È Nerone l’Anticristo raffigurato nella «bestia che sale dal mare» dell’Apocalisse?
di Francesco Lamendola - 13/04/2012La maggior parte dei biblisti e degli studiosi di storia delle religioni sono d’accordo ll’identificare la “bestia che sale dal mare” del libro dell’«Apocalisse» (Ap., 13, 1) con l’Anticristo e a ritenere che, a dispetto del suo corpo di pantera, delle sue zampe di orso e della sua bocca di leone, nonché delle sue sette teste e delle sue dieci corna, si tratti, al di là dei veli dell’allegoria, di una figura antropomorfa.
Il drago rosso della scena precedente, anch’esso munito di sette teste e dieci corna e la cui coda trascinava un terzo delle stelle del cielo per poi scagliarle sulla terra, ma che è chiamato esplicitamente anche Satana, e che si presenta come gran seduttore del mondo, affida alla bestia venuta dal mare il suo potere, il suo trono e una grande autorità.
A sua volta una terza creatura mostruosa, una bestia che sale dalla terra, munita di due corna e di una voce di drago, esercita tutto il potere della bestia uscita dal mare, in sua presenza, e costringe tutta la terra ed i suoi abitanti ad adorare quest’ultima come un dio, specie dopo che la mortale ferita di questa era stata prodigiosamente guarita.
La sequenza, pertanto, sarebbe la seguente: il Diavolo, un angelo che si è ribellato a Dio, viene precipitato sulla terra, dove tenta di divorare il figlio della donna vestita di sole; non riuscendoci, la insegue e tenta di farla annegare; fallito anche questo tentativo, si scaglia contro i seguaci della donna, cioè i cristiani; la bestia venuta dal mare è l’Anticristo, che prepara la strada al regno del Diavolo stesso; la bestia uscita dalla terra è il falso profeta, che, a sua volta, induce o costringe gli uomini ad adorare l’Anticristo.
Giovanni, l’autore del libro dell’«Apocalisse», viene informato da un angelo che la bestia salita dal mare «rappresenta uno che viveva una volta, e ora non vive più» (Ap. 17, 8), che sta per salire dal mondo sotterraneo e andare vero la distruzione definitiva; egli è un re, l’ottavo della serie di sette che lo hanno preceduto.
Tutto questo è già abbastanza misterioso e, da sempre, fa impazzire gli esegeti; a complicare le cose, se possibile, Giovanni (chiunque si celi dietro questo nome, l’autore del quarto Vangelo oppure no, o, addirittura, non un singolo autore, ma un gruppo di persone che avrebbero cucito insieme racconti appartenenti a tradizioni diverse) dice, a un certo punto, che «qui ci vuole saggezza» (Ap., 13, 18), perché il mostro venuto dal mare possiede un numero preciso, e che questo numero corrisponde a un uomo: il seicentosessantasei.
Un esercito di studiosi di ogni tendenza e ideologia si è cimentato nell’impresa di svelare l’arcano del 666, ma con risultati assai controversi; prevalgono, nel complesso, quanti pensano che quel numero corrisponda al nome di Nerone, imperatore romano durante il cui regno ebbe luogo la prima, tragica persecuzione anticristiana organizzata, nell’anno 64 (originata, in realtà, dal tentativo di riversare su di un capro espiatorio la rabbia dei Romani per il disastroso incendio dell’Urbe e per l’impotenza, o per l’inefficienza, mostrate dalle pubbliche autorità nel fronteggiare il disastro; se non addirittura per il sospetto odioso, e certamente infondato, di una origine dolosa, da ricondursi alla stessa corte imperiale).
Scrive Edmondo Lupieri nella sua pregevole monografia «L'Apocalisse di Giovanni», Fondazione Lorenzo Valla, 1999, pp. 203-04; 217:
«La "bestia... con dieci corna e sette teste" è tale perché contiene in sé tutte le bestie che appaiono in Daniele, 7, 3-7. Là, infatti, troviamo quattro mostri, di cui il terzo ha quattro teste e il quarto ha dieci corna; inoltre i primi tre sono paragonati rispettivamente a un leone, un leopardo e un orso, cioè agli stessi animali che ricompaiono qui, al v. 2. La belva di Giovanni, quindi, è la somma di quelle di Daniele, le quali pure "salgono dal mare" (Dan. 7,3). Daniele sta sviluppando una propria riflessione sulle quattro fasi della storia umana recente, espresse in quattro imperi universali (babilonesi, medi, persiani, Alessandro con i diadochi (le "dieci corna” sono i seleucidi). Le quattro bestie sono "quattro regni (così il greco e la Vulgata; l'aramaico ha "quattro re") che sorgeranno dalla terra" (Daniele, 7, 17). Giovanni, ricordando i "dieci diademi", mostra la propria continuità con la spiegazione di Daniele: si tratta sempre di sovrani e il potere qui rappresentato è quello politico e militare del mondo antico [..] Tuttavia, fondendo le quattro belve in una, egli sembra voler sottolineare che non vi è differenza nei vari imperi che si susseguono nella storia umana; la loro natura è una e malvagia, come malvagio e satanico è il potere che li sorregge. Non soltanto il numero delle teste e delle corna propone una specie di identificazione mistica fra la bestia e il Satana (ved. 12, 1), ma questi stesso è detto dare alla bestia "la sua potenza e il suo trono e un potere grande" [...] Tutta la storia umana è in potere del Satana e i vari regni di questo mondo sono sua diretta e unica emanazione cfr. Ev. Luca, 4, 5-6: "Gli mostrò tutti i regni della terra in un istante e gli disse il diavolo: Ti darò tutta quanta questa potenza e la loro gloria, poiché mi è stata consegnata [passivo divino!] o a chi voglio"). Per Giovanni, l'esempio palpabile di tale potere universale doveva essere l'impero romano, tuttavia la sua descrizione della bestia pare pensata appositamente per trascendere qualsiasi identificazione univoca: essa riassume in sé tutto il potere di questo mondo. Non credo che dietro questa visione vi sia un preciso progetto politico, almeno come lo intendiamo oggi; tuttavia ci troviamo sui posizioni molto lontane da un programma di tipo costantiniano. Le interpretazioni della bestia sono state e possono ancora essere molteplici, ma la satanicità del potere e l'alterità del cristianesimo rispetto a tale potere sono sempre state percepite. Forse non fu questo uno degli ultimi motivi che rendevano tanto ostica l'"Apocalisse" ai vescovi della corte bizantina, se non già allo stesso Eusebio. Di converso, proprio l'avversione al potere nelle sue manifestazioni storiche è uno dei motivi delle simpatie godute dal nostro testo in epoca contemporanea, presso teologi impegnati politicamente me, in genere, presso gruppi cristiani minoritari. [...]
Nei secoli passati i gruppi cristiani anticonformisti o anticattolici tendevano a individuare le varie bestie nel papato dei giorni loro; Ubertino da Casale nota che la traslitterazione greca del nome Benedetto XI (1303-1304), dà Benediktos, il cui valore è appunto 666. Osiander portava il discorso più sulle generali, notando che [..] Ecclesia Italica, traslitterato in greco, offre lo stesso risultato. Gli risponde a distanza, agli inizi del Seicento, il gesuita Lodovico d'Alcazar, che propone .[…] “la falsa sapienza che viene dalla vita”, sapientia carnis, che deriva da 1 Ep. Giovanni, 2, 16) Anche Lutero spiega in termini antiromani il numero, ma propone che esso sia calcolato sull'ebraico "rwmyywt", qualcosa come "romanità". Era stata forse proprio l'autorità di Lutero a permettere che si tralasciasse ufficialmente l'idea che al numero dovesse corrispondere un nome proprio; certamente a tale autorità si deve il successo più duraturo dell'idea che il calcolo non debba essere condotto al greco. Furono quindi fatti vari tentativi con varie parole del libro, soprattutto in ebraico, ma anche in aramaico (l'espressione"re dei re e signore dei signori"), di 17, 14 e 19,16, tradotta in aramaico, costituisce un sintagma il cui valore è 777). Fu tuttavia nel secolo scorso [cioè nel XIX, nota nostra] che ben quattro studiosi giunsero indipendentemente alla soluzione che oggi quasi tutti accettano: "Nerone Cesare" in ebraico doveva scriversi "nrwn qsr", il cui valore numerico, in ebraico, è appunto 666. Non senza stupore, si osservò che "nrw qsr", cioè una precisa traslitterazione del latino "Nero Cesar", dà 616 [...] L'unica difficoltà era che di solito, in ebraico, il termine "Cesare" [...] è reso "qysr"; ora, però, uno dei testi ritrovati nella grotta presso lo Uadi Murabb'at, e datato al secondo anno del regno di Nerone, reca proprio la grafia "qsr" per indicare l'imperatore romano. Quest'ultima scoperta è parsa la riprova definitiva della validità dell'ipotesi neroniana, mettendo in ombra gli altri tentativi d'interpretazione. Non solo, ma secondo alcuni non avremmo un caso di semplice gematria, ma un vero e proprio isopsefismo... [...]. L'interpretazione antiromana del numero (come di tutto il testo) si caratterizza dunque come un'interpretazione di origine protestante, fatta propria dalla critica anglosassone. Anche l'idea che il termine celato sia in lingua ebraica appare sotto l'egida personale di Lutero. Certamente, col passare dei secoli, la critica "scientifica" è divenuta "laica" e quindi ha negato al testo un valore profetico per il presente, interpretandolo esclusivamente secondo i dettami del metodo storico-critico. L'anti-romanità è quindi scivolata dal versante religioso a quello storico-politico, accontentando un po’ tutti, protestanti e cattolici, laici e credenti, in Europa e nel Terzo Mondo. Quei credenti che ritengono il testo un libro di profezie ancora ben valido e i teologi politicamente impegnati accettano l'interpretazione neroniana del numero come un primo livello interpretativo, essendo la bestia una profezia per il tiranno che di volta in volta si presenta sulla scena della storia umana, sia egli Hitler [...] o Saddam Hussein [...] Che, quindi, dietro il 666 si celi il nome di Nerone sembra a tutti oggi una cosa normale. [...]
Comunque sia, indipendentemente dalla più o meno scarsa verosimiglianza di giochi interlinguistici o aritmologici talora dai toni estremi, individuare nel 666 il nome di un determinato imperatore romano è alquanto riduttivo rispetto al tono generale del testo che vuole avere una validità cosmica; l'eventuale coincidenza con un determinato nome può anche essere significativa, ma questo aspetto contingente della profezia dovrebbe essere secondario rispetto a quello generale. La bestia è l'incarnazione di Satana, tutto il male del potere su questa terra.»
Se l’Anticristo è Nerone, allora non vi è alcun dubbio che la donna, la prostituta famosa seduta sul mostro dalle sette teste e dalle dieci corna, che al tempo stesso è «la grande città che comanda su tutti i re della terra» (Ap. 17, 18), e che subito dopo viene chiamata “Babilonia la grande”, rappresenta, in realtà, Roma.
Una diversa identificazione, per esempio con Gerusalemme (avanzata dal gesuita Jean Hardouin, ma anche dal protestante Firmin Abauzit) , sarebbe possibile solo se si ammette che le sette lettere dell’Apocalisse siano indirizzate da “Giovanni” ai Giudeo-Cristiani di Gerusalemme stessa; in questo caso, pur ammettendo che i “re” rappresentati dalle corna della bestia sono gli imperatori romani (o, prima di essi, le monarchie del Vicino Oriente, dai Babilonesi in poi), i persecutori dei cristiani, di cui viene fatta vendetta divina nel Giudizio Finale, non sono i Romani, o non soltanto i Romani, ma appunto i Giudei, che hanno rifiutato il Vangelo di Gesù e si sono scagliati contro i suoi seguaci, o hanno istigato le autorità romane contro di essi.
Bisogna dire che questo terreno è molto spinoso, perché i protestanti, da Lutero in poi, hanno sempre identificato “la grande Babilonia” con Roma e l’Anticristo con Nerone, e ciò in chiave di polemica anti-romana, ossia, nel contesto storico-teologico della Riforma, anti-cattolica; mentre gli studiosi cattolici, pur se hanno accettato, ma non sempre e non tutti, tali identificazioni, hanno sempre insistito sulla storicità della profezia apocalittica, ossia sul fatto che essa va rapportata alla fase in cui l’Impero romano era pagano.
Si tratta di una distinzione importante: a partire da Costantino, l’Impero romano si converte al cristianesimo e, pertanto, i cristiani non possono più identificarlo con la Babilonia infernale; al contrario, essi incominciano a vede nell’Impero di Roma un fattore provvidenziale, che, unificando gran parte del mondo allora conosciuto, ha reso possibile la massima diffusione del cristianesimo stesso; e tale sarà, in sostanza, l’interpretazione cristiana durante i secoli del Medioevo, partendo da sant’Agostino, almeno fino a Dante (e si pensi a quanto importante sia, nella «Commedia» dantesca, lo spirito millenarista e gioachimita, culminante nella profezia del Veltro; ma anche quanto importanti siano le simbologie propriamente apocalittiche, specialmente nei canti conclusivi del «Purgatorio», che il poeta dimostra di aver meditato a fondo).
Naturalmente, le sette ereticali e, in generale, i gruppi e i soggetti cristiani che avevano una posizione critica verso la Chiesa di Roma, molto prima di Lutero avevano visto nell’Anticristo non un imperatore, ma un papa; Ubertino da Casale, per esempio, vi aveva visto Bonifacio VIII; secondo Pietro di Giovanni Oliva, l’Anticristo non è un singolo personaggio, ma il papato nel suo insieme (così come, per Gioacchino da Fiore, si tratta dell’islamismo, ferito ma non abbattuto dalle Crociate, anzi riemerso più forte ad opera del Saladino).
Anche la Chiesa orientale non aveva mai gradito troppo l’identificazione di Babilonia con Roma e dell’Anticristo con Nerone; fin dai tempi dell’Impero bizantino, lo stretto legame fra la chiesa costantinopolitana e l’Impero si prestava a imbarazzanti riflessioni circa la “commistione” di sacro e profano da parte cattolica e la compromissione della Chiesa con il potere politico.
È un punto centrale: si tratta di vedere se l’autore dell’«Apocalisse» ritenga malvagio qualsiasi potere politico, anzi, se lo ritenga apertamente diabolico; oppure se la durissima condanna si riferisca solo a un certo potere politico, cioè quello che perseguita i cristiani. E non è una questione puramente speculativa. Se il potere è, in se stesso, malvagio, come sosteneva lo storico Jakob Burckhardt e come si potrebbe evincere da una lettura un po’ frettolosa delle tentazioni di Cristo nel deserto, allorché il Diavolo offre a questo tutti i regni della terra, purché lo adori, allora l’«Apocalisse» traccia un solco invalicabile fra cristianesimo e politica, e qualunque accordo o compromesso fra il primo e la seconda va respinto come una tentazione satanica, così come satanica va considerata la Chiesa che cede a una tale tentazione.
Se, viceversa, il potere in se stesso non è diabolico, ma diviene tale solo quando si rivolge contro Dio, contro Cristo e i suoi seguaci, allora vi è spazio per una convivenza fra Città terrena e la Città celeste; e questa è la interpretazione che ha finito per prevalere, e che, con Tommaso d’Aquino, trova la sua composizione definitiva nella coesistenza, pur nella loro reciproca distinzione, dei due ordini di realtà, quello naturale e quello soprannaturale.
Si capisce, così, come tutta l’«Apocalisse» sia sempre stata considerata, un po’ da tutti, come un libro tremendamente scomodo. La questione della identificazione della figura dell’Anticristo e della grande prostituta chiamata Babilonia la grande non è che il punto culminante di un intreccio di simbologie e di significati, storici e teologici, estremamente delicati, sia da un punto di vista interno al cattolicesimo, sia da un punto di vista esterno.
Per dirne una: non è nemmeno chiaro se lo scontro finale tra le forze del Bene e quelle del Male avvenga una sola volta (Armagheddon) o se due (Gog e Magog); così come, in generale, non sono affatto chiari i tempi di tutta la vicenda apocalittica, che sembrano frequentemente intrecciarsi, ritornare all’indietro, sovrapporsi.
Ulteriori difficoltà di comprensione vengono, poi, dal fatto che “Giovanni”, l’autore del misterioso libro che chiude il Nuovo Testamento, afferma che il drago venuto dal mare è «uno che viveva una volta, e ora non vive più»; ma che, nondimeno, si prepara a uscire dal mondo sotterraneo per esercitare tutto il suo terribile potere, sia pure per un tempo limitato. Un risuscitato, dunque?
Se l’Anticristo è Nerone (e ripetiamo “se”), allora si potrebbe pensare, e di fatto si è pensato, alle voci insistenti che, subito dopo la morte dell’imperatore, si diffusero nelle province orientali dell’Impero, secondo le quali egli non era morto, ma si era nascosto, e sarebbe tornato con un esercito, forse stranero (i Parti?), per fare terribile vendetta dei suoi nemici.
Era una leggenda tenace, che mise molto tempo a spegnersi; e si fondava su una diffusa nostalgia del defunto imperatore, anche in certi strati della società occidentale, tanto è vero che, quando Otone tolse di mezzo Galba e prese a sua volta la porpora imperiale (per essere, poco dopo, eliminato da Vitellio, e questi, a sua volta, da Vespasiano), molti Romani lo acclamarono, forse anche per il ricordo dell’antica amicizia fra i due, come un «Nerone redivivo».
San Paolo, da parte sua, non mostra di credere che l’avvento dell’Anticristo sia imminente, perché esso porterà con sé, a sua volta, anche la Parusia, ossia il ritorno di Cristo e, quindi, la fine dei tempi e il Giudizio Finale; e aggiunge che tali eventi sono ritardati dall’azione del “Katechon”, una entità che rifiuta, e perciò trattiene, la manifestazione dell’Anticristo.
Di quest’ultimo egli parla in termini piuttosto vaghi, che non permettono di identificarlo senz’altro con un capo politico né, meno ancora, con un imperatore romano; ma che, semmai, potrebbero rievocare la profanazione e il saccheggio del Tempo di Gerusalemme da parte del re Antioco IV Epifane, secondo la profezia contenuta nel «Libro di Daniele» e giudicata avverata dallo storico Flavio Giuseppe nelle sue «Antichità giudaiche» (2 Ep. Tessalonicesi, 2, 1-12):
«Fratelli, per ciò che riguarda il ritorno del nostro Signore Gesù Cristo e il nostro incontro con lui, vi raccomando una cosa: non lasciatevi confondere le idee tanto facilmente. Non mettetevi in agitazione se qualcuno dice che il giorno del Signore è ormai presente o afferma di averlo saputo per mezzo di una rivelazione, o da qualche discorso, oppure da una lettera che fanno passare come mia. Non lasciatevi imbrogliare da nessuno, in nessun modo! Perché il giorno del Signore non verrà fin che ci sia stata l’apostasia e si sia manifestato l’uomo malvagio , il figlio della perdizione, “colui che si contrappone “e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio” o è oggetto di culto, “fino a sedere nel tempio di Dio”, additando se stesso come Dio.
Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù “lo distruggerà con il soffio della sua bocca” e lo annienterà all’apparire della sua venuta, l’iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di portenti, di segni,e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina, perché non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi. E per questo Dio invia loro una potenza d’inganno, perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità.»
E qui le cose si complicano ancora di più.
Chi o che cosa è questo misterioso “Katechon”, questo individuo o questa forza che trattiene l’avvento dell’Anticristo e, in tal modo, ritarda, sia pure a fin di bene, la Parusia, il ritorno definitivo di Cristo e la fine dei tempi?
Se la piena manifestazione delle forze del Male, peraltro temporanea, è inevitabile e, anzi relativamente vicina, perché qualcosa o qualcuno si prende la briga di fare da argine, di trattenerla? Non sarebbe meglio lasciare che tale irruzione avvenga, sì che si possa manifestare, subito dopo, anche il mistero risolutivo della Parusia?
Non è forse a quest’ultimo che tende la storia umana; non è in vista di esso che Dio ha predisposto il Suo piano di salvezza nei confronti del mondo, dall’Incarnazione, alla Passione, alla Risurrezione; e non è ad esso che tendono l’attesa e le speranze di tutti i cristiani?
San Paolo parla del “Katechon” come di una realtà che i suoi interlocutori dovevano capire in maniera piuttosto chiara, visto che non si dà la pena di spiegare un po’ meglio di che cosa si tratti; ma i lettori moderni non ne sanno assolutamente niente e non possono che restare perplessi davanti alle sue parole, rammaricandosi della loro oscurità.
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