ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 1 settembre 2014

Chi odia la Chiesa odia il Primato di Roma

Episcopalismo, collegialismo e Sommo Pontificato

A fronte dei “venti episcopalisti”: studio su collegialità e dottrina cattolica

     29 giugno 2014, festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo,Patroni della Chiesa Romana



La vera realtà del sinodalismo episcopalista
Introduzione


Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam.


Aedificabo, su questa pietra. Super hanc petram Ae-di-fi-ca-bo. Su questa pietra e su nessun’altra. Pietro - con i suoi successori fino alla fine dei tempi - è il fondamento, la rocca, la base, lo scoglio su cui la Chiesa di Cristo si costruisce. Rimosso il fondamento è l’edificio intero che crolla. 
A riprova di quanto detto basti ricordare che gli eretici d’ogni risma sono sempre stati accomunati dall’odio del Primato romano.
Chi odia la Chiesa odia il Primato di Roma che ne è fondamento. E’ per questo che ogni discorso sul ruolo e sulla struttura gerarchica della Chiesa, sulla sottomissione gerarchica dei Vescovi a Pietro, sul governo della Chiesa non può mai essere una mera disquisizione sulla miglior forma di governo pastorale in questo o quel momento storico, ma deve necessariamente fondarsi su premesse dottrinali, rivelate da Cristo una volta per sempre, perché nessuno - nemmeno un Papa - può mutare il ruolo del Papa nella Chiesa. E’ il dogma della divina costituzione della Chiesa.


Non è sempre facile smascherare gli argomenti speciosi degli avversari del Primato del Romano Pontefice. Ai giorni nostri il vento dell’episcopalismo soffia con forza ed ha i suoi (effimeri) giorni di gloria; non arriva sempre alle grida aperte del Protestantesimo e al suo aperto “non serviam”, né arriva sempre al dichiarato sinodalismo degli scismatici orientali. L’episcopalismo, ieri serpeggiante oggi prorompente, si cela - da buon modernista - dietro formule più ammalianti per il mondo cattolico: “collegialità”, “governo collegiale”, “sussidiarietà”, “riforma del governo, ma non della dottrina”, “pastoralità” e via ingannando. E’ l’assodata tecnica dello svuotamento e dell’imbastardimento di certe nozioni dal sapore cattolico che già San Pio X denunciò. E’ il modernismo.


Per facilitare la lettura divideremo questo breve studio sul potere del Papa in capitoli, il primo - preliminare alla comprensione della problematica sollevata - è la distinzione fra potere di giurisdizione e potere d’ordine; analizzeremo in seguito alcuni punti del documento conciliare Lumen Gentium sulla “collegialità episcopale”, ricordando che su tale punto lo scontro nell’aula conciliare fu dei più accesi prima di giungere ad un certo compromesso con la Nota Praevia. Anche quest’ultima è oggi largamente scavalcata dai modernisti, tuttavia resta la constatazione che un tempo su questioni così capitali - e pubblicamente contestate - la Chiesa definiva con cura, passando dall’implicito all’esplicito, l’assenza delle dovute precisazioni invece ha di fatto permesso che alcune deviazioni dottrinali trovassero libero agio.


I) Potere d’ordine e potere di giurisdizione.

Una distinzione capitale



Un autorevole teologo domenicano, Padre de la Soujeole, affermava recentemente nel suo intervento orale «Le vocabulaire et les notions à Vatican II et dans le Magistère posterieur» del 16 maggio 2009 al Congresso di Tolosa della Revue Thomiste sull’ermeneutica della continuità tra Vaticano II e Tradizione, che il Concilio Vaticano II aveva in certo modo sancito l’abbandono della distinzione tra ordine e giurisdizionenell’ecclesiologia. Di fatto a partire dagli anni Settanta la distinzione - considerata dagli ecclesiologi irrinunciabile fino ad allora - scompare, con l’inveterata tecnica di far scordare le grandi verità per “desuetudine”. I testi conciliari non brillano certo per la chiarezza su questo argomento, anzi è forse uno dei temi trattati nella maniera più ambigua e confusa, con ritorni continui sul tema. Non si arriva tuttavia ad un rigetto esplicito della distinzione, ma ad un implicito invito a non più occuparsene nei termini consacrati dalla Chiesa per secoli. Ne fanno le spese le definizioni del potere papale e di quello vescovile, di qui l’importanza primaria di riportare il riflettore su tale insostituibile distinzione.


Un discorso coerente infatti sul potere di cui gode il Sommo Pontefice sulla Chiesa non può prescindere dalla distinzione tra potere di giurisdizione e potere d’ordine. Per San Tommaso tale distinzione è capitale ed “esclusiva”[1]: questi due sono i poteri nella Chiesa e non ve n’è nessun altro («In Ecclesia non est aliqua spiritualis potestas nisi ordinis seu iurisdictionis»[2]).


La Chiesa non è solo guidata dall’interno, per così dire, da Cristo-Capo che influisce con la grazia capitale, ma è anche - sottolinea San Tommaso - guidata dall’esterno: dopo l’Ascensione di Gesù al Cielo è necessario che dei ministri visibili restino su questa terra, costituiti per guidare il gregge e per potergli amministrare i Sacramenti.


Potere d’ordine


Vi è dunque un potere dato da Cristo ad alcuni uomini in relazione ai Sacramenti e specialmente all’Eucarestia, esso è conferito a dei ministri, che «agiscono in persona Christi in funzione della consacrazione che hanno ricevuto»; il Padre Bonino, in un articolo che raccoglie ed analizza i testi del Dottore Comune sui “due poteri” -  articolo non a caso consacrato al posto del Papa nella Chiesa - così definisce il potere d’ordine: «il potere d’ordine o potere sacramentale, conferito in maniera indelebile dalla consacrazione dell’ordinazione, non è niente altro che questa partecipazione ontologica alla virtù santificante del Signore che si esercita nei Sacramenti e principalmente nell’Eucarestia»[3]. Un potere quindi che si riceve in virtù d’una consacrazione e che dà questa misteriosa partecipazione all’opera santificante di Cristo, ad esempio dando al sacerdote la capacità di consacrare il Corpo di Cristo. Il conferimento di tale potere tuttavia non implica necessariamente che si abbia in virtù di esso una potere sul gregge; non basta essere validamente sacerdote o vescovo per avere “automaticamente” un potere sulla Chiesa. Quest’ultimo è un altro potere, distinto dal potere d’ordine. 


Potere di giurisdizione


Nostro Signore prima d’ascendere al Cielo volle disporre la società da Lui fondata in modo che Egli potesse continuare a governare la Chiesa per mezzo di suoi ministri e affidò il timone della barca all’Apostolo Pietro. Il proprio della Messa dei Santi Sommi Pontefici ricorda che essi furono costituiti sulle genti e sui regni per edificare, fondare, svellere, distruggere e piantare in funzione dell’innalzamento dell’edificio mistico: «ecce constitui te super gentes et super regna ut evellas et destruas et aedifices et plantes» (Ger. 1, 9-10).


Nostro Signore volle che i Suoi Vicari godessero d’un potere di governo, di direzione, di guida, di coercizione su tutte le pecore nessuna esclusa. Tale è la corretta esegesi del «pasce agnos meos, pasce oves meas» (Gv 21, 15-17). Conduci ai pascoli le pecore, gli agnellini e gli agnelli più maturi (il “probatia” greco, le giovani agnelle d’allevare), ovvero l’integralità del gregge, nessuno escluso[4]. Tutto l’insieme è affidato a Pietro. Ed a lui, coi suoi successori, il governo del Corpo mistico è affidato “immediate”. “Immediate” ovvero senza mediazioni, Pietro ricevette “immediatamente” da Cristo il potere su tutta la Chiesa e “immediatamente” da Cristo lo ricevono tutti i suoi successori. Tale potere fu dato solo a Pietro che lo ricevette da Cristo, come da Cristo lo ricevono i suoi successori[5]. Non è una delegazione della Chiesa, non è un potere conferito dal popolo - né dall’insieme dei Vescovi - al capo: Pietro è investito immediatamente da Cristo della “intensive summa extensive universalis potestas” su tutta la Chiesa. Questo straordinario ed unico potere dato al Papa per agire come Vicario di Cristo sulla Chiesa universale è un potere di giurisdizione, un potere di governare e di ordinare nella società i mezzi in vista del fine, preservando la verità rivelata, difendendo dai nemici e dall’errore la Chiesa e governandola secondo la sua divina costituzione, la quale è stabilita non da un Papa, ma da Cristo stesso di cui è Vicario.


Tale potere di giurisdizione - sottolineiamo a caratteri cubitali - è un potere distinto dal potere d’ordine. Ciò a tal punto che, in sé, un Papa può avere il pieno potere giurisdizionale senza godere del potere d’ordine. In sé un uomo battezzato può essere Papa, già potendo esercitare la somma giurisdizione connessa al Papato, senza nemmeno essere sacerdote. Fosse ancora un semplice battezzato, già potrebbe dar ordini ai Vescovi, promuoverli o deporli. 

Papa e Vescovi


Capitale è questa distinzione per afferrare quale sia la potestas pontificia, quale sia il potere giurisdizionale dei Vescovi diocesani o più ampiamente dei “prelati” - che è un potere mediato e ristretto - e quale sia infine il potere sacramentale di chi ha la consacrazione episcopale valida.


Afferrata questa distinzione si capisce che il Pontefice Romano - validamente eletto e validamente accettato il munus - gode di un potere sulla Chiesa che non soffre restrizioni per essere condiviso coi Vescovi, ma che anzi (secondo la sana metafisica della partecipazione) è causa, principio, fonte del potere di giurisdizione dei Vescovi diocesani[6]. Quest’ultimo invece è (e sempre sarà) un potere ristretto e mediato. “Ristretto” perché non sarà mai “sommo” come quello papale e perché riceve i limiti dal Papa il quale, pur rispettando la divina costituzione della Chiesa che prevede l’istituzione vescovile[7], può restringerne l’ampiezza essendone lui la fonte o può addirittura privare completamente di esso un determinato soggetto, deponendolo. “Mediato” perché il potere di giurisdizione vescovile non è ricevuto immediatamente da Cristo in virtù della consacrazione episcopale, ma è ricevuto in maniera “mediata”. Mediante cioè il Papa, detentore delle Chiavi e di quella “intensive summa et extensive universalis potestas ecclesiastica”, in virtù della quale può essere conferita al Vescovo la giurisdizione su un gregge determinato, “passando” - per così dire - per il Papa e non in un “passaggio” diretto tra Vescovo e Cristo (come vorrebbero i gallicani di ieri e i collegialisti di oggi). Ciò che invece il Vescovo validamente ordinato riceve senza necessaria mediazione del Papa è il potere d’ordine, ovvero quella speciale consacrazione che lo rende successore degli Apostoli quanto al potere in materia di Sacramenti, non però di governo[8].



Se si rinuncia a distinguere potere d’ordine e potere di giurisdizione non resta altro che un vago, magmatico e travolgente potere vescovile-apostolico, del quale sarebbero detentori (in maniera che mai nessun teologo ha saputo veramente precisare) tutti i vescovi della Chiesa validamente ordinati in virtù della loro consacrazione. Il Vescovo, per il solo fatto d’essere consacrato tale, deterrebbe un potere sulla Chiesa intera, lo deterrebbe per sé, lo deterrebbe senza mediazione papale quindi quasi “indipendentemente” dal Romano Pontefice, che non è più la fonte, ma al limite (in alcune versioni “moderate”) soltanto la condizione[9]. I Vescovi deterrebbero da Cristo stesso, in virtù della consacrazione, non solo il potere d’ordine, ma anche un certo potere di giurisdizione sulla Chiesa intera ed essi, nel loro insieme, sarebbero in un certo modo già di per sé atti ad esercitarlo. E’ una versione giurisdizionale di ciò che fiorì all’epoca del Conciliarismo: si riconosce all’insieme dei vescovi un potere di giurisdizione sulla Chiesa intera e ciò anche se in teoria si continuasse a lasciare al Papa la determinazione del gregge particolare (a quale titolo il Papa continuerebbe a detenere tale potere, in una simile prospettiva, non sempre è chiaro)[10]. Infatti in questa tesi si parla d’un potere giurisdizionale sulla Chiesa universale in virtù dell’incorporazione al “collegio apostolico”, che verrebbe a fondarsi in ultima analisi sul potere d’ordine validamente conferito nella Chiesa, e facendo in parte astrazione dal gregge particolare assegnato.  E’ evidente che in tale tesi il Papa pur non divenendo sempre ufficialmente un semplice “primus inter pares” alla moda degli scismatici orientali, non è più fonte del potere giurisdizionale come lo è l’unica sorgente per il fiume, ma egli sarebbe solo un torrente più grande che si congiungerebbe alla “forza giurisdizionale” già insita nei vescovi, i quali con Lui avrebbero titolo a governare la Chiesa universale. Ed il Vescovo di Roma non è più il Vescovo dei Vescovi, l’Episcopus Episcoporumdetentore delle Chiavi di Pietro, ma è un Vescovo in più da sommare (forse concedendogli un po’più d’onore) al numero dei Vescovi totale.



Qui risiede il problema, in tale prospettiva infatti i Vescovi non governano solo con potere ordinario, benché mediato e ristretto, una porzione del gregge assegnata loro dal Papa, ma governano - ed avrebbero radicalmente titolo a farlo - sulla Chiesa universale, e ciò principalmente in virtù del potere d’ordine. Il dogmatico Vaticano I tuttavia ha definito solennemente che i singoli Vescovi pascono i singoli greggi loro affidati - assignatos sibi greges singuli singulos pascunt et regunt[11] - e nessun documento della Scrittura, della Tradizione o del Magistero ha mai insegnato l’esistenza d’un potere supremo di governo dell’insieme dell’episcopato sulla Chiesa universale. Vi è solo, ripetiamo, un potere mediato e ristretto che deriva dal potere papale, come ogni rivolo deriva dall’unica sorgente, il potere papale, che - essendo sommo e immediato - non ha bisogno del concorso del potere giurisdizionale vescovile perché ne è la fonte.
                                                                                                 
Don Stefano Carusi



[1] S. T. BONINO, La place du Pape dans l’Eglise selon Saint Thomas d’Aquin, inRevue Thomiste (1986), p. 393.
[2] S. TOMMASO D’AQUINO, In IV Sent., d. 24, q. 3, a. 2, q.la 2, ob.3.
[3] S T. BONINO, cit., p.395.
[4] T. ZAPELENA, De Ecclesia Christi, Roma 1955, t. I, p. 283, 284. Da notare anche il doppio l’uso nel greco dei verbi “boskein” e “poimanein”, nei sensi più propriamente di “pascere” (il primo) e di “regere” (secondo).
[5] S. TOMMASO D’AQUINO, In Jo, XXI, lect. 3; S.T. BONINO, cit., p. 395.
[6] LOUIS BILLOT, De Ecclesia Christi, Roma 1921, l. II, q. 13, th. 26, n.828 e ss; q. 14, th. 28, n. 864 e ss. S.T. BONINO, cit., p. 413, 419, l’autore, commentando S. Tommaso, fa chiaro ricorso alla filosofia della partecipazione per spiegare l’ “eminenza” del potere papale e il “potere partecipato” dei vescovi. 
[7] Denz., nn. 3112-3117.
[8] L. BILLOT, cit., l. II, q. 9, n. 499 e ss; q. 15, n. 1074 e ss; B. GHERARDINI, La Chiesa mistero e servizio, Roma 1994, pp. 207-219.
[9] Su alcune tesi teologiche al riguardo e sulla loro compatibilità con la dottrina cattolica cfr. L. BILLOT, cit., l. II, q. 15, n. 1071, 1072; T. ZAPELENA, cit., l. II, p. 105-108.
[10] Cfr. nota precedente.
[11] Denz. n. 3061.
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Episcopalismo, collegialismo e Sommo Pontificato (2)

A fronte dei “venti episcopalisti”: studio su collegialità e dottrina cattolica

                                                                                    29 agosto 2014, San Giovanni Decollato




                Lo scontro tra la teologia romana e l’ “alleanza europea”   

II) Analisi della collegialità in Lumen Gentium 18-22

Lumen Gentium, la controversa genesi di un testo

Della collegialità episcopale e del potere pontificio si occupò anche il Concilio Vaticano II nella ben nota “costituzione dogmatica” Lumen Gentium. Ricordiamo che quell’aggettivo “dogmatica” sta ad indicare che l’argomento di cui si parla nella Costituzione è attinente alla teologia dogmatica; si sta specificando che ciò di cui si parla è materia dogmatica, non per questo se ne sta parlando dogmaticamente e definendo infallibilmente. Quell’aggettivo non significa quindi che ogni assunto contenuto nel documento sia stato dogmaticamente definito, ma che si sta parlando - non con insegnamento infallibile - di una materia che di per sé è attinente al dogma. Per intendersi, ci si passi la semplificazione, anche un professore di teologia dogmatica, seppure con minore autorità rispetto ad una costituzione conciliare, parla di dogmatica, ma non definisce nulla dogmaticamente, in questo caso perché non ne ha facoltà. Diversamente, un Concilio valido ha in sé la facoltà di definire dogmaticamente con Magistero straordinario infallibile, ma deve esservi l’espressa ed evidente volontà di definire un oggetto che la Chiesa ha sempre insegnato e creduto. Non è il caso di Lumen Gentium, benché non si possa certo escludere che alcuni passi, laddove si ripete ciò che la Chiesa ha sempre insegnato, attingano la loro infallibilità dal cosiddetto Magistero ordinario infallibile.  Più in generale per il “valore magisteriale” dei testi conciliari rinviamo agli articoli già pubblicati dalla nostra rivista nell’apposita sezione (cfr. Quale valoremagisteriale per il Vaticano II?), senza dimenticare che il Concilio stesso non ha chiesto per sé la dogmatizzazione generale avvenuta post eventum, come evidente dalleNotificationes ufficiali del Segretario Generale del Concilio del 16 novembre 1964[1].   

 Fatta questa premessa chiarificatrice e prima di analizzare i brani di Lumen Gentiumrelativi alla collegialità e la Nota Explicativa Praevia (voluta per correggere le erronee, quando non eretiche, interpretazioni che si erano immediatamente affacciate), va ricordato una volta di più che la lettura di tali testi non può non tener conto della loro genesi nelle commissioni o nell’aula conciliare. Il lettore accorto non avrà difficoltà a notare che due schieramenti si sono scontrati, per così dire, ogni tre righe. Il risultato non è un testo unitariamente concepito, né una sintesi, pur variegata, di differenti apporti, ma l’opera finale si rivela piuttosto come un tessuto eterogeneo : sembra cucito tutto d’un pezzo, ma le stoffe, pur essendo l’una accanto all’altra, sono differenti per colore e tessitura. Più che d’una sintesi dunque si ha spesso l’idea marcata di una giustapposizione di idee e di dottrine non in armonia tra loro. Talvolta è addirittura evidente che si è cercato d’ “incastrare fra due virgole” delle locuzioni che mal si conciliano con l’insieme della frase. Locuzioni proposte ora da uno schieramento ora da un altro per migliorare, correggere, deviare, restringere od allargare quanto era già stato inserito dalla “controparte”. Scontro dottrinale che, con un po’ d’attenzione alla sintassi latina e al lessico utilizzati, lascia tracce visibili nei passaggi linguistici che tradiscono un autore diverso da quello del pensiero che precede o segue. Il risultato è che la lettura è a volte faticosa ed esige un’attenzione continua per ovviare all’assenza d’unitarietà, scientificamente scoraggiante; a fortiori dunque è d’obbligo la prudenza, nondimeno si possono avanzare osservazioni critiche e sollevare anche seri interrogativi.  

Le premesse introduttive nel Capitolo III di Lumen Gentium


L’intera Costituzione presenta spunti che possono riferirsi più o meno direttamente alla problematica della collegialità, sono sparpagliati lungo tutto il documento, che oltre ad essere oggettivamente molto lungo alterna toni talora discorsivi e narrativi talora esegetici. Il Capitolo III, De Constitutione hierarchica Ecclesiae et in specie de episcopatu, si occupa dichiaratamente della questione; qui il Sinodo si ripropone di “professare pubblicamente ed esplicitare la dottrina sui vescovi successori degli Apostoli, i quali insieme col successore di Pietro, che è il Vicario di Cristo e il capo visibile di tutta la Chiesa dirigono la casa del Dio vivente”[2].

Il Capitolo III, dopo un esordio dai toni fortemente pastorali, non manca di rendere un atto d’omaggio all’infallibile Pastor Aeternus del Vaticano I, le cui orme - si dichiara - saranno ripercorse. Lungo tutto il n. 18 i caldi toni pastorali e la rinuncia al linguaggio scolastico lasciano per ora nella fluidità i rapporti tra Pietro e gli Apostoli, così come la natura del governo della Chiesa da parte di Papa e Vescovi, che il documento dice di voler esplicitare; si ribadisce che Pietro è “principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione”[3]. Al n. 19 si trova la menzione dell’insieme degli Apostoli, costituiti da Cristo in  collegio o ceto. L’alternanza dei due termini non è casuale e - ridimensionato  dalla compresenza della più tradizionale dicitura di coetus - comincia a comparire il più controverso termine collegium : “Apostolos ad modum collegii seu coetus stabilis instituit, cui ex iisdem electum Petrum praefecit”[4].

A questo punto ci si aspetterebbe una soddisfacente spiegazione sulla natura delle distinte giurisdizioni di Pietro e degli Apostoli, e sulle analogie con le giurisdizioni del Papa e dei Vescovi in epoca post-apostolica, mettendo anche in evidenza gli eventuali limiti e gli errori da evitare quando si fa uso dell’analogia Pietro/Papa e Apostoli/Vescovi. Il lettore resta invece deluso, mentre trova al n. 20 - in forma anche stavolta narrativo-letteraria - l’affermazione che la divina missione degli Apostoli è la stessa dei Vescovi, cui è affidata la vigilanza su tutto il gregge (“universo gregi”)[5]. Anche in questo caso il problema non è tanto l’affermazione in sé, quanto la sua vaghezza : non è affatto chiaro infatti se il riferimento sia qui ad una vigilanza giurisdizionale su tutta la Chiesa oppure ad una vigilanza non giurisdizionale ma morale su ciò che avviene nella Chiesa intera, oppure ancora ad una semplice vigilanza giurisdizionale sul singolo gregge loro affidato, come sembra tranquillizzare la successiva frase[6].

Al n. 21 si ritrova che i Vescovi sono stati eletti “per pascere il gregge di Dio”[7], senza specificare oltre. In un tale contesto, di per sé solenne e capitale, sarebbe legittimo aspettarsi maggiori delucidazioni. Viene da chiedersi infatti: quale gregge e in che modo? Si fa allusione al gregge universale, in virtù forse della loro consacrazione valida e in fondo del potere d’ordine, oppure si parla del greggeparticolare affidato loro da Pietro in virtù della Sua somma giurisdizione?

Ed è quantomai legittimo formulare la domanda nei termini suddetti, poiché di seguito si legge la frase quantomeno “vaga”, che è proprio attraverso la consacrazione episcopale che viene conferito ai Vescovi anche il potere di governo: “insegna il Santo Sinodo che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine […]. Oltre alla funzione di santificare, la consacrazione episcopale conferisce anche le funzioni di insegnare e governare”[8]. Parrebbe quindi che il testo stia affermando che il solo conferimento del potere d’ordine porta con sé un certa giurisdizione. Giurisdizione su cosa ? Sul gregge universale in virtù della valida consacrazione o sul particolare in virtù della collazione papale? Il testo tace sull’estensione di tale giurisdizione, ma specifica che il suo esercizio (si badi bene, si parla del solo esercizio) presuppone la comunione gerarchica col capo e le membra del collegio (notiamo anche che comunione gerarchica non è sinonimo di collazione di giurisdizione). Ora, anche volendo metter da parte il fatto che il “Sommo Pontefice” è appellato come “Capo del collegio”, resta l’indeterminatezza, l’imprecisione e quindi la pericolosità d’un tale asserto. Che cosa significa dire che per l’esercizio della giurisdizione di tutti i Vescovi (sulla Chiesa universale?) ci vuole la “comunione collegiale gerarchica”? E’ forse un “altro modo” ortodosso - benché numquam auditum a saeculo - di parlare della derivazione del potere dei Vescovi residenziali da quello sommo ed universale del Papa ? Oppure vuol dire che i Vescovi detengono sempre “radicalmente” la giurisdizione sulla Chiesa intera in virtù dell’ordine episcopale valido, e che l’unione della comunione fra loro e col Capo-collegio è richiesta solo per il valido esercizio ? Ma in quest’ultimo caso, il potere papale potrebbe ancora dirsi “sommo” e fonte del potere vescovile o sarebbe solo una condizione per il valido esercizio della giurisdizione?

L’annoso problema del “subiectum quoque”

E’ tuttavia Lumen Gentium 22 il punto che è stato oggetto di maggior controversia, perché l’espressione è decisamente più audace e problematica. Fin dalle prime righe appare l’idea che San Pietro e gli Apostoli costituiscono un collegio e che - “pari ratione”, ovvero con una certa idea di proporzionalità che non implica uguaglianza fra Capo e membri del Collegio, dovrà precisare la Nota Praevia[9] - si sta parlando di Collegio per quello che è l’insieme di Papa e Vescovi. Si insiste più d’una volta sulla “natura collegiale”[10] di quello che poche righe dopo viene chiamato - con termine più tradizionale e più gradito allo schieramento romano - “Corpo” dei Vescovi[11]. Torna anche l’idea che la consacrazione episcopale sia sufficiente ad “incorporare” al collegio (vi sacramentalis consecrationis)[12], unitamente alla comunione col “Capo del Collegio” e coi membri. Tale esigenza di comunione col Capo-collegio tuttavia non apporta nessuna vera chiarificazione sui rapporti giurisdizionali, sulla loro ripartizione, sulla loro origine, sul loro esercizio.

La frase seguente ha per certi versi un aspetto tranquillizzante: “ma il collegio o corpo dei Vescovi non ha autorità se non lo si comprende insieme col Romano Pontefice, successore di Pietro, come suo capo”, il Papa è “Vicario di Cristo e pastore di tutta la Chiesa” su cui gode di “potestà piena suprema e universale, che può sempre liberamente esercitare”[13]. Sembra in effetti di poter tirare un sospiro di sollievo ed in effetti tale precisazione ha tutto il suo valore, tuttavia non ci si illuda d’essere usciti dal citato andirivieni di frasi inserite dalle due correnti di pensiero per smorzare l’uno le affermazioni dell’altro.

Si conferma infatti che il Papa gode dunque di suprema potestà, anche seorsim, anche separatamente, anche senza collegio. E’ difficile opporsi direttamente a tale verità, stanti le definizioni infallibili del Vaticano I. Ma qui si trova una grossa sorpresa. Affermare che il Papa è il soggetto di suprema potestà nella Chiesa non sarebbe proprio sinonimo dell’affermazione che è il solo soggetto di suprema potestà, e - in una prospettiva non certo tomista - si potrebbe ipotizzare la coesistenza di un secondo organo, regnante anch’esso con suprema potestà, senza per questo (almeno in teoria) esautorare il Papa.

Non si capisce se tale peregrina tesi sia contenuta nella frase seguente: “l’ordine dei Vescovi, il quale succede al collegio apostolico nel magistero e nel governo, anzi che perpetua senza interruzione il corpo apostolico, è pure, insieme col Romano Pontefice suo capo, e mai senza questo capo, soggetto di piena e suprema potestà su tutta la Chiesa”[14].

Il testo sembra proprio dire che il collegio è pure lui soggetto, è soggettoanch’esso (subiectum quoque ) di piena e suprema potestà. Le frasi che seguono non spiegano gran cosa e sono alquanto sibillinamente incastrate una nell’altra, al punto che l’imbarazzo dei redattori si fa qui quasi tangibile per il lettore. Si continua a parlare di un potere dei Vescovi, come “loro proprio” (propria potestate), per il bene dei loro fedeli, “anzi della Chiesa intera”, pur rispettando fedelmente “il primato e la preminenza” del Capo-collegio[15]. Insomma al n. 22 l’espressione linguistica e la rinuncia al linguaggio scolastico non danno modo di reperire i chiarimenti sperati sulla natura d’un potere vescovile che non si capisce se sia ristretto o universale.

Che vuol mai dire che anche il Collegio - seppur in comunione col Capo-collegio - è soggetto di piena e suprema potestà su tutta la Chiesa? Il testo sta forse affermando, seppure nella ricorrente maniera discorsiva, che due sono i soggetti di piena e suprema potestà: il Papa da solo e il Collegio in comunione col Papa (che in questa veste sarebbe piuttosto - e in tal modo è chiamato anche esplicitamente - il Capo-collegio)?

L’insieme dei Vescovi in comunione col Capo-collegio (la qual cosa potrebbe benignamente intendersi come l’insieme dei Vescovi cattolici validamente ordinati, a prescindere se siano Vescovi residenziali o meno) deterrebbe anch’esso  - per parlare nei termini scolastici che Lumen Gentium evita  - la suprema giurisdizione sulla Chiesa? Il Concilio sta facendo una tale affermazione? Sta forse anche traendo le conclusioni di quanto ventilato al n. 19, ovvero che la consacrazione episcopale valida unitamente alla comunione, sarebbe sufficiente per godere di una certa giurisdizione sulla Chiesa universale, da esercitarsi collegialmente ed insieme al Papa?

Queste ed altre furono le domande che suscitarono il ricorso alla famosa Nota Explicativa Praevia. Ovvero il Pontefice Paolo VI, rispondendo alle vive sollecitazioni di alcuni Padri e allo sfrontato passo falso di qualche novatore, dispose la pubblicazione di un documento che doveva precedere o almeno accompagnare (“praevius”) la lettura di passaggi tanto liberamente interpretabili, mettendo così un argine ai pericoli.

La Nota Explicativa Praevia

La Nota Praevia è un allegato al testo conciliare, “previo” appunto alla lettura - ma che di fatto segue, perché fu relegato in calce e “lontano” da Lumen Gentium -, che apporta alcune precisazioni di valore non secondario. Anche questo testo tuttavia, benché voluto con intenti di correzione, tradisce i limiti di un certo compromesso fra le istanze “romane” e quelle “collegialiste”, continuando a lasciare troppe “porte aperte”.

Al n. 1 vi si precisa che collegio non è da intendersi “in senso strettamente giuridico, cioè di un gruppo di eguali, i quali abbiano demandato il loro potere al loro presidente”[16], ovvero il Concilio non ha inteso parlare del Papa come di un presidente-delegato del collegio dei Vescovi, aventi tutti eguale potere; d’altronde l’alternanza coi termini “corpo” e “ordine” ne sarebbe la conferma[17]. Così pure si cercano di fugare i dubbi sulla trasmissione degli straordinari poteri degli Apostoli ai Vescovi, soggetto sul quale la Costituzione era stata alquanto reticente. Né c’è uguaglianza fra il capo e le membra del collegio[18]. Al n. 2 tuttavia non è dissipata la confusione dell’origine dell’ordine e della giurisdizione, anzi è alimentata: “uno viene costituito membro del collegio in virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e coi membri”[19]. Insomma ritorna in certo modo l’idea d’una collazione di giurisdizione (sulla Chiesa universale?) in virtù della consacrazione valida anche se per il suo esercizio - si precisa in seguito - resta necessaria la determinazione canonica dell’autorità[20]. Si precisa anche che, perché di “communio” si possa legittimamente parlare, un “vago affetto” (quodam affectu) non è sufficiente, ci vuole pur sempre una certa “forma giuridica”(iuridicam formam exigit)[21].

Al n. 3 restano altri problemi, si vuol precisare la questione del “subiectum quoque”. Il Collegio - si dice - cointende il suo Capo, “il quale nel collegio conserva integro l’incarico di Vicario di Cristo e Pastore della Chiesa universale. In altre parole : la distinzione non è tra il Romano Pontefice e i Vescovi presi insieme, ma tra il Romano Pontefice separatamente e il Romano Pontefice insieme coi Vescovi”[22]. Quindi Papa da una parte, Papa e Vescovi dall’altra, ma il Papa è presente da entrambe le parti sempre a titolo di Pastore Sommo e universale, causa e fonte d’ogni giurisdizione, oppure a due diversi titoli e con facoltà diverse?  Leggendo la frase successiva a proposito del Collegio sembra che la stessa origine della giurisdizione papale - almeno in quanto Capo-collegio - abbia un certo aspetto derivato non già dall’investitura di Cristo, ma dall’essere capo del Collegio. Leggiamo: “Ma siccome il Romano Pontefice è il capo del collegio, può da solo fare alcuni atti, che non competono in nessun modo ai Vescovi, come convocare e dirigere il collegio, approvarne le norme d’azione, ecc.”[23]. A parte il fatto che le invocate azioni di specifica competenza papale che si portano ad esempio sono quasi più simili a quelle d’un Capo parlamentare moderno, che non del Sommo Pontefice, resta il fatto dell’oggettiva pericolosità di quel “siccome è Capo del Collegio, può fare alcuni atti”. Pur concedendo che non si volesse fare allusione ad un potere delegato dai membri - quindi dal basso -, resta il fatto che il modo d’esprimersi è quantomeno inopportuno. Né le frasi finali del n. 3 e il n. 4 [24], pur costituendo un’effettiva limitazione alle devianze, specificano davvero la natura profonda della giurisdizione papale e di quella collegiale, sebbene ricordino opportunamente la sovrana libertà di cui gode il Sommo Pontefice nell’esercizio della “sua potestà in ogni tempo a suo piacimento” e sebbene limitino l’esercizio del collegio “ad intervalli” e “col consenso del capo” perché non sempre è “in atto pieno”[25]. Si noti tuttavia che anche quest’ultima precisazione, benché costituisca un reale freno all’episcopalismo, si limita ancora una volta a parlare del solo esercizio e non della natura e dell’origine del potere evocato.

Nel Nota bene che chiude il documento appare poi la chiara conferma del fatto che non si voglia entrare nelle classiche distinzioni di ordine e di giurisdizione, come esposto nella parte prima del presente studio. L’esplicita rinuncia a pronunciarsi sulla validità o liceità della “potestà” degli “orientali separati”[26] conferma ulteriormente che la dottrina classica sulla distinzione fra i poteri d’ordine e giurisdizione, sulla valida consacrazione episcopale e sulla collazione di giurisdizione ristretta sono volontariamente aggirate. Peccato perché, non vediamo come possa essere altrimenti, solo queste distinzioni avrebbero permesso di fare davvero chiarezza.  


Sappiamo che a dire di non pochi teologi con la Nota Praevia la questione potrebbe dirsi conclusa e che anche recentissimi dibattiti (aprile 2012) hanno liquidato la questione con un generico rinvio alla Nota Praevia, la quale permetterebbe, senza alcun problema, un’interpretazione “nella continuità” della collegialità di Lumen Gentium.

Conclusione

Per comprendere l’errore episcopalista, per leggere davvero alla luce della Tradizione la questione della “collegialità” vedendo in che misura e con quali contorni essa possa dirsi o meno in armonia con la dottrina cattolica, non è possibile fare astrazione dalla capitale distinzione - più volte sottolineata dall’Aquinate - fra potere d’ordine e di giurisdizione. Nella prima parte di questo lavoro abbiamo insistito su tale aspetto in linea generale, nella seconda parte abbiamo cercato di mettere in evidenza come l’oblio di tale verità abbia permesso le ambiguità che si riscontrano nel Capitolo III di Lumen Gentium. Ambiguità constatate dalla stessa Nota Praevia la quale - pur avendo apportato dei freni che non furono del tutto inutili, ma che nondimeno sono stati largamente ignorati nel post-Concilio - non ha risolto il problema di fondo, che ruota intorno ai rapporti fra giurisdizione universale e ristretta, somma e subordinata, ed ancora intorno alla natura del potere episcopale d’ordine e di giurisdizione.




Oggi l’orientamento teologico - dato e non concesso che in alcuni casi sia ancora propriamente teologico, ovvero fondato sulla fede soprannaturale e sulla sana ragione - è su posizioni che definire “episcopaliste” è forse un eufemismo; già si rasenta ad esempio la teorizzazione del parlamentarismo ecclesiale, talvolta in formule che nemmeno gli scismatici orientali avevano ancora ipotizzato. Di fatto la stessa eresia gallicana del ‘700 è oltrepassata e l’ecclesiologia corrente - se di ecclesiologia si può ancora parlare - affonda ormai le sue radici nel pensiero di Hans Küng, che non spadroneggia solo a livello di intellettuali. C’è nondimeno da interrogarsi sugli effetti di scelte del recente passato, che consistono anche, tra le altre, nell’assenza di condanne esplicite dell’errore e nell’affrettato deprezzamento della teologia tomista.

                                                                                                                           Don Stefano Carusi



[1] Denz. 4350-52.
[2] Denz. 4142: “Sacra Synodus cunctis fidelibus firmiter credendum rursus proponit, et in eodem incepto pergens doctrinam de Episcopis, successoribus Apostolorum , qui cum successore Petri, Christi Vicario ac totius Ecclesiae visibili Capite, domum Dei viventis regunt, coram omnibus profiteri et declarare constituit”.
[3] Denz. 4142: “Ut vero Episcopatus ipse unus et indivisus esset, beatum Petrum ceteris Apostolis praeposuit in ipsoque instituit perpetuum ac visibile unitatis fidei et communionis principium et fundamentum”. Il riferimento è alla Pastor Aeternus del Vaticano I.
[4] Denz. 4143.
[5] Denz. 4144: “commendantes illis ut attenderent universo gregi, in quo Spiritus Sanctus eos posuit pascere Ecclesiam Dei”.
[6] Denz. 4144: “presidentes gregi, cuius sunt pastores ut doctrinae magistri, sacri cultus sacerdotes, gubernationis ministri”.
[7] Denz. 4145: “Hi pastores ad pascendum dominicum gregem electi”.
[8] Denz. 4145: “Docet autem Sancta Synodus episcopali consecratione plenitudinem conferri sacramenti Ordinis, quae nimirum et liturgica Ecclesiae consuetudine et voce Sanctorum Patrum summum sacerdotium, sacri ministerii summa noncupatur. Episcopalis autem consecratio, cum munere sanctificandi, munera quoque confert docendi et regendi, quae tamen natura sua nonnisi in hierarchica comunione cum Collegii Capite et membris exerceri possunt”.
[9] Denz. 4353.
[10] Denz. 4146: “ordinis episcopalis indolem et rationem collegialem significant”; “Eandem vero iam innuit ipse usus”.
[11] Denz. 4146: “Collegium autem seu corpus Episcoporum”.
[12] Ibidem: “Membrum Corporis episcopalis aliquis constituitur vi sacramentalis consecrationis et hierarchica comunione cum Collegii Capite atque membris”.
[13] Denz. 4146: “Collegium autem seu corpus Episcoporum auctoritatem non habet, nisi simul cum Pontifice Romano, successore Petri, ut capite eius intelligatur, huiusque integre manente potestate Primatus in omnes sive Pastores sive fideles. Romanus enim Pontifex habet in Ecclesiam, vi muneris sui, Vicarii scilicet Christi et totius Ecclesiae Pastoris, plenam, supremam et universalem potestatem, quam semper libere exercere valet”.
[14] Denz. 4146: “Ordo autem Episcoporum, qui collegio Apostolorum in magisterio et regimine pastorali succedit, immo in quo corpus apostolicum continuo perseverat, una cum Capite suo Romano Pontifice, et numquam sine hoc Capite subiectum quoque supremae ac plenae potestatis in universam Ecclesiam exsistit, quae quidem potestas nonnisi consentiente Romano Pontifice exerceri potest”.  
[15] Denz. 4146: “In ipso, Episcopi, primatum et principatum Capitis sui fideliter servantes, propria potestate in bonum fidelium suorum, immo totius Ecclesiae funguntur”.  
[16] Denz. 4353: “Collegium non intelligitur sensu stricte iuridico, scilicet de coetu aequalium, qui potestatem suam praesidi suo demandarent, sed de coetu stabili, cuius structura et auctoritas ex Revelatione deduci debent”.
[17] Denz. 4353; “ Ob eandem rationem, de Collegio Episcoporum passim etiam adhibentur vocabula Ordovel Corpus”.
[18] Ibidem.
[19] Denz. 4354: “Aliquis fit membrum Collegii vi consecrationis episcopalis et comunione hierarchica cum Collegii Capite atque membris”.
[20] Denz. 4354: “Consulto adhibetur vocabulum munerum, non vero potestatum, quia haec ultima vox de potestate ad actum expedita intelligi posset. Ut vero talis expedita potestas habeatur, accedere debetcanonica seu iuridica determinatio per auctoritatem hierarchicam”.
[21] Denz. 4355.
[22] Denz. 4356: “Collegium enim necessario et semper Caput suum cointelligit, quod in Collegio integrum servat suum munus Vicarii Christi et Pastoris Ecclesiae universalis. A. v. distinctio non est inter Romanum Pontificem et Episcopos collective sumptos, sed inter Romanum Pontificem seorsim et Romanum Pontificem simul cum episcopis”.  
[23] DEnz. 4356: Quia vero Summus Pontifex est Caput Collegii, ipse solus quosdam actus facere potest, qui Episcopis nullo modo competunt, v. gr. Collegium convocare et dirigere, normas actionis approbare, etc.”.
[24] Denz. 4356: “secundum propriam discretionem procedit”; Denz. 4357 : “Summus Pontifex, utpote Pastor Supremus Ecclesiae, suam potestatem omni tempore ad placitum exercere potest”.
[25] Denz. 4357: “A. v. non semper est “in actu pleno”, immo nonnisi per intervalla actu stricte collegiali agit et nonnisi consentiente Capite”.
[26] Denz. 4359: “Commissio autem censuit non intrandum esse in quaestiones de liceitate et validitate, quae relinquuntur disceptationi theologorum, in specie quod attinet ad potestatem quae de facto apud Orientales seiunctos exercetur, et de cuius explicatione variae exstant sententiae”.
Pubblicato da Disputationes Theologicae

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