ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 1 febbraio 2018

La rivoluzione di Francesco prosegue implacabile

La rivoluzione culturale di Papa Francesco: così cambia l'istruzione cattolica

Papa Francesco ha promulgato "Veritas Gaudium", un atto apostolico che mira a rivoluzionare l'istruzione cattolica. Ecco il disegno del Vaticano

Papa Francesco ha intenzione di rivoluzionare anche l'approccio agli studi teologici. Nella sala stampa della Santa Sede, due giorni fa, è stata presentata la Costituzione apostolica Veritatis Gaudium.
L'atto in questione ha come oggetto un disegno culturale del Vaticano teso a "imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa in uscita". Il cattolicesimo, insomma, è impegnato ad aprirsi al mondo a trecentossessanta gradi e anche l'insegnamento della teologia e della dottrina devono adeguarsi alla modernità.


" Sì, il sogno - ha dichiarato il cardinal Giuseppe Versaldi, Prefetto della Congregazione per l'Educazione cattolica, riferendosi alla visione di Papa Francesco - è quello di una conversione pastorale in senso missionario, capire che c’è bisogno di una nuova evangelizzazione perché non possiamo più credere che la maggioranza delle persone siano credenti e abbiano capito cos’è il messaggio cristiano nella sua sostanza e nella sua verità". Le novità culturali e le tecnologie introdotte dalla terza rivoluzione industriale hanno in qualche modo costretto la Chiesa cattolica a tenere in considerazione anche i cambiamenti dettati dalla nostra epoca.
L'espressione "rivoluzione culturale", del resto, che è la richiesta esplicita di Jorge Mario Bergoglio contenuta in Veritatis Gaudium, era già presente nell'enciclica "Laudato Sì". Gli atenei ecclesiastici e le facoltà di teologia sono chiamati oggi alla vocazione missionaria e a rinnovare le priorità prevista. La Chiesa - ha dichiarato Francesco - non dispone ancora della cultura necessaria ad affrontare "la crisi antropologica e ambientale". Quattro direttrici individuate dal pontefice per l'istruzione cattolica, allora, dovrebbero contribuire a sanare questo divario: "l'identità missionaria", l'accentuazione del dialogo, l'inter-disciplinarietà e la necessità di creare una rete tra le realtà educative.
Le novità introdotte dalla Costituzione apostolica - come riportato da La Stampa - riguardano più ambiti: norme aggiornate, istituzione dei master universitari, apertura a studiosi provenienti da sensibilità diverse da quelle solitamente coinvolte, valorizzazione delle "realtà periferiche", creazione di nuovi centri di ricerca e così via. La rivoluzione di Francesco prosegue implacabile. Ma qualcuno, come di consueto, storce il naso. "Ogni giorno un colpo di piccone (o anche due) sulla cattedrale, sulla Chiesa - ha scritto Antonio Socci sul suo profilo Facebook riferendosi a Bergoglio -. "Oggi ha bombardato prima gli atenei cattolici e l'istruzione ecclesiastica e poi ha ribadito la dottrina bergogliana sulle nullità matrimoniali. La demolizione ogni giorno procede". La Chiesa che abbraccia il mondo, quella che adatta se stessa alla contemporaneità, in fin dei conti, continua a non piacere ai pensatori tradizionalisti. Non potrebbe essere diversamente.
Papa Francesco sta portando avanti una serie di cambiamenti destinati a fare storia. L'impressione è che la Chiesa di oggi si trovi dinanzi ad un bivio: tornare indietro ripristinando la tradizione e una certa austerità precedente a questo pontificato oppure dare seguito alla profonda riforma iniziata con questo papato. Nel disegno di Bergoglio non c'è spazio per le "chiusure" dottrinali. Figuriamoci per quelle educative. La frattura dottrinale sorta attorno ad "Amoris Laetitia" continua a rappresentare la prova più evidente di questo assunto.
Il pontefice argentino sembra desiderare che le scuole e i luogi di educazione diventino sperimentali, scientifici quanto possibile, sicuramente non opposti per "partito preso" a nuove tipologie di mentalità. "Bonificare, trasformare e costruire" sono le linee guida che il Papa ha indicato alla Chiesa per il futuro. Quella del pontefice, però, per alcuni è una visione pratica della religione che "fa a pugni" - come sottolineato dal filosofo Radaelli - con gli insegnamenti di Gesù Cristo. La rivoluzione culturale di Bergoglio prevede una Chiesa completamente idonea, mediante l'insegnamento del Vangelo, a fare fronte al cambio d'epoca. Altri ritengono che la Chiesa debba tornare a "bastonare" il mondo per le sue derive relativiste. "Scacciare i mercanti dal tempio", insomma, restando più dissimili possibile da quest'ultimi.
Francesco Boezi
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/rivoluzione-culturale-papa-francesco-1489109.html

CREMONA: DOLORE E SMARRIMENTO PER LA CHIESA ODIERNA (CON UN P.S.)

 Venerdì 26 gennaio un centinaio di cattolici, promotrice l’associazione ‘Quaerere Deum’,  ha discusso a Cremona della situazione nella Chiesa. La cronaca della serata, nella speranza che i sordi e i muti che pullulano nelle curie, nelle parrocchie e nelle redazioni dei media ecclesiali si scuotano, ritrovando udito e favella. Nel Post Scriptum qualche annotazione su alcune reazioni turiferarie grondanti misericordia alla lettera aperta del card. Joseph Zen Ze-kiun sui rapporti Santa-Sede –Cina.

Ecco un’esperienza cristiana che lascia il segno, che ci è stata proposta dall’Associazione ‘Quaerere Deum’ (recentemente fondata a Cremona) e che ci teniamo a condividere.
‘Quaerere Deum’ rilevava  Benedetto XVI nel 2008 a Parigi, nel discorso al mondo della cultura tenuto nel Collège des Bernardins. “Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarlo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura”. 
I membri (laici e sacerdoti) dell’Associazione cremonese hanno ben chiaro quanto detto da papa Ratzinger: si ritrovano insieme per condividere amicizie, preghiera, vita liturgica, formazione e hanno maturato con lucidità una sofferta consapevolezza dell’odierna situazione ecclesiale.
Ci hanno invitato per un incontro, cui hanno partecipato anche altri amici cattolici della diocesi, svoltosi in un ristorante all’ombra del Torrazzo e della splendida Cattedrale superbamente illuminati. Perché un ristorante? qualcuno si chiederà. Risposta ahimè non sorprendente: sarebbe stata ipotizzabile seriamente nell’attuale temperie ecclesiale la messa a disposizione di una sala parrocchiale o di un’associazione del giro? 
E poi il ristorante favorisce la convivialità, dato che la serata prevedeva quale introduzione un ottimo risotto con i funghi, un filetto con patate, un caffè e un zicchinin di limoncello.
In avvio abbiamo dato sinteticamente una nostra lettura di momenti di un Pontificato molto controverso, dopo aver precisato (come già in altre occasioni) di non essere ‘nemici’ di Francesco (di cui riconosciamo ad esempio la ricorrente denuncia contro la ‘cultura dello scarto’) ma critici di purtroppo non pochi suoi gesti, atti, dichiarazioni. Momenti, si diceva, posti spesso sotto il segno della contraddizione tra il dire e il fare, di cui questo blog contiene ampia documentazione.
La sala era molto attenta, molto reattiva e gli applausi scroscianti, a scena aperta, non sono mancati. Tra l’altro quando abbiamo lasciato cadere il nome Avvenire in relazione al business scandaloso dell’ accoglienza: la popolarità del quotidiano catto-fluido in larghe fasce cattoliche è ormai (meritatamente) sotto lo zero. Non lo diciamo con allegria, perché l’applauso convinto sanciva anche la dolorosa presa d’atto e condivisione della gravità di quanto sta succedendo nella Chiesa e nelle sue propaggini. 
In un centinaio gremivano la sala (come ci è stato detto, sarebbero raddoppiati o triplicati se l’Associazione avesse trovato uno spazio più grande): le domande sono state tante (e a un certo momento troncate per ragioni di …orario). Segno ulteriore dell’interesse del tema che incide di questi tempi nella carne di molti cattolici, che amano profondamente la Chiesa.
Non sono state domande accademiche, ma espressione di un disagio, di una sofferenza vera, vissuta, che i turiferari irridono e i pavidi fingono di non vedere. Che cosa possiamo fare, che cosa dobbiamo fare? si è chiesto da più  parti. Dobbiamo indignarci, alzarci in piedi come diceva Giovanni Paolo II, combattere la buona battaglia, pregare di più oppure rassegnarci oppure sancire uno scisma de iure de facto?
Abbiamo osservato che la rassegnazione per un cristiano non può essere la strada da imboccare, tantomeno la via dello scisma: priorità su tutto deve avere lo sforzo, pur molto faticoso, di restare uniti in un’unica Chiesa. Anche perché la Chiesa resterà (in mezzo a tempeste violente che la fanno e la faranno scricchiolare di brutto): sono i Papi che passano (e con loro, i turiferari, i pavidi e anche tutti noi). Una Chiesa cattolica divisa – abbiamo aggiunto - significherebbe anche un indebolimento grave davanti al mondo e sarebbe condannata probabilmente all’irrilevanza assoluta.
Spulciando tra le domande…  
.Un umile fedele cattolico si attende che la Chiesa ribadisca chiaramente la distinzione tra bene e male, i valori non negoziabili… e poi si sente dire che la Bonino è una ‘grande italiana’…  Che dobbiamo fare? 
. Io, cattolico comune, posso indignarmi, io che sono una faccia da sottaceto, un cuore di pietra, uno sgranarosari? Oppure devo restare zitto? 
. Vorrei un consiglio… come devo comportarmi quando leggo di don Fredo Olivero che a Torino sostituisce durante la Messa il ‘Credo’ (cui non crede) con una canzoncina francescana e leggo dei sorrisini dei presenti? Devo seguire l’esortazione del palermitano don Salvo Priolo che in un’omelia ha scongiurato di ‘alzarsi in piedi’ ? 
. Come possiamo coltivare la speranza in questo momento di sconcerto e di dolore? 
. Dobbiamo star zitti davanti alle posizioni di Santa Marta? 
. Quale l’influenza del protestantesimo sul cattolicesimo di oggi? Com’è in Svizzera? Che dice delle celebrazioni per i 500 anni della Riforma’? Sono eretiche? E la ‘beatificazione’ di Lutero? 
. L’ultimo Conclave ha palesato un fallimento dello Spirito Santo?
. E’ un piacere ascoltarLa, ma anche un dolore. E mi piacerebbe essere smentito. Oltre ad alzarsi in piedi, penso che si possa offrire questo dolore come sacrificio vivente. 
. Perché questo Papa? Può darsi che, ricordando quel che disse Pio XI di Mussolini, sia l’ “uomo che la Provvidenza ci ha mandato”, un’espressione da intendere in accezione neutra… 
. Ci voleva un Papa così perché i cristiani si scuotessero, perché paradossalmente si interrogassero sulla loro identità, la riscoprissero. 
. Si può criticare il Papa? (Qui nella risposta abbiamo evidenziato quel che ha detto lo stesso Francesco, esaltando la famosa parresia: “Per me è un buon segno che la resistenza emerga, che non si dicano le cose di nascosto, quando uno non è d’accordo. E’ sano discutere le cose, molto sano”(…) “Io non chiudo mai la porta. Tu chiedi di parlare? Vieni. Parlando non si perde nulla, si guadagna sempre”. Naturalmente… tra il dire e il fare c’è di mezzo…)
. Ma che cosa fa papa Benedetto XVI? Ha lasciato eredi religiosi o politici? 
. Il fortissimo disagio che sentiamo nasce dal dolore. Tutte le novità, soprattutto in materia di vita e di famiglia, ci lasciano perplessi. L’ambiguità è grande. Il Papa sta giocando con la salvezza delle nostre anime? 
. Che cosa sta cercando di dirci papa Benedetto XVI? 
. Quello di Bergoglio è un progetto rivoluzionario e la resistenza si accresce continuamente. Può essere che le critiche a lui rivolte dal bergogliano cardinale O’ Malley sulla gestione del caso Barros in Cile siano il sintomo di un primo logoramento di tale progetto? 
. Sa qualcosa della preannunciata ‘messa ecumenica’? (Abbiamo riposto che non ne sappiamo niente)
Le mie perplessità sono nate già un’ora dopo l’elezione di Francesco. Ho pensato subito che niente sarebbe più stato come prima. E poi perché Il Grande Oriente d’Italia - i massoni insomma - ha salutato l’elezione con tanta enfasi? 
Chi ci legge si sarà reso conto che la serata è stata – come si dice a Roma – bella tosta. E molto istruttiva. Cento a Cremona (in gran parte addolorati, confusi, indignati)? Fate qualche proiezione su scala più ampia…e preoccupatevi, almeno un po’,  voi sordi e muti, turiferari e pavidi…
P.S. Non passa ormai giorno senza una picconata all’una o all’altra parete dell’edificio di Santa Romana Chiesa. Se non è quella della vita, è quella della famiglia, quella della liturgia, quella del diritto canonico, quella della non –ingerenza in questioni di competenza primaria dello Stato come il tema dei migranti… addirittura quella che riguarda la condizione dei cattolici sotto regimi dittatoriali.  
Lunedì 29 gennaio l’eroico cardinale cinese Joseph Zen Ze-kiun ha inviato ai ‘cari amici dei media’ una lettera aperta sull’evoluzione dei rapporti diplomatici tra Santa Sede e Cina (su cui da anni esprime gravi perplessità),  ripubblicata subito tra gli altri da Magister su ‘Settimo Cielo’ e dalla benemerita agenzia missionaria ‘AsiaNews’, fondata dal compianto padre Piero Gheddo e diretta da padre Bernardo Cervellera. Nel testo il porporato racconta di un incontro con papa Francesco, delle sue reazioni; anche della consegna a mano della lettera di uno dei due vescovi della Chiesa fedele a Roma che sarebbero stati sollecitati da una delegazione vaticana a lasciare il posto a successori della Chiesa ufficiale, richiesti di tale sacrificio in nome del buon esito dei negoziati in corso sulla nomine episcopali. 
Sappiamo che la questione sul tappeto è molto complessa, delicata e assomiglia a quelle che negli anni Sessanta e Settanta caratterizzarono la controversa ‘Ostpolitik’ vaticana. Riconosciamo la difficoltà di trovare una soluzione soddisfacente, ma la svendita della Chiesa cattolica che da sempre soffre nella propria carne per fedeltà a Roma sarebbe certo la peggiore. In ogni caso ci hanno colpito molto negativamente alcune reazioni che è difficile non giudicare vergognose alla pubblicazione della lettera del cardinale Zen Ze-kiun. 
Già nel comunicato della Sala stampa vaticana, a firma del direttore Greg Burke (povero Greg, che ti fanno fare!), si legge qualche apprezzamento che fa male verso il valoroso porporato combattente – una vita spesa per la Chiesa di Roma - che viene accusato di “alimentare confusione e polemiche” e per la cui presa di posizione pubblica si esprimono “sorpresa e rammarico”.
Ma il vertice dell’impudenza misericordiosa si raggiunge nei commenti di due tra i più noti turiferari della Casa. Il primo appare su ‘Vatican Insider, nell’articolo “La Santa Sede: c’è chi sulle ‘questioni cinesi’ alimenta confusione”; la firma è del ciellino Gianni Valente. Dell’articolo offriamo ai lettori un sabba di bastonate caritatevoli verso l’iniziativa dell’eroico Joseph Zen Ze-kiun: la dichiarazione vaticana punta a dissipare equivoci e falsi teoremi - canali mediatici da sempre mobilitati contro le trattative sino-vaticane - l’obiettivo della campagna articolata attorno al ‘caso Shantou’ -  la diffusione orchestrata delle indiscrezioni punta anche a insufflare l’idea che la ‘politica’ vaticana sulla Cina non può essere attribuita al ‘Papa latinoamericano’, che ‘non capisce’ di questioni cinesi ed è mal consigliato dai collaboratori - Si fanno circolare ricostruzioni parziali e manipolate di colloqui e incontri personali - Una strategia militante, “ventre a terra”, che rischia di spargere sconcerto e confusione anche in molte comunità della Chiesa in Cina – proteggere i cattolici cinesi dagli effetti delle manovre di politica ecclesiastica architettati in Occidente.
Sempre su ‘Vatican Insider’, nell’introduzione all’intervista sul tema al cardinale Parolin, Valente si straccia le vesti per le “operazioni opache, vere e proprie manipolazioni politiche, sabotaggi, sospetti, fumi artificiali, narrazioni politicizzate”.  Non si risparmia proprio il turiferario di Casa, tra i cui bersagli più grossi c’è un altro ciellino, proprio padre Bernardo Cervellera, l’instancabile, competente e appassionato direttore di ‘AsiaNews’.
Dicevamo però di due turiferari particolarmente meritevoli di citazione. Se il primo è Gianni Valente, la seconda è Stefania Falasca… insomma marito e moglie. La Falasca imperversa sul catto-fluido Avvenire di mercoledì 31 gennaio 2018 e - nell’articolo a pagina 18 (‘Catholica’) intitolato: “Santa Sede: non c’è distanza tra Francesco e i collaboratori” – palesa la sua santa indignazione per “la diffusione orchestrata delle indiscrezioni sul ‘caso Shantou’ “, contro “l’accanimento di certe campagne strumentali volte a screditare le trattative in corso tra Cina popolare e Santa Sede”, per “certe dinamiche di disinformazione mediatica”, infine per “le grottesche manovre rispetto al modus operandi della Santa Sede”. 
Che moglie e marito puntino a ricevere, un po’ come la nota Lucienne Ploumen abortista e pro-lgbt, la prestigiosa onorificenza pontificia di San Gregorio Magno? O addirittura – ci si permetta l’irriverenza…ma si può escludere ancora qualcosa per il futuro ecclesiale? – non è che in fondo in fondo anelino alla prima porpora cardinalizia di coppia, quale simbolo di una Chiesa rinnovata profondamente nelle sue istituzioni?
CREMONA: DOLORE E SMARRIMENTO PER LA CHIESA ODIERNA (CON UN P.S.) – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 1 febbraio 2018
L'INFERNO DEL PECCATORE



L’Inferno non è una punizione esterna ma la volontà stessa del peccatore. Il peccato non è più peccato? pertanto anche l’Inferno non sarà più quello o meglio non vi sarà più “bisogno” di credere nell’esistenza dell’Inferno 
di Francesco Lamendola  


 

La teologia e la pastorale odierna fanno un gran parlare, come è giusto, dell’amore di Dio per l’uomo e della Sua misericordia infinita; non è altrettanto giusto, però, presentarli come se fossero qualche cosa di distinto e di “superiore” alla Sua giustizia, quasi che il Dio “giusto” sia solo quello dell’Antico Testamento, e che il Dio del Nuovo Testamento sia solo ed esclusivamente amorevole e misericordioso, a scapito delle altre Sue qualità, ugualmente perfette.

Amorevole, intendiamoci, Dio lo è sempre, perché Egli è l’Amore stesso, dunque non potrebbe non essere pieno di amore in ogni Suo pensiero e in ogni Sua azione: dalla Creazione, all’Incarnazione, alla Passione, Morte e Risurrezione, tutto in Lui è amore, e non vi è alcuna’altra ragione se non un amore immenso, gratuito, addirittura incomprensibile (da un punto di vista puramente umano) nel suo voler amare gli uomini nonostante tutto, e nell’aver detto fino all’ultimo: Padre, perdona loro, quando già essi gli battevano i chiodi nelle mani e nei piedi, per crocifiggerlo.
Resta da capire, a noi uomini, che come l’Amore è l’attributo essenziale di Dio, che Lo definisce perfettamente, la Giustizia, in Lui, non è qualcosa di distinto, o di secondario, o di meno “nobile”; non è qualche cosa di cui Egli può fare a meno, talvolta, come se si trattasse, in Lui, di una seconda natura, meno essenziale dell’altra, quella amorevole. In Dio, infatti, tutte le virtù toccano la più alta perfezione, Egli è la perfezione di tutte le perfezioni: sapienza, bellezza, verità. Come potrebbe la giustizia non appartenergli, e non appartenergli in modo assolutamente perfetto, cioè completo e immodificabile? Tutto ciò che è perfetto è immodificabile, perché immaginare una modificazione equivale a presupporre la possibilità di un ulteriore avanzamento o, eventualmente, di un arretramento: ma una cosa perfetta non può avanzare, perché nulla vi è di più perfetto, in essa, di quello che è già; e mai potrebbe retrocedere, ossia divenire meno perfetta, perché anche solo la possibilità che ciò possa avvenire implica che la sua perfezione non sia tale: ciò che è perfetto, infatti, non può decadere, non può essere sminuito, altrimenti non sarebbe perfetto.
La sola eccezione a questa regola è il mistero dell’Incarnazione: mistero veramente abissale, nel quale si contempla Dio che si fa uomo, il Creatore che si fa creatura, la Perfezione stessa che si fa carne, debole, vulnerabile. Il Verbo incarnato non era debole solo perché soggetto alle offese degli uomini, come avvenne durante la Passione, ma anche perché soggetto alle passioni e ai turbamenti degli esseri umani: basti dire che, davanti al sepolcro in cui era stato posto, da quattro giorni, il corpo del Suo amico Lazzaro, Egli scoppiò in pianto, esattamente come fa qualsiasi essere umano davanti alla perdita di un carissimo amico. Le stesse tentazioni diaboliche, nel deserto, alla vigilia della Sua vita pubblica, mostrano che Gesù era suscettibile delle stesse debolezze di qualsiasi uomo: il fatto che le vinse perfettamente non deriva dal fatto che Egli non poteva cadere, perché nella Sua natura umana, Egli, in teoria, avrebbe anche potuto soccombere, così come, più tardi, fu possibile che i Giudei Lo prendessero, Lo percuotessero, Lo facessero mettere a morte. Sì: Gesù, come uomo, avrebbe anche potuto lasciarsi tentare dal Diavolo; ma, proprio come uomo, fu in grado di trionfare di quella prova e di mettere in fuga il Tentatore, affidandosi completamente e perfettamente alla volontà del Padre; cosa che lo confermò, anche in un corpo mortale, nella Sua spendente, intangibile, gloriosa natura divina. Questo è il segreto di tutte le prove che Gesù, come uomo, ha dovuto affrontare: l’affidamento totale, incondizionato, assoluto, alla volontà del Padre, che annullò ogni distanza fra Lui e il Padre suo.
Gesù è venuto nel mondo anche a mostrarci che cosa ciascuno di noi potrebbe essere, se fosse capace di una dedizione così totale, assoluta, incondizionata: e i Santi sono coloro che hanno compreso il valore di tale esempio, e che si sono sforzati d’imitarlo. Nessuno di essi, però, è stato capace di quella adesione perfetta al volere del Padre, di cui è stato capace Gesù; ed è stata sempre quella perfetta adesione che ha reso possibile la Resurrezione. Se in Gesù fosse rimasta - poniamola come semplice ipotesi accademica – una sia pur minima imperfezione umana, un sia pur minimo rimpianto, una sia pur minima traccia di egoismo, cioè di volontà propria, di desideri propri, di timori o di riserve mentali tipicamente umani, la Resurrezione non ci sarebbe stata, perché nessun uomo può risorgere dalla morte. La stessa resurrezione di Lazzaro non è, a ben guardare, una resurrezione, ma il ritorno alla vita di un morto; mentre la Resurrezione di Cristo è stata veramente una resurrezione, cioè il ritorno di un uomo morto ad una condizione di vita piena, perfetta, luminosa, in un corpo glorificato e trasfigurato, divenuto immortale.
Il mistero dell’Incarnazione, dunque, è, come tutti i misteri sacri, qualche cosa d’insondabile; qualche cosa che la mente umana non potrà mai pienamente comprendere, ma che può e deve limitarsi ad accettare per fede; non è, tuttavia, qualche cosa di contrario alla ragione, come taluni vorrebbero, ma semplicemente qualcosa di diverso e di talmente superiore ad essa, che la ragione arriva a concepirlo solo fino a un certo punto, poi deve fermarsi e arrendersi, vinta da una luce così sfolgorante, da un amore così sconvolgente, come quello di Dio per l’uomo.
E tuttavia Dio, che è infinita misericordia. non può volere che delle anime restino all’Inferno per sempre; né potrebbe permetterlo: simili sciocchezze a buon mercato (ché non costano nulla a chi le dice, mentre gli procacciano, in compenso, una discreta dose di simpatia e popolarità fra il pubblico degli stessi credenti) sono ormai frequenti, tanto quanto infrequenti sono diventati, anche da parte di teologi e ministri del culto, gli ammonimenti relativi al peccato; vediamo perciò di fare un minimo di chiarezza in proposito.
Che l’Inferno non sia un luogo, perlomeno nel senso terrestre della parola, è cosa abbastanza ovvia, e  non c’è bisogno d’insistervi troppo. Ma che esista, è cosa di cui i teologi modernisti e progressisti dovranno farsi una ragione: a meno che essi vogliamo impugnare e dichiarare nulli secoli e secoli di Magistero della Chiesa cattolica, di solenni dichiarazioni conciliari (non del Vaticano II, guarda caso, ma di parecchi altro concili), nonché di predicazione pastorale, Catechismo compreso. A meno che…
Il rischio, oggi, è che si operi una riforma teologica calata dall’alto: che dai vertici della Chiesa, e dallo stesso Magistero, pur senza rotture clamorose, almeno sul piano formale, ma un poco alla volta, con discrezione, con abilità, e, soprattutto, con molta spregiudicatezza - cosa di cui non sembrano difettare ormai non solo singoli sacerdoti, ma pure parecchi vescovi e cardinali - si introducano nuove sfumature, nuovi distinguo, nuovi precetti legati alle “situazioni di fatto”, in base ai quali il peccato non è più peccato, e, pertanto, anche l’Inferno non sarà più quello, o meglio, non vi sarà più “bisogno” di credere nell’esistenza dell’Inferno.
I due concetti, infatti, sono strettamente collegati; diciamo pure che sono le due facce della stessa medaglia: l’Inferno è il risultato del peccato, e il peccato è la premessa, la condizione e la causa dell’Inferno: non potrebbe esservi l’uno, senza l’altro. Il problema è che molti, troppi teologi, non si interessano più del peccato: darebbe troppa ombra alla loro amata “svolta antropologica”; ricorderebbe in maniera troppo esplicita e impietosa che, per quante svolte antropologiche la teologia postconciliare possa compiere nei prossimi anni, secoli e millenni (se l’umanità avrà ancora a disposizione un futuro così ampio), l’uomo resterà sempre peccatore, perché figlio di Adamo ed Eva, e perciò reca in se stesso le conseguenze del Peccato originale, che il sacramento del Battesimo attenua, ma non elimina: il bene prezioso del libero arbitrio rimane agli uomini, ma permane in essi anche una fatale, drammatica inclinazione al male.
Il teologo Franco Amerio, con una chiarezza esemplare, ha svolto questa riflessione sulla realtà dell’Inferno (da: F. Amerio, La dottrina della fede. Dogma, morale, spiritualità, Milano, Edizioni Ares, 1985, p. 257-258):

Dai non pochi testi del Magistero risultano da ritenersi come dati della fede cattolica – respingendo i quali si respinge la fede cattolica – almeno i seguenti: l’Inferno esiste; riguarda i peccatori morti impenitenti; consta della privazione della visione beatifica (si suol dire pena del danno), e di una pena positiva (si suol dire pena del senso); la sua durata è senza fine. “Le anime di coloro che muoiono in peccato mortale… vanno subito nell’Inferno, dove sono punite con pene diverse (D. B. 464): così la professione di fede del concilio lionese (1274) ripetuta dal concilio fiorentino (1439), i due concili sottoscritti anche dagli Orientali. Quanto alla durata, si veda il passo del concilio lateranense (1215) , che conclude il brano […] sulla risurrezione dei corpi: risorgeranno “per essere retribuiti secondo le loro opere buone o cattive: gli uni (avranno) con il diavolo una punizione perpetua, gli altri con Cristo una gloria sempiterna” (D. B. 429). Poco dopo Innocenzo IV così scrive agli Orientali: “Se qualcuno muore, senza pentirsi, col peccato mortale, questi sarà senza dubbio tormentato per sempre nel fuoco della geenna eterna” (D. B: 3048). Il Concilio Vaticano II, che pure non tocca di proposito l’argomento, lo accenna di passaggio nei termini tradizionali, raccomandando la vigilanza per potere infine “essere annoverati tra i beati, e non ci venga comandato, come servi cattivi e pigri, di andare al fuoco eterno” (L. G. § 48).
È inutile, del resto, insistere sui testi ufficiali, quando il tema dell’Inferno fu, e ancora è, uno di quelli talmente talmente consueti nella predicazione pastorale che, se non lo si riconosce quale oggetto del Magistero ordinario, non si saprebbe quale altro tema quale altro tema potrebbe esserne oggetto. […]
Mettiamoci in guardia, anzitutto, da una concezione, per così dire, estrinsecistica dell’Inferno: come se Dio, avendo dato un ordine e quest’ordine essendo stato trasgredito, si vendicasse escogitando una punizione da applicare al ribelle. Non è così: il rapporto fra il peccato e l’inferno è un rapporto di connessione intima, vitale. È Dio che punisce, ma facendo che il peccatore stesso si punisca, poiché l’Inferno altro non è, infine, che il raggiungimento pieno e definitivo di ciò che  il peccatore ha voluto, e continua a volere. Il peccatore sarà paradossalmente accontentato, poiché avrà per sempre quello che ha voluto: ha voluto il peccato e giacerà sempre nel suo peccato.
Che cosa è infatti il peccato? È insieme, indissolubilmente, “aversio a Deo”, alienazione da Dio, e “conversio ad creaturas”, attaccamento alle creature. Orbene, in che cosa consiste l’Inferno? In null’altro che, appunto, nello stato e nelle conseguenze dell’essere definitivamente avversi a Dio e attaccati disordinatamente alla creatura: per sempre. Per il dannato si avvererà l’espressione del salmista: “amò la maledizione e gli verrà addosso; ne sarà rivestito come di una veste, gli penetrerà come acqua sin nelle interiora” (Ps108, 18).; per il dannato si realizzerà la minaccia divina: “Io li lascerò in preda ai desideri dei loro cuori, ed essi correranno dietro ai loro vani desideri” (Ps 80, 13). Con ragione Bossuet così sintetizza: “L’’Inferno, a ben guardare, è il peccato stesso”, e “i peccatori sono i dannati viventi”.

L’Inferno non è una punizione esterna, ma la volontà stessa del peccatore

di Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio Già pubblicato il 25 Agosto 2016
  
Del 30 Gennaio 2018
continua su:

L’Inferno tremendo ed eterno: crudeltà incompatibile con la bontà di Cristo?... - risposte sulla Fede del servo di Dio Pier Carlo Landucci



Proprio il dolce Gesù che promette ad alcuni uomini una eterna gioia, minaccia ad altri, la cui cattiveria è sempre limitata essendo creature umane, finite, una sofferenza terribile ed eterna. Ammetto come ragionevole e, vorrei dire, naturale, la necessità di un castigo per i rei, ma ripugna alla mia umanità, in modo invincibile, la durata eterna e l'intensità del patimento minacciato da Cristo. So bene cosa dicono i teologi per via di freddissimo ragionamento: «l'anima, terminata l'esistenza terrena nello stato di peccato, non può più mutare la sua volontà cattiva e ribelle a Dio ; essa è libera di scegliere in vita tra Paradiso e Inferno ». Ma io penso che se veramente a tutti fosse dato di sapere bene cosa scelgono, nessuno sceglierebbe l'Inferno. E poi qualunque cosa cattiva sia stata compiuta, si può paragonare il transitorio con l'eterno ? E se lo stato dell'anima può condurre a tale necessario stato di pena, perché questa sorte dell'uomo fu permessa da Dio ? È contro la fede credere che di fatto nessuno si sia dannato, nemmeno Giuda? (Prof. S. A. - Malnate - Varese).

Con rammarico ho dovuto omettere vari altri passi di questa lunga e bella lettera (rimandandone però uno - circa il dolore degli animali - ad altra occasione: cfr. q. 16). Ma come si fa a rispondere ? Qui ci vorrebbe un trattato, un libro intero ! Posso tuttavia puntualizzare qualche idea. E, prima di tutto, qualche rilievo sull'atteggiamento razionale e spirituale da prendere per affrontare utilmente il problema. L’egregio rocchigiano si scaglia contro il « freddo » anzi il « freddissimo » ragionamento, e più volte ripete di voler la risposta non solo della mente, ma anche del cuore e della sensibilità, la risposta cioè che nasce da « tutto l’uomo ». Ma questo è quanto dire: non voglio imparzialmente giudicale; ossia: non voglio vedere la verità come è, ma farmi trascinare dal cieco impulso del sentimento. Si trattasse della dimostrazione del teorema di Pitagora, che interessa così poco la vita umana, passi !

Benché anche in tal caso sarebbe curioso che per introdurre - in perfetto siile di moda esistenzialista - nella ricerca « tutto l’uomo », mi facessi guidare più dall’estetica del discorso e dall’eleganza della figura che dalla logica matematica. Ma quando si tratta di un fatto così... scottante per la nostra vita e per la nostra fede, guai a ragionare col cuore invece che con la mente ! Il cuore deve seguire la mente; non deviarla o, per lo meno, confonderla. E poi attenti a non dimenticare che si tratta di un dogma di fede. Dunque non può non esservi del mistero, come in tutte le verità rivelate che toccano l’infinito Dio: nel caso nostro Dio infinito, offeso.

Si può capire completamente il mistero della Trinità? E così il mistero dell’Inferno. L’illusione di poterlo ben capire nasce dall’analogia con le punizioni umane che si danno ai colpevoli. Ma queste riguardano offese umane, giudizio e vita terrena, mentre quello riguarda l’offesa divina, il giudizio divino e la vita eterna: e in ciò non può non comparire il mistero. Sarebbe quindi ingenuo giudicare le due cose alla stessa stregua.

Nasce forse allora, da questa disparità di cose e da questa misteriosità, una scusante per il peccatore, il quale peccando non vorrebbe certo andare all’Inferno? Attenuante sì, e Gesù stesso ha detto, a proposito dei suoi crocifissori : « non sanno quel che fanno » (Luca 23, 34); ma scusante no, tanto che Gesù giunse ad ammonire che dovremo render conto perfino di « ogni parola inutile (da noi) detta » (Matteo 12, 36). E c’è una bella differenza !

Non è necessario infatti, per la sostanziale responsabilità del peccato, di fronte a Dio, che la divina offesa sia esplicitamente voluta, cioè che esplicitamente si voglia offendere Dio. Basta che lo sia implicitamente, come è quando si viola una legge grave, avvertita dalla coscienza. E basta che si siano respinte le grazie proporzionate che Iddio misericordioso dona certamente all’anima per non peccare.

La considerazione sull’Inferno va fatta perciò con un atteggiamento capovolto, rispetto a quello usato da S. A. Anziché giudicare della ragionevolezza dell'inferno e della malizia del peccato alla luce della propria intuizione psicologica e sentimentale, bisogna invece giudicare e adeguala propria scarsa valutazione psicologica alla luce della fede: fare fulcro cioè fermamente su questa, per accendere nel cuore l’orrore del peccato e il santo timore della punizione eterna.

E dire umilmente: se Gesù nella sua infinita misericordia, tanto luminosamente provata dalla sua incarnazione e morte per noi, ha preannunciato, con tanta insistenza, l'Inferno terribile ed eterno per i cattivi, vuol dire che esso c’è, che non è crudele ma giusto, e che la malizia del peccato è, in qualche modo, riguardo alla infinita dignità di Dio offeso, infinita. Vana è poi la speranza che di fatto nessuno vi cada.

L’Inferno non fu creato prima del peccato, ma dopo di esso e per la sua effettiva punizione. Nacque cioè col peccato di Lucifero e degli Angeli che lo seguirono. Prescindiamo anche da Giuda, di cui è implicitamente rivelata la dannazione, secondo il pensiero comune. E Lucifero? E i suoi, che erano Angeli destinati alla gloria? Che siano all’Inferno è certo.

Mistero profondo, quanto i segreti intimi di Dio, è, d’altra parte, il perché di tale divina previsione e permissione. Il fatto che si possa non capire non può infirmare comunque la certezza di ragione e di fede della infinita sapienza, bontà e misericordia di Dio, giunta perfino a immolare per noi il divino Figlio, e la certezza quindi che tale permissione non può non avere avuto complessivamente il fine di un bene maggiore, come per es., quello del rispetto e della manifestazione della libertà umana e del maggior merito dei buoni, messi alla prova dai cattivi. Ma non posso ora addentrarmi in questa questione, che rivedremo in seguito.

Quanto sia ingannevole il metodo di parlare dell'inferno « a sentimento » è dimostrato, in particolare, dalla tendenza a trasferire fantasticamente in quel regno di dolore e di disperazione i sentimenti della nostra esperienza terrena. Invece laggiù è tutt’altra cosa. Innanzitutto nell’ « al di là » non può non esservi quella enorme intensificazione d’esperienze che caratterizza tutto l’eterno e che sarebbe illusorio pretendere d’immaginare in base alle tenui esperienze dell’« al di qua ». Come nel Paradiso vi è una inaudita e inimmaginabile intensità di gaudio, così non deve sorprendere che vi sia nell’Inferno una inimmaginabile intensità di dolore.

Siamo nel regno del più intenso. Un « più intenso » che si proporziona però nella sua varietà di misura, con perfetta giustizia, alla rispettiva varietà di misura del «meno intenso» terreno, sia nel bene che nel male. Ingiusto sarebbe che nella vita terrena si fosse puniti con l ’intensità dell’Inferno o premiati con l’inebriamento del Paradiso. Non v’è ingiustizia invece in tale passaggio - mantenendo le proporzioni alle varie misure terrene - da un regime meno intenso a uno più intenso, perché ciascun regime segue le condizioni del corrispondente stato.

Né si può pretendere che in terra, per fuggire la condanna eterna, sia fatto conoscere chiaramente all’uomo quello stato dell’ « al di là », perché ciò è impossibile nella condizione terrena: basta che il « di là » sia implicitamente e oscuramente conosciuto e che il giudizio divino sia compiuto sulle responsabilità umane, considerate dalla sua sapienza infinita secondo le reali possibilità terrene, nel quadro cioè di tutte le circostanze aggravanti o attenuanti ie di tutti i divini aiuti respinti o raccolti.

Anche nella vita comune si hanno infatti continuamente colleganze di attività presenti con stati di vita futuri alquanto più intensi e non ancora sperimentati: come per es. quando uno viene promosso di grado per la fatica compiuta nel grado inferiore, o quando addirittura uno viene promosso al governo di una nazione, come legittimo risultato della semplice fatica elettorale, o quando due creature costituiscono il nuovo modo di vita matrimoniale dopo relazioni esterne di ben minor responsabilità, o quando, dopo il delitto, si sperimenta la durezza del carcere.

Nessuno pretende, per es., di non poter essere mandato in carcere perché non ne ha prima sperimentata la durezza. Se la conoscenza chiara e sperimentale della sanzione e l’averla esplicitamente davanti agli occhi nell’operare condizionasse la legittimità della sanzione, ciò dovrebbe valere sempre, tanto per la sanzione eterna che per quella temporale, e quindi anche per l’incarceramento terreno.

Poi si è tentati di pensare ai poveri dannati piangenti e imploranti pietà, come farebbe chi fòsse in terra condannato ai tormenti e alle fiamme. Che crudeltà - si pensa - lasciarli spietatamente laggiù quei poveri pentiti! E il pensiero, ammessa l’ipotesi, è giustissimo. Sarebbe davvero una inaudita crudeltà respingere il grido straziante di quel sincero pentimento.

Ma l’ipotesi è completamente falsa. Il dannato, nonostante l’evidenza intellettuale della sua colpa, non ha il minimo pentimento. Egli ha solo il furore dell’odio, della disperazione e della bestemmia perenne: giacché il pentimento sarebbe un effetto della divina grazia che egli ha respinto in terra e non gli può essere più data laggiù.

E se gli si proponesse di salire in Paradiso, egli si rifiuterebbe, perché le tenebre del suo odio rifuggono dalla luce paradisiaca dell’amore (cfr. q. 102). Dunque pessimismo ? E perché ? Quella realtà e quella visione tremenda non sono, per contrasto, che un più vibrante richiamo della ineffabile visione del Cielo. Laggiù sono solo tenebre e dolore perché non vi abita Dio, perché hanno cacciato Dio, perché luce e felicità sono soltanto lassù, dove è - beatificante - Iddio.

Che gioia saperci avviati al suo possesso ! Saperci suoi eredi ! Ed essere certi di raggiungerlo, purché raccogliamo le grazie meritateci dal Sangue divino misericordiosamente sparso per noi. Il coraggioso Capitano dell’« Enterprise » non era sicuro di poter salvare la sua nave, nonostante tutti gli sforzi; e infatti non c’è riuscito. Ma noi siamo certissimi di salvare la nostra anima, se vogliamo, cioè di terminare la navigazione della vita nel porto beato della eternità.

E dopo qualsiasi momentaneo naufragio, basta che tendiamo umilmente le nostre mani supplici a Lui e alla celeste Madre e sapremo riprendere la rotta. Tutto questo è profondamente dolce, luminoso, pieno di sano ottimismo.
Che le due prospettive Paradiso e Inferno diano un contenuto drammatico alla vita è vero. Ma solo per ricordarci che la vita è una cosa seria e quindi preziosa. Perciò vale la pena di viverla, noi. E vale la pena di consumarla per portare luce e salvezza agli altri.

La morte nella Chiesa







Testo dell'audioQuella particolare e salutare catechesi sulle realtà ultime (in greco «eskatà», in latino «novissimi»), che attendono ogni uomo, credente o non credente, vale a dire in primis la Morte, il Giudizio, l’Inferno per gli impenitenti e il Paradiso per i giusti, sembra essere scomparsa dall’orizzonte pastorale attuale.

La prospettiva dell’eternità, che è il fine proprio e specifico della vita cristiana, sembra essere stata oscurata da una catechesi, che si risolve nell’autorealizzazione dell’uomo nella vita presente. Quella attuale è una “escatologia senza escatologia”. La catechesi permane su di un livello immanente, puramente terrestre. Per lo più ci si limita ad una lettura introspettiva, esistenzialista, dunque immanentistica della dottrina del Figlio di Dio, destinata a risolversi nell’hic et nunc.
Nell’odierna (de)formazione teologica si assiste ad una radicale incapacità di esercitare la ragionenella modalità che è propria alla nostra natura umana ossia la modalità «metafisica». Mai nella Chiesa si era assistito ad una vera e propria “paralisi intellettuale” come quella che affligge l’epoca attuale; una paralisi che impedisce di risalire ai fondamenti immutabili dell’essere e del divenire, della natura e della grazia, della ragione e della fede.
Il fenomeno culturale di massa a cui assistiamo è, come lo definì acutamente Marcel De Corte, nient’altro che «la morte della ragione».

Dall’essere al non-essere

Ma se l’uomo non è più in grado di dire nulla di certo, di vero e di definitivo sulla vita, cioè sull’essere, come potrà affrontare il mistero oscuro e incombente della morte, cioè del non-essere?
Non sarà questo proprio il segnale che siamo entrati in nuova fase della storia dell’umanità, segnata dall’autodemolizione sistematica di qualsiasi cosa sappia di verità per sé immutabile e irreformabile, sia essa di ordine naturale o soprannaturale? Allora dovremmo ammettere che l’odierna dis-societàpost-cristiana non è destinata ad altro che all’instaurazione del regno del non-essere ovvero della morte o più propriamente del male.
Tuttavia la morte può e deve essere considerata sotto diversi aspetti: scientifico-biologico, psicologico-morale, filosofico-razionale e religioso-spirituale. In questa sede ci occuperemo di quello filosofico e religioso.
Si legge nell’Enciclopedia del Cristianesimo di mons. Romanini: «Secondo la filosofia perenne, poiché il principio della vita vegetativa e sensitiva è materiale e quindi corruttibile, la morte è un fenomeno materiale e con la corruzione del corpo segue anche quella del principio vitale».
Questo è ciò che accade nelle piante e negli animali ossia in tutti gli esseri viventi irrazionali, i quali sono dotati di anima e per questo si dicono “animati”, ma anche di un’anima mortale, poiché essi esauriscono la loro ragion d’essere in questo mondo. «“Ma nell’uomo, essendo il principio vitale immateriale e quindi per sé immortale, la morte non può essere che separazione dell’anima dal corpo con la conseguente corruzione di questo, mentre l’anima continua a vivere immortale. Questa conclusione della sana filosofia viene mirabilmente confermata dalla Rivelazione e dalla teologia, la quale fissa i seguenti punti:
  1. La morte è legge per tutti gli uomini, dalla quale neppur Gesù Cristo ha voluto essere esente;
  2. Dio, elevando l’uomo all’ordine soprannaturale, l’aveva arricchito anche di doni preternaturali, tra i quali l’immortalità nello stato di natura integra;
  3. Ma col peccato originale l’uomo ha perduto anche questo dono, quindi la morte attualmente può e deve dirsi conseguenza del peccato (Rm 5,12);
  4. La morte è il termine della vita terrena e il tempo utile per meritare;
  5. Subito dopo la morte segue il giudizio particolare di ogni anima, con sentenza d’immediata esecuzione e irrevocabile;
  6. Seguirà alla fine del mondo la risurrezione dei corpi».

La morte, via verso il Padre

Da questa sintesi circa la morte dell’uomo possiamo ricavare due conseguenze etico-religiose di utilità pratica:
  1. La morte e la sofferenza ad essa connessa, insieme a tutte le sofferenze fisiche e morali della vita presente, sono anzitutto un castigo per il peccato di Adamo, pertanto richiedono da parte nostra la loro umile accettazione in quanto giusta pena che ogni uomo merita per la solidarietà con il suo capostipite;
  2. La morte non è solo un castigo, ma, dopo la Passione e Morte del Figlio di Dio, è divenuta la via unica e imprescindibile attraverso la quale ogni uomo può andare incontro all’Eterno Padre. Nostro Signore Gesù Cristo, che è Dio, non è venuto infatti ad eliminare la sofferenza e la morte, ma è venuto a santificare l’una e l’altra, conferendo loro un fine ultramondano soprannaturale, che apre all’uomo la prospettiva dell’eternità.
A tal proposito San Tommaso insegna nel De rationibus fidei che Cristo «sostenne la morte per impedire che il timore di essa facesse abbandonare a qualcuno la verità. E perché nessuno avesse paura di incorrere in una morte spregevole a causa della verità, scelse il più orribile genere di morte, cioè la morte in croce. Così dunque fu conveniente che il Figlio di Dio fatto uomo patisse la morte, per indurre col suo esempio gli uomini alla pratica della virtù, di modo che risulti vero ciò che Pietro dice: “Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio affinché ne seguiate le orme” (I Pt 2,21)».
Solo con questo sguardo che si eleva al di sopra del non senso del dolore e della morte è possibile per l’uomo affrontare e sostenere l’esistenza da “vero uomo” ossia nell’eroismo della virtù. A ragione perciò il Cardinal Stefan Wyszynski (1901-1981) ebbe a dire: «Chi non ha un buon motivo per morire, non ha nemmeno un buon motivo per cui vivere».
È l’idea di morte infatti a determinare l’atteggiamento dell’uomo dinanzi alla vita e alla propria esistenza, per cui al non senso della sofferenza e della morte corrisponderà il non senso della gioia e della vita. Questa ad esempio è la conclusione disperata a cui deve giungere l’esistenzialismo ateo di Jean Paul Sartre (1905-1980). Egli stesso lo afferma in L’essere e il nulla quando scrive: «La morte non è mai quello che dà il suo senso alla vita; è invece ciò che le toglie ogni significato. Se dobbiamo morire, la nostra vita non ha senso, perché i suoi problemi non ottengono alcuna soluzione e perché il significato stesso dei problemi resta indeterminato».

Annunciare il Regno di Dio

Soltanto quando la Chiesa, scossa dal torpore in cui sembra essere piombata, rivendicherà a sé il compito profetico di annunciare la venuta del Regno di Dio (soprattutto attraverso la catechesi dei Novissimi), il mondo potrà avere un’altra chance di salvezza. Al contrario essa andrà incontro alla propria “morte cerebrale”, operando non più da katéchon ma quasi piuttosto da portabandiera del non-senso del vivere e del morire, incapace di illuminare il mistero della morte.
In definitiva, solo la morte del Figlio di Dio ha restituito all’uomo la speranza e solo nella Sua morte egli può trovare la soluzione all’enigma della propria morte.
In questa opera santa i laici hanno un ruolo importantissimo, pertanto noi tutti possiamo e dobbiamo moltiplicare gli sforzi, affinché la morte con la sua “liturgia”, i suoi riti e la sua angoscia sia riguadagnata a Cristo.

Il timore della morte




Testo dell'audio
+ In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.

Timor mortis conturbat me  (dalla poesia medioevale).
Il timore della morte è un fenomeno naturale per due motivi. Il primo: la morte è un avvenimento contro natura. L’anima umana infatti è orientata al corpo, per costituire assieme ad esso un’unità sostanziale, mentre la morte, che avviene tramite la separazione violenta dell’anima dal corpo, rompe quest’unione naturale. Secondo motivo: la dipartita dell’anima, privando il corpo del suo principio vitale, lo lascia preda ai processi di corruzione e di putrefazione.
Perché la morte è un avvenimento contro natura? Perché la morte è un tratto della natura caduta ed un effetto del Peccato Originale: non fu creata da Dio, di Cui tutto ciò che è creato è buono.
Dio creò la natura umana nello stato di innocenza originale e la vita umana in modo tale da non poter morire mai. Fu il demonio a far cadere la natura umana e ad intaccare la vita umana con la morte. In altre parole, se fu Dio a creare la natura umana e la vita, fu il demonio, per così dire, a creare la natura caduta e la morte.
Non abbiamo altra scelta che rassegnarci già adesso a tutte le pene che potranno accompagnare la nostra morte, secondo l’ispirazione di sant’Alfonso nella Via Crucis e di accettarle ed offrirle a Dio in punizione e riparazione per i nostri innumerevoli peccati.
Ora, se ci sono due motivi naturali per temere la morte, ce ne sono anche due sovrannaturali: cioè la consapevolezza dei peccati commessi durante la vita e l’incertezza della salvezza. Per combattere questo timore sovrannaturale, bisogna applicarci con grande impegno alla pratica delle virtù cristiane. Occorre una battaglia senza tregua contro i peccati e le tendenze peccaminose.
Quali sono i peccati miei abituali? Qual è il mio vizio predominante? Se lo trovo, devo attaccarlo coraggiosamente, perché vincerlo mi aiuterà a progredire lontano sulla strada della perfezione.
Occorre frequentare i Sacramenti assiduamente: la Santa Messa non solo la domenica, ma anche più sovente; la Confessione non solo a Pasqua, ma più volte all’anno. In questo modo potrò ridurre la gravità e la frequenza dei miei peccati ed essere più sicuro della mia salvezza.
Ricordiamo le parole del Signore a santa Gertrude: “A chi ascolta devotamente la santa Messa, Io manderò negli ultimi istanti della sua vita tanti miei santi per confortarlo e proteggerlo quante saranno state le Messe da lui ben ascoltate“.
Questo lavoro, però, deve cominciare subito. Chi sa se qualcuno in ascolto adesso sopravviverà fino a stasera? – mentre dice a sé stesso: “Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” (Lc 12. 19-20).
Se io dovessi morire tra poco, anzi, se fossi già sul letto di morte, di quali peccati mi vergognerei? Di quali abitudini e di quali peccati singoli? La mia impazienza (anche se solo leggera)? Se pecco 2-3 volte al giorno in questo modo, dopo un anno avrei peccato 1.000 volte, ma questi peccati dovranno essere tutti riparati. E i soldi presi con l’intenzione di restituirli, ma che per un motivo o un altro non ci sono mai riuscito? O quell’atto impuro, di cui mi sono talmente vergognato che non l’ho mai confessato – anche a costo di tante confessioni sacrileghe?
Mi metto in ispirito sul letto di morte adesso e mi chiedo di che cosa io mi vergogni, che cosa possa impedire la mia salvezza eterna, quali siano i miei peccati e le mie tendenze peccaminose; e, nel tempo che Dio mi concederà a partire da adesso fino alla mia morte, proverò a correggermi, affidandomi interamente alla grazia di Dio e all’intercessione della Sua Santissima ed Immacolata Madre Maria.
Se in questo modo mi impegno per condurre una buona vita cattolica, non avrò niente da temere. Il timore della morte appartiene infatti piuttosto ai pagani ed a coloro che non praticano la Fede. Per i cattolici praticanti, invece, è un passaggio ad una vita migliore: il Paradiso o almeno il Purgatorio, un luogo dove, malgrado le sofferenze che lo caratterizzano, l’anima, adesso libera da ogni dubbio sulla sua salvezza, si avvicina sempre di più alla sua unione definitiva a Dio.
Mi posso consolare con i pensieri seguenti: che prima di noi Nostro Signore Gesù Cristo Stesso è passato attraverso la morte; che Egli con la Sua morte ha vinto la morte e ci ha apparecchiato la vita eterna; che Egli Stesso ci accompagnerà nel nostro passaggio a questa vita.
E quando fu giunta la sera, Egli disse: Passiamo all’altra riva“(Mc 4. 35). Quando la sera della mia vita sarà giunta, mi dirà: Passiamo. Passiamo attraverso il lago, attraverso l’acqua della morte, all’altra riva, all’altra vita: alla vita fino ad ora sconosciuta a te, ma conosciuta a Me, dove ho preparato un posto per te. E se si solleva una tempesta, sappi che Io sarò con te, calmerò la tempesta e ci sarà una grande bonaccia. E perché hai timore, dunque? Non hai ancora Fede?
Simon Pietro gli dice: Signore, dove vai? Gli rispose Gesù: Dove Io vado per ora tu non puoi seguirMi; Mi seguirai più tardi… Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con Me, perché siate anche voi dove sono Io’ (Gv 13.36, 14.2-3). Il momento del mio passaggio non è ancora venuto, la sera non è ancora venuta, ma verrà più tardi. In questo giorno che mi è concesso dalla misericordia di Dio, devo prepararmi: per quello mi è stato concesso.
Mi preparerò con una buona vita e con la preghiera, anche quella della pratica della presenza di Dio, perché Dio è sempre con me ed anzi abita in modo particolare nell’anima del fedele in stato di Grazia: “si ambulavero in medio umbrae mortis, non timebo mala: quoniam tu mecum es“- “se camminerò in mezzo all’ombra della morte non temerò il male, poiché siete con me’(salmo 22).
Anche sul letto di morte continuerò a praticare la presenza di Dio, unendomi a Lui, l’Ospite Divinonel cuore, unendo la mia morte alla Sua morte in croce per amor mio. Ciò sarà il mio grandissimo conforto negli ultimi momenti della vita.
E pregherò alla Beatissima ed Immacolata Madre di Dio, Maria Santissima, che fu immune dal timore della morte, perché immune dal peccato e assolutamente certa della salvezza: che mi accompagni anche Lei nel mio passaggio nell’al di là. Anzi, già adesso ogni volta che la pregherò, mi assicurerò della sua protezione materna alla fine della mia vita, chiedendole con fervore: Ora pro nobis, nunc et in hora mortis. Amen – preghi per noi adesso e nell’ora della nostra morte.
Amen.

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