Una riflessione di John L. Allen Jr. sull’infuocato dibattito che in queste due settimane di diffusione del coronavirus ha acceso gli animi sulla decisione dei vescovi di sospendere le messe o addirittura chiudere alcune chiese. L’articolo è stato pubblicato su Crux Now.
Eccolo nella mia traduzione.
Si spera che nessuno si metta consapevolmente in testa di trarre un vantaggio da una pandemia globale che, finora, ha causato più di 10.000 morti e ha lasciato alcune città del nord Italia ad ammucchiare cadaveri perché hanno esaurito la capacità di seppellire i loro morti.
Eppure non ha senso fingere che non ci sia il rischio che la discussione sulla risposta della Chiesa al coronavirus non possa essere trascinata nella stessa dinamica ideologica che domina tanto altro nella conversazione cattolica di questi tempi. La situazione si presenta in forma particolarmente acuta in questo momento in Italia, che ha rivendicato il primato mondiale in termini di mortalità da coronavirus, ma stiamo cominciando a vederla anche nella discussione in lingua anglosassone.
Prima di tutto, facciamo uno schizzo dei termini del dibattito.
Da un lato, l’imperativo urgente di salute pubblica è quello di limitare la diffusione della malattia impedendo le assemblee pubbliche, minimizzando i contatti personali, rimanendo in casa e chiudendo i luoghi dove la gente potrebbe essere tentata di riunirsi. Molte diocesi e conferenze episcopali hanno risposto con misure come la sospensione delle messe pubbliche e la chiusura di almeno alcune chiese al pubblico.
D’altra parte, c’è la convinzione altrettanto persuasiva che i tempi di crisi sono quelli in cui la gente ha più bisogno della Chiesa, e che la salute spirituale è tanto importante quanto quella fisica. Inoltre, c’è un’autentica preoccupazione pastorale su come la gente potrebbe sentirsi quando questa crisi sarà passata, se la percezione è che la Chiesa è stata assente ingiustificata.
All’inizio, i tentativi italiani di trovare il giusto equilibrio non sono stati particolarmente politici.
Quando i vescovi italiani hanno deciso per la prima volta di sospendere le Messe pubbliche all’inizio di marzo, il fondatore di Sant’Egidio Andrea Riccardi l’ha definita “un forte segno di paura, così come l’omogeneizzazione della Chiesa con le istituzioni civili”. Lo storico della Chiesa Alberto Melloni ha detto che è stato un esempio di “troppa pigrizia burocratica”, mentre il famoso monaco ecumenico Enzo Bianchi ha dichiarato: “Un cristiano non sospende la liturgia!”
Riccardi, Melloni e Bianchi sono tutti personaggi ampiamente considerati di centro-sinistra per quanto riguarda il punto di vista politico, quindi non si è trattato di un tambureggiare di destra, anche se i conservatori qui hanno dato voce a molte delle stesse preoccupazioni.
In parte, questo può essere dovuto al fatto che lo stesso Papa Francesco ha tentato di infilare l’ago in modo abbastanza artistico.
Egli raccomanda abitualmente alla gente di osservare le restrizioni imposte dal governo e spesso include preghiere per le autorità civili nella sua messa quotidiana in streameng, dicendo che devono fare scelte difficili e che possono sentirsi “incompresi”.
Allo stesso tempo, è stato Francesco a convincere la Diocesi di Roma a riaprire le chiese parrocchiali per le visite private meno di un giorno dopo l’annuncio della chiusura da parte del cardinale Angelo De Donatis. È stato anche il segretario personale di Francesco, un sacerdote cattolico copto di nome padre Yoannis Lahzi Gaid, a scrivere nel fine settimana un emozionante messaggio sui social media, avvertendo che quando la crisi sarà finita, la gente abbandonerà la Chiesa se si sentirà abbandonata dalla Chiesa.
È stato Francesco che, durante il suo discorso all’Angelus di domenica scorsa (l’altra, ndr), ha detto: “In tempi di pandemia, [i sacerdoti] non devono essere il don Abbondio della situazione”, un riferimento al romanzo più celebre d’Italia, I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Abbondio incarna il vile chierico che si ritirò durante un’epidemia di peste del XVI secolo; come lo definisce Manzoni, Abbondio era “un vaso di argilla tra i vasi di ferro”.
Con il passare del tempo, però, l’argomento contro la chiusura è stato sempre più portato da voci conservatrici, spesso con un margine anti-papale.
Il giornalista conservatore italiano Camillo Langone ha pubblicato un aspro verdetto dopo che Papa Francesco domenica scorsa (l’altra, ndr) ha lasciato il Vaticano senza preavviso per visitare la Basilica di Santa Maria Maggiore, per pregare davanti alla famosa immagine di Maria, Salus Populi Romani, e la Chiesa di San Marcello, per pregare davanti a un crocifisso miracoloso a cui si attribuisce il merito di aver salvato Roma durante lo scoppio della peste nel 1522.
“La solitudine di quest’uomo vestito di bianco in via del Corso … rappresentava simbolicamente la dissoluzione, quasi l’evaporazione, del cattolicesimo, che è una religione e, come tale, vive di riti collettivi”, ha detto Langone.
Evidentemente avrebbe preferito vedere il papa guidare una massiccia processione penitenziale, portando il suo popolo a implorare la misericordia di Dio, piuttosto che camminare da solo per una strada vuota in conformità con il “distanziamento sociale” che fa parte del regime anti-coronavirus.
Langone ha anche affermato di non vedere alcuna somiglianza tra Papa Francesco e San Carlo Borromeo, il leggendario Arcivescovo di Milano che guidò il suo popolo in processioni a piedi nudi durante la peste descritta dal Manzoni.
“Quando l’emergenza sarà finita, non so come tutto potrà tornare come prima”, ha detto. “Come si può tornare a credere nell’acqua santa o nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, se queste cose sono state portate via in fretta e furia, considerandole non salvifiche ma piuttosto pericolose?”
Roberto de Mattei, storico italiano e tradizionalista cattolico, che è stato un critico coerente di Francesco, ha scritto un saggio sulla leadership del Borromeo durante la peste. Non ha mai menzionato il papa o l’odierno gruppo di vescovi, ma un confronto poco lusinghiero era chiaramente implicito.
Nel frattempo in inglese, il redattore di First Things, Rusty Reno, in un recente saggio ha sostenuto che le Chiese dovrebbero rimanere aperte nel mezzo della crisi, insistendo: “La semplice sospensione dei sacramenti suggerisce che la Chiesa vive in accordo con le priorità del mondo”.
L’opposizione a tali sentimenti è stata guidata soprattutto da noti commentatori liberali e da alleati di Papa Francesco come Massimo Faggioli, che ha pubblicato il seguente tweet in risposta a un annuncio del vescovo Richard Strickland di Tyler, Texas, che dava istruzioni ai sacerdoti di continuare a offrire adorazione e confessione nonostante il consiglio di rimanere a casa.
“Una delle lezioni non apprese dalla crisi degli abusi sessuali: La Chiesa non deve essere percepita come una minaccia per la salute pubblica”, scrive Faggioli.
Anche il biografo papale Austen Ivereigh ha pubblicato un tweet critico su Reno.
Senza dubbio, sono coloro che esortano la Chiesa a continuare la sua attività, a prescindere da ciò che può attingere dai ricchi precedenti storici, compresi i periodi di peste.
Come ha scritto recentemente la medievalista canadese Danièle Cybulskie: “Durante la peste nera del 1347 (e degli anni successivi), i sacerdoti si trovarono di fronte al compito di entrare nelle camere degli ammalati, sapendo di dover affrontare un nemico invisibile che molto probabilmente li avrebbe uccisi in breve tempo. Migliaia di sacerdoti fecero comunque quei passi, rischiando la vita per dare speranza e conforto a chi soffriva e aveva paura”.
Nel suo libro del 2005 The Great Mortality, lo storico John Kelly stima che il tasso di mortalità tra i sacerdoti durante la peste nera si aggirava tra il 42 e il 45 per cento, ovvero circa 15 punti in più rispetto alla popolazione generale. Così tanti morirono che, con il passare del tempo, sempre meno sacerdoti erano disponibili, e Papa Clemente VI fu costretto a concedere una remissione generale dei peccati per tutte le vittime della peste che morivano senza un sacerdote che li assistesse.
C’è molto da dire per una tale disponibilità al sacrificio, radicata nella tradizione cattolica e nell’ansia pastorale di non lasciare le persone sole. Ma ci sono anche risposte altrettanto concrete, basate sull’urgenza di contenere la pandemia e di salvare vite umane. È giusto chiedersi quali scelte avrebbero potuto fare i sacerdoti settecento anni fa se avessero capito meglio la natura delle malattie virali e si fossero resi conto che la loro presenza avrebbe potuto mettere a repentaglio non solo la propria salute, ma anche quella degli altri.
È necessario un confronto serio su ciò che la santità, l’eroismo e la presenza pastorale richiedono in questo momento, informato dai migliori consigli scientifici e medici e dalla migliore tradizione della Chiesa.
Perché questo esercizio sia produttivo, però, si spera che non venga contagiato da un contagio tanto virulento nel nostro tempo quanto lo stesso coronavirus, l’arma ideologica di qualsiasi cosa, compresa la peste.
Di Sabino Paciolla
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