. Tommaso afferma che “il battesimo che più ci unisce a Cristo non è quello dell’acqua, ma è quello del sangue ‘in quantum quis conformatur Christo patiendo’”. Infatti “ogni testimonianza è tale in proporzione della conformità al Modello ossia nella comunione alla sua morte di Croce”. “Stefano è testimone di Cristo, perché ha sparso il sangue per Cristo (Atti 22,20). Per questo il martire è il soccombente vittorioso al quale è attribuita la palma del trionfo”. In questo senso Kierkegaard critica la Cristianità stabilita luterana del XIX secolo (ma lo stesso discorso si potrebbe ribadire oggi in merito alla chiesa bergogliana) che ha abdicato alla sua missione di conformità, o contemporaneità, con Cristo: “Il Cristianesimo col suo bisogno di soffrire per la fede fino alla morte vinse il mondo. Questo bisogno del martirio era la sua intolleranza ‘sofferente’. Ora esso ha perso la voglia e il desiderio di soffrire, ha perduto l’intolleranza del martirio e si accontenta di essere una religione come le altre, sullo stesso piano del Giudaismo, del Paganesimo, dell’ateismo” (Diario 1851-1852). E quante chiacchiere abbiamo dovuto subire in questo lunghissimo e infinito postconcilio fra martiniane “cattedre di non credenti” e inutili dialoghi interreligiosi ed ecumenici, rinunciando sempre all’identità specifica, cattolica, immutabile, dogmatica della Chiesa di sempre! Un martirio…sì….della vera fede. Il cristiano autentico invece “deve volgersi contro la Folla, ogni vero martire cadrà per mano della Folla. Cioé proprio per testimoniare che esiste Dio”, “come Cristo segno di contraddizione”. “Il testimonio trova nella morte il compimento della sua missione e ne ringrazia Iddio che a sua volta ringrazia il testimonio”. Ed è significativo che questo luterano danese dell’800 ammetta che “i testimoni della verità sono ‘i gloriosi Santi’ che il Cattolicesimo ha ragione di venerare e canonizzare”3.
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