VATILEAKS / PADRE GEORG TESTIMONE: IN CASA AVEVA ANCHE CARTE RISERVATE DEL 2006
«Sì, ho tradito il Papa» . E il corvo fa sette nomi
Il maggiordomo Gabriele si difende: «Fui suggestionato dai cardinali Comastri e Sardi e da monsignor Cavina»
Paolo Gabriele alle spalle del Papa in una foto d'archivio (Ansa)
CITTÀ DEL VATICANO - C'è l'imputato Paolo Gabriele, sempre in completo grigio, sempre pallido e con le occhiaie, seppure un po' più disteso della prima udienza, che nega «nel modo più assoluto» di avere avuto complici nel diffondere le carte riservate del Papa (salvo osservare: «Non mi ritengo l'unico nel corso degli anni ad aver fornito documenti riservati alla stampa») e si dichiara «innocente» dall'accusa di furto aggravato ma dice: «Mi sento colpevole di aver tradito la fiducia che aveva riposto in me il Santo Padre che sento di amare come un figlio», e sospira e poi s'alza in piedi deferente quando in aula entra monsignor Georg Gänswein, segretario particolare del Papa.
C'è Gänswein che non lo degna di uno sguardo, si muove un po' a disagio nella veste di testimone («è la prima volta», sorride alla corte), giura sul Vangelo e ripete il racconto di come il 21 maggio incastrò l'ex maggiordomo, aggiungendo una cosa importante: è cioè che tra i documenti riservati trovati in casa di Gabriele non c'erano solo le fotocopie accumulate dal «2010-2011» («dal caso Viganò», dice il domestico) ma anche documenti originali, con tanto di timbri e sigle papali, «del 2006, 2007 e 2008», ovvero fin da quando «l'aiutante di camera» prese servizio nell'appartamento del Papa.
E poi ci sono, per la prima volta, dei nomi: sette in tutto. Si era già parlato di «due porporati italiani», ora saltano fuori i cardinali Angelo Comastri e Paolo Sardi, che assieme al vescovo Francesco Cavina e alla storica collaboratrice di Ratzinger, Ingrid Stampa, erano stati citati da Gabriele dopo l'arresto come persone con cui «aveva avuto contatti». È stato il «pm» vaticano Nicola Picardi a ricordarlo ieri: «Lei ha detto di essere stato suggestionato da una situazione ambientale, citando in particolare queste persone».
Il cardinale Sardi «era una specie di guida spirituale». A luglio il quotidiano Die Welt aveva collegato il clima di Vatileaks alle «invidie» d'un gruppo di persone rimaste emarginate, citando Sardi e Stampa più il vescovo Joseph Clemens, ma la Santa Sede aveva smentito ogni loro coinvolgimento. Di qui la domanda del pm: hanno collaborato con lei? Gabriele ha scosso la testa, «non mi vedo in questa ricostruzione», ha detto che Sardi era per lui «un punto di riferimento» all'inizio, quando lavorava in Segreteria di Stato, che poi non lo fu più, che «non mi sembra corretto collegare la suggestione a queste persone» e «potrei dire un numero di persone enorme» con cui aveva contatti.
Nessun complice, non aveva parlato di venti corvi? Gabriele ha negato: «Confermo di non aver avuto complici, con suggestione non intendevo collaborazione». Resta però la sensazione di un clima inquinato, almeno a livello basso. Gabriele dice di aver fatto delle copie per il «padre spirituale» che chiama «Giovanni» nel caso altri avessero diffuso documenti, e dimostrare così quali erano i suoi.
Ha fatto altri tre nomi a proposito del documento «Napoleone in Vaticano», un testo anonimo che attaccava il comandante della Gendarmeria Domenico Giani e che il legale di Claudio Sciapelletti aveva detto essere stato consegnato «da un monsignore per Gabriele» al tecnico informatico. Gabriele sostiene invece che glielo diede tale Luca Catano, uno che si presentava come un magistrato (ma è risultato mentisse e che avesse già millantato in passato) e aveva conosciuto attraverso un «amico del liceo che si dimostrava addentro le cose della Gendarmeria», Enzo Vangeli.
Luca Catano è un volontario dell'«Associazione dei Santi Pietro e Paolo» che fa servizio in Basilica. In questo giro è stato coinvolto anche Vincenzo Mauriello, minutante della Segreteria di Stato che però, dicono in Vaticano, sarebbe stato raggirato: Gabriele gli aveva chiesto documenti dicendo che erano per Gänswein.
Certo il maggiordomo era ossessionato dalla Gendarmeria - dice che «fu don Georg a chiedermi cosa ne sapevo» - , da storie di interne e intrighi, aveva stampato centinaia di documenti da Internet sulla massoneria e i servizi segreti, sui casi di cronaca come la scomparsa di Emanuela Orlandi o la «P4». Ed era convinto che al Papa fossero nascoste le cose, «a pranzo chiedeva cose che avrebbe dovuto sapere».
Oggi si prosegue, tra venerdì e sabato la fine del processo. Gabriele resta convinto del fatto suo: «Vedevo come certe situazioni le viveva il popolo e come i vertici del potere».
Gian Guido Vecchi l'articolo e altri servizi alle pagine 20 e 21 sul Corriere della Sera 3 ottobre 2012 | 9:11
http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/12_ottobre_3/corvo-vatileaks-fa-sette-nomi-2112074714042.shtml
Una gendarmeria sotto osservazione
La polizia della Santa Sede chiamata in causa da Paolo Gabriele nbel processo Vatileaks
ALESSANDRO SPECIALECITTÀ DEL VATICANO
Non ci sono solo i presunti maltrattamenti e pressioni ricevute dall'ex-assistente di camera di Benedetto XVI durante le prime settimane della sua detenzione in una cella di sicurezza in Vaticano.
Martedì, durante la seconda udienza del processo per il “furto aggravato” delle carte riservate del pontefice, a finire sotto i riflettori sono stati in più di un'occasione i metodi investigativi della Gendarmeria vaticana, la 'polizia' dello Stato più piccolo del mondo.
La Gendarmeria è stata fondata nel 1971 ed è composta da cittadini italiani. A guidarla c'è Domenico Giani, un ex-agente dei servizi segreti italiani: è stato lui a portare avanti le indagini e l'arresto di Gabriele, ed è proprio lui al centro di alcuni dei documenti riservati passati da Gabriele alla stampa. In particolare quel “libello inqualificabile” - come lo ha definito il promotore di giustizia vaticano, Nicola Picardi – confluito poi in uno dei capitoli del libro “Sua Santità” del giornalista Gianluigi Nuzzi.
Ieri, secondo i giornalisti presenti in aula, Giani, presente in aula nel piccolo pubblico che seguiva l'udienza, in più di un'occasione è sembrato imbarazzato da quanto rivelato nel dibattimento. E non solo quando Gabriele ha raccontato di essere stato per almeno 15 giorni in una cella in cui non poteva nemmeno allargare le braccia o spegnere la luce.
Le accuse hanno provocato una risposta rapidissima da parte del Vaticano: prima il portavoce, padre Federico Lombardi, che ha sottolineato come nella sentenza di rinvio a giudizio del giudice istruttore Piero Antonio Bonnet siano elencati ben 39 “provvedimenti riguardanti la sua condizione” presi durante la detenzione di Gabriele; poi, un ampiocomunicato della Gendarmeria stessa che ribadiva come la cella in cui è stato detenuto il maggiordomo - anche quella delle prime settimane, prima che ne fosse pronta una più ampia e con “numerose migliorie rispondenti ai requisiti richiesti dalla Convenzione sulla Tortura, cui la Santa Sede ha aderito” - rispettasse “gli standard di detenzione previsti anche per altri Paesi, per situazioni analoghe”.
Quanto alla questione della luce sempre accesa, la Gendarmeria ha spiegato che si trattava di un provvedimento preso “per evitare eventuali atti autolesionistici dell’imputato e per esigenze di sicurezza” e Gabriele stesso, a cui per altro era stata fornita una mascherina per dormire, aveva chiesto che la luce “rimanesse accesa durante la notte perché la riteneva di compagnia”.
Ma l'avvocato di Gabriele, Cristiana Arru, ha rivolto domande insistenti anche ad altri tre gendarmi: Giuseppe Pesce, Gianluca Gauzzi Broccoletti e il dirigente Costanzo Alessandrini. Ne è emerso che la polizia vaticana avrebbe condotto la perquisizione in casa di Gabriele senza guanti, rischiando di contaminare le prove.
E Gauzzi Broccoletti e Alessandrini, due degli agenti che hanno preso parte alla perquisizione che ha portato al sequestro di 82 casse di documenti nell'appartamento dell'ex-maggiordomo, hanno fornito versioni leggermente diverse sul ritrovamento in quell'occasione della misteriosa pepita, forse d'oro, diventata una degli elementi di prova contro Gabriele: nessuno ha saputo precisare dove, esattamente, sia stata ritrovata all'interno casa.
Già sabato scorso il presidente del tribunale vaticano, Giuseppe Dalla Torre, aveva escluso dal processo due interrogatori di Gabriele condotti da Giani senza la presenza degli avvocati. E oggi si continua. Nella terza udienza del processo, sono in programma gli interrogatori di altri quattro gendarmi: Cintia, De Santis, Carli e Bassetti.
Le vie del potere sono infinite...
Tra i magnifici sette che avrebbero suggestionato il maggiordomo anche il cardinale Comastri
Francesco Grana
Potrebbe essere definito il bacio della morte. È quello che Paolo
Gabriele, l’ex maggiordomo del Papa imputato di furto aggravato per
aver sottratto dall’appartamento privato di Benedetto XVI carte
riservate di Ratzinger e averle consegnate al giornalista Gianluigi
Nuzzi, ha dato a sette persone durante il dibattimento del processo che
lo vede alla sbarra e che si sta celebrando in questi giorni in
Vaticano. I magnifici sette che, secondo quanto affermato da Gabriele,
lo avrebbero suggestionato sono i cardinali Angelo Comastri e Paolo
Sardi, monsignor Francesco Cavina, Ingrid Stampa, il dottor Mauriello e
Luca Catano.
Quest’ultimo, ha affermato Gabriele, «sapeva cose relative al
comandante della Gendarmeria vaticana Domenico Giani». Stampa è l’ex
governante di Ratzinger. Monsignor Cavina, attuale vescovo di Carpi, dal
1996 al 2011 è stato officiale della Segretaria di Stato vaticana nella
Sezione per i Rapporti con gli Stati. Il cardinale Sardi è stato per
diversi anni responsabile dell’ufficio che prepara i discorsi del Papa,
mentre il suo confratello Comastri è Vicario Generale di Sua Santità per
la Città del Vaticano, Arciprete della Basilica Papale di San Pietro e
Presidente della Fabbrica di San Pietro. La nomina di quest’uultimo ha
avuto una genesi molto tribolata. La racconta il vaticanista Giancarlo
Zizola nel suo libro "Benedetto XVI. Un successore al crocevia".
Dal 2 al 10 febbraio 2005 il Papa polacco è ricoverato al Policlinico
Gemelli per una laringo-tracheite acuta. È la prima delle due degenze
di Wojtyła nell’anno che vedrà la sua morte. Scrive il giornalista: «Secondo
fonti accreditate, l’udienza del Papa al cardinale Angelo Sodano al
Gemelli si era conclusa rapidamente, anche perché non si poteva
affaticare l’infermo, quando monsignor Stanisław Dziwisz richiamò con un
gesto il Segretario di Stato, ormai vicino all’uscio, e gli mise in
mano, sotto gli occhi assopiti del Papa, un foglio scritto di mano dello
stesso Dziwisz. Lo scritto - prosegue Zizola - ordinava la
nomina di un prelato italiano suo amico, monsignor Angelo Comastri,
dalla sperduta Basilica di Loreto nelle Marche a una delle cariche
cardinalizie più prestigiose del Vaticano, la prefettura della Fabbrica
di San Pietro e agli uffici congiunti di Arciprete della Patriarcale
Basilica Vaticana (titolo cardinalizio) e di Vicario Generale del Papa
per la Città del Vaticano. "Come mai la nomina non è stata ancora
fatta?" chiese Dziwisz a Sodano in tono di rimprovero. Sodano masticò
amaro ma diede le assicurazioni desiderate. Fece mandare subito un fax a
Loreto per avvertire Comastri che il suo trasferimento a San Pietro
sarebbe stato pubblicato quello stesso pomeriggio da L’Osservatore
Romano. Ma si dimenticò di avvertire del cambiamento il titolare di
quelle cariche, il cardinale Francesco Marchisano, che si trovava a New
York in viaggio di ufficio e che seppe di essere stato sostituito al suo
ritorno in Vaticano».
In effetti, come riporta Zizola nella sua ricostruzione, il 5
febbraio 2005, con Giovanni Paolo II agonizzante ma ancora regnante,
Comastri venne nominato Vicario Generale di Sua Santità per la Città del
Vaticano, presidente della Fabbrica di San Pietro e coadiutore
dell’Arciprete della Basilica di San Pietro, cioè del cardinale
Francesco Marchisano. A quest’ultimo vennero, quindi, sottratte due
delle tre cariche che aveva e di fatto venne consegnata anche la terza,
quella cioè di Arciprete, nelle mani di Comastri in quanto il vescovo
coadiutore, secondo quanto stabilito dal paragrafo 3 del canone 403 del
Codice di Diritto Canonico, ha il diritto di successione a differenza
del vescovo ausiliare.
Il 31 ottobre 2006 Marchisano, all’età di 77 anni, passò anche
l’incarico di Arciprete della Basilica Vaticana a Comastri, che il 24
novembre 2007 ricevette la berretta cardinalizia dalle mani di Benedetto
XVI. Il 5 febbraio 2005 Marchisano fu, però, nominato Presidente
dell’Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica, incarico che mantenne
fino al 3 luglio 2009.
La genesi così tormentata della nomina di Comastri in Vaticano, se la
ricostruzione di Zizola è fedele alla realtà, non può certamente
costituire un’ombra sull’operato del porporato da oltre sette anni nella
Città leonina. È però, sempre se fosse vera, una pagina triste del
mondo vaticano che ben si sposa con quella che vede oggi protagonista
Paolo Gabriele. La morale della favola è sempre la stessa: che sia
Wojtyła o Ratzinger, al Papa è attribuita la paternità di atti che
nemmeno conosce. E l’illusione di manipolarlo a sua insaputa può tentare
un segretario e un maggiordomo. Con buona pace dei corvi. E dei veri
lupi. Dan Brown docet.
Sì, lo conoscevo e lo frequentavo ma non abbiamo mai parlato di
lavoro”
intervista a mons. Francesco Cavina, a cura di Orazio La Rocca
in “la Repubblica” del 3 ottobre 2012
«Non ho mai ispirato nessuno. Tanto meno Paolo Gabriele. E mi chiedo come abbia potuto
affermare che sarei uno lo avrebbe indotto a fare quello che ha fatto. Sono sconvolto e dispiaciuto,
ma anche sereno. E pronto a difendermi a tutti i livelli, anche davanti ai giudici, se vorranno
sentirmi».
Monsignor Francesco Cavina — 57 anni compiuti il 17 febbraio scorso — dall’inizio del 2012 è
vescovo di Carpi, dopo sei anni di servizio alla Segreteria di Stato. Uno dei tanti anonimi presuli
della Chiesa, ma da ieri mattina balzato, suo malgrado, agli onori della cronaca essendo stato
indicato come uno dei monsignori che avrebbe spinto l’ex maggiordomo a trafugare i documenti di
Benedetto XVI. «Affermazione assurda, che è frutto di un abbaglio o della mente disturbata di una
persona con doppia personalità», confida il vescovo a Repubblica.
Monsignor Cavina, conosceva bene Paolo Gabriele?
«Sì e ci siamo frequentati per molto tempo. Ma da qui a dire che sarei uno dei suoi ispiratori per
quanto fatto durante il servizio nell’Appartamento c’è differenza. Il primo a sapere che non è vero è
proprio Gabriele, persona apparentemente tranquilla, che non ho avuto difficoltà a trattare come un
amico».
Come vi siete conosciuti?
«Più o meno quando iniziò a servire il Papa, nel 2006. Io ero alla Segreteria di Stato. Da una
conoscenza superficiale, siamo passati a frequentarci con assiduità quando ci incontrammo a Roma
nella scuola delle suore Benedettine dove studiavano i suoi figli. Lì ogni 15 giorni tenevo incontri di
catechismo per i genitori e Paolo era uno dei più assidui e attenti. A un certo punto si offrì di
accompagnarmi con la sua macchina. Mi veniva a prendere nel cortile di Santa Marta. E dopo gli
incontri con i genitori, tornavamo insieme in Vaticano».
E di cosa parlavate durante i tragitti in macchina?
«Del più e del meno. Non abbiamo mai fatto cenno ai nostri ambiti lavorativi. Sapevo che svolgeva
un delicato ruolo vicino al Papa e non mi sono mai permesso di fargli domande in merito. A volte
abbiamo parlato delle problematiche del mondo, delle difficoltà che affrontano la Chiesa e la Santa
Sede, ma facendo sempre riferimento alle notizie che si leggono sui giornali o che ci trasmette la tv.
Mai un riferimento ai nostri rispettivi lavori».
L’ultima volta che vi siete visti?
«Il 22 gennaio scorso a Imola, alla mia consacrazione vescovile. Paolo venne a farmi gli auguri per
la mia missione pastorale nella diocesi di Carpi. Da allora non ci siamo più visti. E quando è
scoppiato lo scandalo dei documenti trafugati e si è saputo che l’accusato era lui, non ci volevo
credere. Forse ho avuto a che fare con una persona dalla doppia personalità, uno che ora mi vuole
infangare. Ma sono sereno. E pronto a testimoniare presso il Tribunale del Vaticano».
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa201210/121003cavinalarocca.pdf
Se Benedetto XVI lo perdona
di Agostino Paravicini Bagliani
in “la Repubblica” del 3 ottobre 2012
La domanda se il Papa concederà il perdono al suo maggiordomo al termine del processo in corso
sta facendo il giro del mondo. La questione non è però così insolita. Come ha ricordato qualche
giorno fa in un’intervista a Repubblica il Cardinale Velasio De Paolis, membro della Cassazione
vaticana, «nel 1981 Giovanni Paolo II, appena si svegliò in ospedale dopo l’attentato in piazza San
Pietro, perdonò il suo feritore, il turco Alì Agca». È inoltre lecito ritenere che il Papa abbia
perdonato il suo attentatore anche quando lo incontrò nel 1983, due giorni dopo Natale, nel carcere
di Rebibbia.
Il perdono al maggiordomo interverrebbe però al termine di un processo che si è celebrato dentro le
stesse mura dello Stato del Vaticano, ma sempre secondo il Cardinale De Paolis, anche in questo
caso «sarebbe dettato dalla misericordia che è nell’essenza della Chiesa». Il Papa agirebbe quindi
nella sua qualità di sommo pastore. Potrebbe comunque concedere il perdono in forza della
“pienezza dei poteri” (plenitudo potestatis) sulla quale si fonda, almeno dagli ultimi secoli del
Medioevo in poi, l’autorità pontificia. Grazie alla “pienezza dei poteri” il Papa concede ancor oggi
indulgenze, particolari o plenarie, come durante l’Anno santo o la Perdonanza che si celebra ogni
anno all’Aquila. Il diritto canonico ha persino elaborato una complessa casistica relativa ai peccati
la cui assoluzione è riservata al solo pontefice. Ed è per assolvere questi peccati generalmente molto
gravi e riguardanti il cosiddetto “foro interno” (la coscienza) che nacque, già nel Duecento, un
organo curiale ancora oggi esistente, la Penitenzieria apostolica, il cui Archivio è oggetto di intense
ricerche da parte degli storici.
http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa201210/121003paravicinibagliani.pdf
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